Corriere della Sera, 27 ottobre 2024
La malattia della sanità
C’è stato un periodo, non molto tempo fa, in cui l’Italia ha promesso a sé stessa di restituire alla sanità pubblica, e in particolar modo a quella territoriale, tutto ciò che le era stato tolto. Fondi, personale, dignità. Ma c’era una pandemia in corso allora, eravamo suggestionati, si sa come vanno a finire queste cose. Da allora, la notizia legata alla sanità che ricordo meglio, forse perché emblematica, è il video di un gruppo di medici e infermieri barricati in uno stanzino del policlinico di Foggia, mentre i parenti di una paziente deceduta in ospedale, fuori, vogliono linciarli.
Per anni Milena Gabanelli e Simona Ravizza hanno portato avanti indagini sul sistema sanitario nazionale. Molte le abbiamo lette e ascoltate in Dataroom. Ma per scrivere il libro pubblicato dalla casa editrice (assai virtuosa) Fuoriscena, sono «scese più in profondità», hanno completato quei dati con molti altri e li hanno uniti in una visione d’insieme. «È stato come digerire un elefante». Confessano di aver sviluppato, lavorandoci, forme originali di ipocondria. Ma il risultato del loro sacrificio è un libro organico, chiaro in ogni suo passaggio e spaventoso in alcuni, che servirà a noi cittadini per orientarci meglio in un sistema sempre più labirintico, e per i decisori – se avranno l’umiltà di leggerlo – a decidere meglio d’ora in poi.
Una premessa va fatta, e non di piaggeria: nella sua versione ideale, ovvero quella descritta nell’articolo 32 della Costituzione, il nostro sistema sanitario è forse il migliore possibile al mondo, il più egualitario, il più accessibile: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Sintetico, elegante, esaustivo. Sarebbe ingiusto non riconoscere che pur in mezzo a innumerevoli difficoltà lo spirito costituzionale resiste oggi in molte realtà, soprattutto se si hanno malattie gravi come un tumore. Lo abbiamo visto, ancora una volta, durante l’emergenza Covid. Pur nella postura che le contraddistingue – rigorosa, distaccata, appena ironica, mai enfatica —, anche Gabanelli e Ravizza muovono dallo stesso affetto per il nostro sistema sanitario. Tanto da scegliere, per descrivere il loro sentimento davanti alla mole di dati raccolti, non la parola «indignazione», bensì «sgomento», più partecipe, più personale. Al quale aggiungerei: dispiacere.
Ci sono malfunzionamenti descritti in Codice rosso che conosciamo per esperienza diretta: se siamo stati di recente in un Pronto soccorso, se abbiamo tentato la sorte prenotando una visita dermatologica nel pubblico (l’ultima volta che l’ho fatto io, in Lazio, mi hanno offerto uno slot non so più dove, l’anno successivo), se abbiamo un anziano non autosufficiente in famiglia, se abbiamo accumulato abbastanza statistica sui medici di base (considero l’aver trovato il mio attuale, disponibile e competente com’è, una specie di grazia divina, tanto da non rivelare il suo nome neppure agli amici stretti). Ma Gabanelli e Ravizza portano alla luce molte altre storture, più nascoste e inquietanti. L’opacità nella formazione proprio di quei medici di base, «un corso triennale mal retribuito e con un programma spesso vecchio e scadente», per di più in mano al loro stesso sindacato in uno sfacciato conflitto di interessi. Le scuole di specializzazione senza i requisiti minimi per specializzare, eppure accreditate. La voragine che si è aperta nei reparti di Medicina di emergenza-urgenza. La mortalità infantile, che in alcune regioni, soprattutto del sud, è più alta che altrove.
Un elenco completo non ha senso qui, c’è il libro. Qui conviene provare a cogliere quale malattia del sistema sanitario viene fuori dall’anamnesi accurata di Gabanelli e Ravizza. E la malattia, a fine lettura, appare conclamata: un’aggressione crescente della parte pubblica del nostro sistema sanitario da parte dei soggetti privati. Cliniche, cooperative di professionisti, medical center, farmacie, assicurazioni... Un’infezione che aggredisce proprio quella natura ideale che ci fa – o ci farebbe – preferire il nostro sistema sanitario a qualunque altro. E che prospera in larga parte proprio parassitando la componente pubblica del sistema.
Un esempio: nella mancanza endemica di personale, gli ospedali si trovano a ricorrere a medici «a gettone» per coprire i turni, medici ingaggiati tramite cooperative e superpagati rispetto ai colleghi del pubblico, sebbene talvolta siano pescati proprio fra coloro che non erano riusciti ad accedere alle scuole di specializzazione. «Sono stati individuati gettonisti arruolati come ostetrici ma senza nessuna formazione per fare i parti cesarei, altri che operano in Pronto soccorso ma senza avere competenze in Medicina d’urgenza». Alcuni di loro accorpano turni sfiancanti fino a quarantotto ore filate. Un outsourcing al ribasso insomma, dissennato, molto simile a quello che avviene nel settore delle infrastrutture e dei lavori pubblici, subappalti di subappalti, con il controllo e la qualità che si riducono a ogni passaggio, talvolta causando disastri.
Un altro esempio: molti ospedali privati che lavorano in convenzione con il pubblico, ricevendone rimborsi cospicui per le prestazioni che offrono, rimandano le prenotazioni invernali all’anno successivo. Come se d’un tratto il loro ritmo fosse rallentato, o come se a Natale fossimo «tutti più sani». Un mistero. Ma mistero non è ovviamente: arrivato un certo punto dell’anno, il numero massimo di rimborsi consentito è stato raggiunto, questo significa per gli ospedali privati perdere i margini di guadagno, perciò meglio attendere, anzi far attendere i pazienti fino all’anno nuovo. Curiosità nella curiosità: secondo l’indagine di Codice rosso, alcuni medici che lavorano in questi ospedali sono particolarmente inclini a operare le colonne vertebrali, dal momento che si tratta dell’intervento più remunerativo fra quelli rimborsati dallo Stato.
E così via.
Il meccanismo che si delinea procedendo nella lettura è all’incirca il seguente: per un mix di malagestione e bieco interesse, le risorse della sanità pubblica sono arrivate a scarseggiare in molte direzioni, prima fra tutte quella del personale medico e infermieristico. Il pubblico è perciò obbligato ad affidarsi ai servizi del privato, che spinge in ogni modo affinché il divario aumenti, così da aumentare il proprio profitto. Le connivenze fra dirigenze sanitarie, lobbisti e politica permettono di amalgamare bene il tutto. Non è solo la sanità lombarda. Non è solo la sanità ligure. È tutta la sanità italiana. La deriva perversa di un sistema che dovrebbe essere ispirato a valori costituzionali diversi.
L’ultimo capitolo del libro è il più dolente. S’intitola Vecchi e abbandonati, parla dei nostri anziani e degli anziani che saremo. Leggendolo mi ha raggelato una nota di puro bilancio: dal 2020 l’Inps sta risparmiando oltre un miliardo di euro l’anno rispetto alle previsioni per via dell’eccesso di morti di Covid. Sono i pensionati deceduti prematuramente. Proiettata al 2030, questa eredità triste di oltre dieci miliardi poteva essere impiegata per i sopravvissuti. Eravamo tutti motivati a un certo punto, per ciò che avevamo visto accadere nelle Rsa, per Alzano Lombardo, e chi se lo dimentica. Tre commissioni diverse hanno infatti lavorato, sono stati redatti una bozza e una Carta dei Diritti dell’Anziano. E poi? «Risultati concreti: zero». Anche la legge voluta dall’attuale governo, che «sembrava un lieto fine», è stata svuotata nella fase attuativa. «Quattro anni e l’interesse politico sul tema è tornato a essere così basso che non esiste ancora una mappatura completa a livello nazionale dell’assistenza agli anziani nelle case di riposo».
È soprattutto ai morti del Covid, traditi due volte, che mi sembra essere silenziosamente dedicata l’indagine di Gabanelli e Ravizza. Come se restassero loro due a non essersi arrese, a non aver rimosso, in questo Paese dove «le promesse saltano», dove vedere un problema non è sufficiente per affrontarlo, questo Paese «incapace di dare ai suoi cittadini cure adeguate nella fase più complicata e fragile della loro vita» (c’è un altro libro pubblicato negli ultimi mesi che si può leggere accanto a questo per riattivare la nostra commozione per la terza età, un memoriale di Didier Eribon sul ricovero di sua madre, s’intitola Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo).
Per trovare uno slancio di speranza occorre tornare all’inizio di Codice rosso, anzi a prima dell’inizio, all’esergo di C.S. Lewis, un invito rivolto a tutti noi, certo, ma non veramente a noi, perché Gabanelli e Ravizza sono immuni a certe forme di populismo, un invito rivolto al governo e alla politica e ai dirigenti della sanità, che ci auguriamo leggano questa ostensione paziente di dati, il primo pezzo di un lavoro che dovranno proseguire; a loro, Lewis dice una cosa semplicissima: «Non puoi tornare indietro e cambiare l’inizio, ma puoi iniziare dove sei e cambiare il finale».