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 2024  ottobre 26 Sabato calendario

Le difficoltà finanziarie di Emilio Salgari

Si può essere un genio acclarato e, nel contempo, un ballista di prim’ordine: l’una cosa non esclude l’altra ed anzi, la capacità di edificare un’intelaiatura di frottole è sintomo di intelligenza acuminata. Parliamo di Emilio Salgari, prolifico artefice di avventure rutilanti nei mari e nelle selve le più lontane.
Nella veste di contatore di fole, era uso far credere al prossimo di essere stato un eroe capace di solcare le onde più perigliose. «Sapendo quanto sia diffuso il di lei giornale», scriveva nel 1883 all’editore del settimanale La Valigia, caldeggiando la pubblicazione del racconto d’esordio I selvaggi della Papuasia, «io, giovanotto sconosciuto a Milano ma di qualche nome a Verona, antico cadetto della marina mercantile, che ha viaggiato il mondo, assai studiato e assai provato, le mando questo mio scritto» avente a tema «un naufragio sulle coste della N. Guinea, e commoventi episodi, abilmente descritti per quanto compete a un uomo di mare». Nulla di vero in ciò: provò sì a frequentare l’Istituto Navale, ma ancora un poco gli crescevano le orecchie d’asino per quanto era stato somarello.
L’attitudine a inventarsi trascorsi giovanili tumultuosi gli apparteneva per indole («Vedi bene che se talvolta mi trovi inquieto e poco espansivo», si giustificava con la futura consorte, «non è perché io mi annoio con te o perché ti voglio poco bene ma perché il mio passato ha lasciato nell’essere mio delle tracce incancellabili e dei ricordi profondi, che quando si risvegliano, risvegliano anche tutti gli impeti della mia natura violenta colle sue tempeste e le sue furie»), ma la sua esistenza perennemente in bolletta, con una prole da mantenere e una moglie vieppiù incanalata nel precipizio della pazzia, incrementò la vocazione all’escapismo.
Dobbiamo fare luce sul privato del papà dei pirati della Malesia e dei corsari delle Azzorre. A tale scopo viene incontro il volume, a cura del «salgarologo» Felice Pozzo, Emilio Salgari. Lettere 1883-1911 ( Ed. Odoya, pagg. 144, euro 15.20), che raccoglie l’epistolario non definitivo del veronese, dal momento che ve ne sono a iosa di lettere sue seppellite, a tutt’oggi, ventimila leghe sotto i mari (per citare il suo «duellatore» Verne), che ancora attendono di riaffiorare a galla.
IL DUELLO
Negli anni in cui fu redattore del giornale veronese L’Arena, c’erano i concorrenti de L’Adige che sghignazzavano sui suoi millantati crediti nautici, e la cosa non gli garbava punto. «Come Ella sa», scriveva al Direttore, «i reporters dell’Adige mi vengono punzecchiando con allusioni, con scherzi di cattivo genere che non sono fatti per servire da doccie al mio carattere non di soverchio placido (…) L’altro ieri il cronista dell’Adige stampò uno scherzaccio sull’essere o non essere io Capitano di mare, e vi aggiunse che tutt’al più io devo essere stato mozzo e perciò soggetto ai calci e agli schiaffi dei marinai e del capitano».
Ci fu dapprima una scazzottata a guisa di spaghetti western col Biasioli, autore del pezzo ingiurioso, così raccontata da Salgari: «Io non mi potei più oltre contenere, e gli lasciai calare, aperta, la mia mano sulla guancia diritta, e credo che il mio colpo non sia stato tanto leggiero, poiché di rimbalzo il Biasioli rovesciò colla testa il bicchiere, la tazza e la guantiera che teneva davanti. Naturalmente egli reagì e mi diede un pugno, che io coscienziosamente gli restituii, rompendogli anche gli occhiali che aveva inforcati sul naso».
Dopodiché, la sfida a duello. Conclusosi con Salgari cornuto e mazziato, poiché non solo non uccise il rivale, ma dovette pagare 30 lire e spese processuali, accollandosi pure sei giorni di confino a Peschiera.
LA FORZA DELLA FANTASIA
La forza di una fantasia che definire fervida suonerebbe eufemistico si accompagnava a una conclamata inattitudine alla vita pratica, mostrata nella firma di contratti capestro con svariate case editrici. La Regina Margherita, consorte di Re Umberto, lo apprezzava fino a tributargli il titolo di Cavaliere della Corona d’Italia; per orgoglio personale, però, preferì non spedirle mai quella lettera in cui confessava che «dopo tanta mole di lavoro, colui che chiamano il Verne italiano, si trova nella disperante necessità di dover ricorrere alla munificenza sovrana. Ho lungamente atteso e molto esitato, pure ho dovuto abbandonare la fierezza innata dell’antico uomo di mare per dichiararmi vinto. Mi è amaro doverlo confessare, eppure io, verso in terribili condizioni finanziarie. Quattro anni or sono, S.M. mi aveva fatto chiedere se avrei desiderato un soccorso e lo rifiutai perché speravo nell’avvenire, mentre oggi mi sento impotente a continuare la lotta».
Perseguitato dalla malasorte, voleva omaggiare con un romanzo dal titolo La Stella Polare e il suo viaggio avventuroso l’impresa al Polo Nord del Duca d’Abruzzo, apponendovi la invitante promessa ai giovani lettori che «vi ho intercalato quanto si conosce sulle regioni iperboree, cercando di rendere popolare, attraente ed istruttiva la storia dei viaggi polari, dall’ultimo dei quali la nostra cara Italia ha gloria ed onore», ma il problema è che il preclaro savoiardo non gradì affatto la solerzia, essendosi già accordato con la casa editrice Hoepli per la narrazione delle sue gesta artiche.
Tra finti amici tipo Luigi Motta, che gli lisciavano il pelo per poi, dopo la sua scomparsa, firmare (con la complicità dei suoi eredi) degli apocrifi, e la speranza delusa di vedere a teatro le sue storie e di ottenere, almeno in parte, l’«incasso di questi famosi baiocchi che si fanno vedere con parsimonia», si giunge al finale mesto del suicidio, con quattro lettere pervenute di cui una, avvilita, ai figli, accomiatandosi da essi con le parole «Vi bacia col cuore sanguinante il vostro disgraziato padre» e una più guerresca agli editori, accusati di essersi «arricchiti colla mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche più».
Dopo la «jungla nera» della vita lo attendevano, purtuttavia, i giardini lussureggianti della gloria perpetua.