Corriere della Sera, 26 ottobre 2024
Il racconto del Mancio d’Arabia
Forse si può aggiungere qualche piccola riflessione sul caso di Roberto Mancini, che torna in Italia trascinandosi dietro una valigia piena di bigliettoni, dicono 50 milioni, forse pure qualcosa in più, certo un bel gruzzolo, roba da sistemarci intere generazioni, anche se non è il caso di indugiare sull’argomento: l’ex ct dell’Arabia Saudita, dopo la sconfitta contro il Giappone, ha già risposto bruscamente, con aria infastidita, toccandosi il noto ciuffo color mogano, a un cronista nipponico che cercava solo di capire come riuscisse a farsi pagare così tanto, pur facendo giocare così tanto male la sua Nazionale – «Vuoi vedere il mio conto in banca?»: e quello, il cronista, ha ovviamente incassato, mentre tutti gli altri cronisti sauditi hanno proprio chinato subito la testa, perché in Arabia Saudita i giornalisti hanno imparato che è meglio chinarla, e non fare domande (Mancini lo sa, qualcuno gliel’ha mai spiegato dov’è che ha lavorato? Lo sa che il principe della Corona saudita e primo ministro Mohammad bin Salman Al Sa’ud è accusato – anche da Amnesty International – d’essere il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi?).
Vabbé, dettagli, guardiamo avanti. Perché il problema imminente è avanti, nelle settimane che verranno. Quando a Mancini si apriranno due possibilità. La prima: può decidere di godersi la vita più di quanto non abbia già fatto finora. E considerate che comunque lui se l’è goduta da subito, fin da ragazzo, talento pazzesco, avercelo oggi uno così, il ragazzino che Enzo Bearzot, nel 1984, convoca in Nazionale per la tournée negli Stati Uniti: dove Mancini, una sera, dopo cena, scivola fuori dall’albergo di New York – c’era pure Marco Tardelli, sembra, nell’allegra brigata – e punta diritto verso il leggendario Studio 54, all’epoca tempio della musica dance, situato sulla 54ª strada ovest, Manhattan, il cuore della Grande Mela, da cui emerge solo quando il sole comincia a sorgere (provate a immaginare il mitico Vecio, che lo aspettava a colazione, con la pipa tra i denti).
La seconda possibilità, però, è quella più percorribile, e probabile: perché – come sappiamo – se sei cresciuto nel calcio, se ci vivi dentro da sempre, fatichi ad andartene, a girare pagina (Totti, per dire, non si rassegna: e, a 48 anni suonati, tra divorzi, flirt e comparsate tivù, bicchierate con gli amici e cofane di amatriciana, sembra stia davvero meditando di tornare in campo). Così magari succederà che, tra qualche settimana, un club – in Italia, piuttosto che in Inghilterra, o in Spagna – penserà a Mancini (disastro mediorientale a parte, è comunque uno che si porta addosso un bel wikipedia di successi, compreso il trionfo azzurro di Londra). E Mancini dirà va bene, ci sono. Ma i tifosi?
Eccoci arrivati al punto. I tifosi potranno mai fidarsi, e innamorarsi, di uno che nell’agosto del 2023 lascia di botto la Nazionale, la Nazionale del suo Paese, senza mezza smorfia di preavviso, mollandoci a poche settimane da due partite fondamentali (con la Macedonia del Nord e l’Ucraina) per qualificarci all’Europeo di Germania? Ve lo ricordate cosa disse? Disse: «Non mi sento più nell’ambiente giusto». L’elegantone Mancini – quello che sta attento al nodo della sciarpa, non alla forma di un saluto – aveva solo sentito l’odore dei soldi. Che non bastano mai, si sa. E allora spiegacelo. Signore e signori, scusatemi: non resisto. Voglio diventare ricco sfondato e un’occasione così, capirete, non tornerà più. Avremmo capito, mister. Non ci sarebbe piaciuto, ci saremmo rimasti male lo stesso. Ma avremmo capito.
Così, invece. È andato laggiù – no, sul serio: se lo faccia raccontare chi è bin Salman, magari non da Matteo Renzi – ha cercato di spiegare cos’è una diagonale ad aspiranti calciatori che la guardavano immobili e meravigliati come pastorelli al passaggio di un Re Magio, e poi è finito a farsi prendere a pallate dal Mali (ci avete perso 3-1) e a pareggiare – capito? a pareggiare – con la Palestina e la Thailandia. Santo Cielo, si rende conto? La sera cosa faceva: tornava in albergo e guardava dentro il valigione, per dirsi che – tutto sommato – ne valeva la pena?
E poi, mister, in confidenza, senta una cosa: qui noi si vive di stipendio, aspettiamo la busta paga a fine mese e – detto con orgoglio – arriva pure già netta, perché le tasse, tutte, fino all’ultimo centesimo, ci pensa l’azienda, a pagarcele. Siamo dei poveracci, rispetto a lei. Gente da mutuo, per capirci. Però quando l’Italia entra sul prato e attaccano l’Inno di Mameli, noi cronisti ci si alza in piedi, in un miscuglio di emozione e privilegio. Perché la Nazionale è la Nazionale. E quando vediamo gli occhi lucidi e accesi, come brace, di Luciano Spalletti, pensiamo che quello, ecco quello sì che è un vero c.t. azzurro.