la Repubblica, 25 ottobre 2024
Le poesie di denuncia di Susana Chávez Castillo
Colma di presenza e incantata dall’assenza, la poesia di Susana Chávez Castillo è un materiale incandescente: dolorosa, erotica, ironica, domestica, intrecciata al fiume di anime del mondo. È una flebo di luce che entra nelle vene vive di una terra e di un tempo dove ogni cosa che sia di donna muore. L’incontro con le sue parole è una rivelazione, un sussurro, un’antifona di consapevolezza: da lei in avanti nessuno potrà più dire non sapevo, non credevo. È uno schiaffo e una carezza, è la sua vita stessa che si fa parola – pur recintata da un feretro di disprezzo e dileggio. Riprenderla nel corpo, tradurla, è stata una festa di resurrezione. È stato come se fosse tornata, intatta, a parlare.Ho provato a portare nella nostra lingua le sue intenzioni, prima e più ancora del suo lessico. A sentire la sua febbre, la sua rabbia e il suo desiderio. Non sempre la traduzione è letterale: avrebbe perso potenza, mi è parso. Ho provato a riportarla qui viva, come una commensale alla nostra tavola, una sera. È una compagnia lucente, illuminante, scandalosa e – in un modo molto profondo – gioiosa.La lingua di Susana Chávez Castillo è un mondo all’interno del quale non vale altra regola che non sia la libertà. È una regola chiarissima, questa, ma irriproducibile: la libertà, per sua natura, è bussola diversa per ciascuno. Ogni persona libera lo è nelle sue circostanze e con le sue intenzioni, dentro il suo orizzonte di tempo e di luogo. Lo stesso vale per la lingua. Qui siamo davanti a uno spartito che tiene insieme la lingua alta dell’università e delle lettere, l’eco degli studi di psicologia, i riferimenti alla poesia e alla musica del suo tempo – Alfonsina Storni, Chavela Vargas – e molta, moltissima lingua della casa e della strada. Le ninnenanne popolari, il lessico familiare, le potenti leggende messicane che fanno parte del cuento, il racconto di un popolo. Lo sciamanesimo, gli animali totemici, glialebrijes spiriti guida. Il turpiloquio che scaturisce dallo spavento e dal dolore, dalla passione. Il dio con la minuscola, ma poi maiuscolo altrove. Una citazione altissima, una struttura classica, subito però il gergo del barrio, diverso di quartiere in quartiere, di banda in banda, dunque cosa significa, esattamente, quella parola, se due chilometri più in là, a Ciudad Juárez, si tinge di altro senso? Non basta il contesto, a decifrare questa linguamondo.Né, d’altra parte, si può far riferimento a un corpus poetico antecedente, non si possono cercare analogie altrove nei suoi stessi scritti: rispetto aPrima tempesta un altrove non c’è. È dunque tutto qui dentro, quello che abbiamo per orientarci. Neppure la sequenza delle poesie ci aiuta, non è stata l’autrice a determinarla: non è lei a indicare un percorso, è stato chi dopo la sua morte ha raccolto, ritrovato e trascritto centinaia di fogli e carte sparse. Susana Chávez scriveva sui tovaglioli di carta dei bar, quando le è stato possibile le sue poesie sono state la moneta con cui ha saldato il conto. Scriveva ovunque, da quando era bambina, talvolta anche in modo ortodosso, certo, ma mai con un progetto. Non un progetto editoriale, intendo: mai per pubblicare, cosa che non le si è offerta in vita. Scriveva per leggere ad alta voce, per donare, per fare bibliomanzia, per amare, per ricordare, per denunciare, per vivere.L’attivismo e il femminismo di Chávez nascono dalla sua esperienza di vita in modo istintivo e razionale assieme, ma sempre prescindono dai grandi testi di riferimento, talvolta li precedono. Le sue poesie d’amore, anche quando si tratta di amore carnale, sono rivolte nella maggior parte dei casi a donne: Susana ha amato principalmente donne ma non sono soltanto donne i destinatari delle sue liriche. In qualche caso, anzi, sono certamente uomini. Quindi laddove non c’è nessun riferimento lessicale di genere, nei versi, è un totale azzardo scegliere nella traduzione italiana se declinare un aggettivo, poniamo, al maschile o al femminile. Bisognerebbe sapere dalla sua biografia a chi, con chi stava parlando e non si sa, non sempre almeno, ma anche saperlo, credo, non servirebbe e non basterebbe a definire un orizzonte che non è biografico, è più largo della declinazione di genere. È specificoe al contempo universale. Chissà cosa avrebbe fatto, la poeta, se avesse avuto la possibilità di attingere agli strumenti che oggi abbiamo per non definire il genere di una parola. Chissà se avrebbe usato asterischi, schwa, altri segni. Non lo sappiamo. È vero però che la lingua spagnola è più indulgente e ampia della nostra, meno assertiva, ha maggiori echi di neutro estinto, è capace di restare in una dimensione favolistica, non didascalica, primordiale. Contiene maggiori margini di ambiguità e di conseguenza massime possibilità di errore. È lì, nell’errore, che ho deciso di accogliere Susana Chávez e di stringere un patto con lei. Altrove, del resto, non potevo. L’errore è sempre errore rispetto a una regola, ma se qui la regola è la libertà allora non si può essere mai totalmente in errore. Al limite si è in un luogo limitrofo a quello originale, un luogo diverso, suo e nostro al contempo ma diverso, un terzo luogo.Si può decidere che il vocabolo spagnolo ideología significhi “ideologia”, o “credo”, o “racconto”. Si può decidere, nel tradurre inesperado, se sia “inatteso”, “inaspettato” o “imprevisto”. Non è la stessa cosa: devi scegliere fra la nota sotterranea di sorpresa e quella di pericolo. Ho scelto il pericolo, considerando quanto Susana ne ha corso fino a che non l’hanno uccisa.Della vita di Susana Chávez non vorrei dir molto. Troppe volte, per troppo tempo la sua biografia si è ridotta alla sua morte: l’ennesimo femminicidio, lì dove le donne spariscono e non si trovano i cadaveri, neppure le ossa. Aveva trentasei anni. Il suo Ni una más diventato slogan globale, la sua militanza indefessa e vitale, così sfrontatamente incurante del pericolo: niente l’avrebbe fermata, niente l’ha fermata.È della sua opera, invece, che è bello dire. È lì che è bello stare. Lei era dove tutto questo accadeva prima che il mondo lo vedesse, lo sapesse. Lei non aveva gruppi di sostegno, seguaci che non fossero le donne in carne e ossa che condividevano i suoi giorni, le sue notti. Lei non era in questo tempo, dove ogni parola ha un’eco nel mondo se sai come dirla, a chi affidarla. Lei contavasolo su di sé, su poche altre. Lei faceva senza annunciare, non annunciava senza fare. Viveva e basta, nel solo modo possibile. Nell’incanto, nella rabbia, nel desiderio e nell’errore.Lei ha segnato la strada, per tutte.Le sue poesie, inoltre, sono magnifiche