The Economist, 21 ottobre 2024
L’Economist inaspettatamente elogia Meloni
La politica italiana è rimasta a lungo intrappolata in un ciclo di rancida interazione tra giudici e pubblici ministeri da un lato e politici conservatori dall’altro. Tutto è iniziato al più presto nel 1994, quando all’allora primo ministro Silvio Berlusconi fu notificato un mandato di comparizione mentre era a Napoli, dove ospitava una conferenza sulla criminalità organizzata. Berlusconi e i suoi sostenitori protestarono di essere vittime di giuristi spinti da motivazioni politiche – e negli anni successivi hanno ripetuto tale affermazione fino alla nausea.
Il 21 ottobre accuse simili sono state sollevate quando il gabinetto di destra di Giorgia Meloni si è riunito per discutere come rispondere a un altro drammatico intervento giudiziario. Un tribunale di Roma aveva stabilito che 12 migranti, spediti in Albania, dovessero essere riportati immediatamente in Italia. La sentenza è arrivata pochi giorni dopo che due centri di costruzione italiana per l’accoglienza e il trattenimento dei richiedenti asilo erano stati orgogliosamente inaugurati in occasione del lancio di un programma da 670 milioni di euro (730 milioni di dollari) per esternalizzare i problemi di immigrazione dell’Italia. La risposta del governo è stata quella di approvare un decreto che mira ad aggirare la sentenza designando un elenco di paesi come “sicuri” per il ritorno di persone che non sono valutate come veri rifugiati; ma non vi è alcuna garanzia che i tribunali non lo annullino.
La Meloni ora rischia una lunga disputa con i tribunali, come quella affrontata dall’Uk sui piani del precedente governo conservatore, che propose di inviare i migranti in Ruanda. Resta da vedere se ciò eroderà il suo sostegno. Ma ridurre il flusso di migranti attraverso il Mediterraneo è fondamentale per la sua missione. E se i centri rimarranno vuoti a lungo, diventeranno il bersaglio degli scherzi dei comici e delle critiche dei contribuenti.
La brusca sospensione del progetto è il rifiuto più imbarazzante che la Meloni abbia subito da quando è entrata in carica due anni fa. Fino alla settimana scorsa, infatti, lei e il suo partito Fratelli d’Italia (FDI) avevano avuto un percorso straordinariamente tranquillo. In parte è una questione di fortuna. L’opposizione al suo governo è divisa con rancore tra il Partito Democratico di centrosinistra e l’anticonformista Movimento Cinque Stelle. I partner della coalizione dei Fratelli, il partito più moderato Forza Italia guidato da Antonio Tajani e la Lega più radicale guidata da Matteo Salvini, litigano incessantemente, ma non mostrano alcun segno di diserzione. L’economia italiana è cresciuta, anche se modestamente.
Ma la sua buona fortuna non dovrebbe sminuire il riconoscimento delle capacità della Meloni come funambolo politico e diplomatico. Prendiamo ad esempio le manovre seguite alle elezioni del Parlamento europeo di giugno. Seccata per essere stata esclusa dai colloqui che hanno portato alla rinnovata nomina di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione europea, la Meloni si è astenuta dall’approvare la sua riconferma nel Consiglio europeo e i Fratelli d’Italia hanno dato il pollice verso alla von der Leyen nel Parlamento europeo. Ciò li ha allineati con gli elementi più euroscettici e combattivamente di destra dell’UE.
I deputati italiani dell’opposizione sono rimasti sconvolti. I commentatori hanno avvertito che il primo ministro ha fatto naufragare ogni possibilità che l’Italia ottenga un portafoglio economico di peso elevato. In realtà non è accaduto nulla del genere. Il candidato della Meloni, Raffaele Fitto, potrebbe diventare vicepresidente della Commissione. E, una volta che la sua nomina sarà approvata dal Parlamento europeo, tra le sue responsabilità rientrerà quella sul fondo per la ripresa pandemica, del quale l’Italia è di gran lunga il maggiore beneficiario.
A casa, la Meloni ha giocato un gioco altrettanto abile e ambiguo. Una riforma costituzionale potenzialmente controversa è stata ritardata e probabilmente non sarà sottoposta a referendum prima della fine dell’attuale legislatura nel 2027. La gestione dell’economia da parte del suo governo è stata sufficientemente sensata, sebbene priva di qualsiasi sforzo reale per affrontare le sue debolezze strutturali. La bozza di bilancio del prossimo anno, che impone tagli per riequilibrare i conti pubblici, potrebbe essere scritta a Bruxelles.
Un’azione più radicale è stata riservata alle questioni sociali. L’esempio più recente è una legge, approvata dal parlamento il 16 ottobre, che criminalizza le persone che viaggiano all’estero per organizzare una gravidanza surrogata. Ma, come le precedenti iniziative di questo tipo, si rivolge a una fascia limitata della popolazione, composta da persone che comunque probabilmente non voterebbero mai per i Fratelli d’Italia.
Tre domande incombono sul resto del mandato della Meloni. Il primo è se l’effetto cumulativo di tali incursioni di “guerra culturale” potrebbe trasformare l’Italia in un paese molto meno liberale, allineandola più all’Europa centrale che a quella occidentale. Un’altra questione è se, in assenza di riforme, un’economia a crescita lenta potrebbe causare problemi al governo sui mercati finanziari. Si prevede che il debito pubblico, che era in calo, salirà a quasi il 140% del Pil entro la fine del 2026. Ma le entrate fiscali quest’anno sono state più elevate del previsto e gli analisti sembrano tranquilli. Il 18 ottobre Fitch, un’agenzia di rating, ha rivisto le sue prospettive per il debito a lungo termine dell’Italia da “stabile” a “positivo”.
Un rischio meno quantificabile riguarda lo stile micro-manageriale della Meloni. «Vuole controllare tutto», dice Giovanni Orsina, professore di storia contemporanea all’università Luiss di Roma. «E non si fida di nessuno. Potrebbe sovraccaricarsi o perdere il contatto con la realtà».
Ma per il momento la realtà è che la Meloni gode di un indice di gradimento superiore al 40%, il doppio di quello del presidente Emmanuel Macron della Francia e del cancelliere Olaf Scholz della Germania. Non male per un primo ministro che si avvicina al punto di medio termine in cui la popolarità dei leader spesso crolla.