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 2024  ottobre 20 Domenica calendario

Le storture di una «età dell’oro» basata solo sui soldi spiegate dal Premio Nobel per l’Economia, Daron Acemoglu

I miliardari del settore tecnologico come Bill Gates, Mark Zuckerberg ed Elon Musk non sono solo tra le persone più ricche della storia umana, sono anche straordinariamente potenti da un punto di vista sociale, culturale e politico. Sebbene ciò rifletta in parte lo status sociale che la nostra società attribuisce alla ricchezza in generale, c’è dell’altro.
Quello che conta ancor più della ricchezza in sé è che questi miliardari sono considerati dei geni dell’imprenditoria dotati di livelli unici di creatività, audacia, lungimiranza e competenza su una vasta gamma di argomenti. Se a ciò si aggiunge il fatto che molti di essi controllano i principali mezzi di comunicazione, ovvero le principali piattaforme di social media, si ottiene uno scenario quasi senza precedenti nella storia recente.
L’immagine del ricco e coraggioso imprenditore che trasforma il mondo si può far risalire almeno all’epoca dei robber baron, i baroni ladri dell’Età dorata. Una delle principali fonti del suo fascino popolare contemporaneo, tuttavia, è il romanzo Atlas Shrugged di Ayn Rand (uscito in Italia con il titolo La rivolta di Atlante), il cui protagonista, John Galt, cerca di ricreare il capitalismo con la sola forza del suo idealismo e della sua volontà.
Se il romanzo della Rand è da tempo considerato una sorta di libro canonico dagli imprenditori della Silicon Valley e dai politici di orientamento libertario, l’influenza del suo archetipo centrale non è certo limitata a questi ambienti. Da Bruce Wayne (Batman) e Tony Stark (Iron Man) fino a Darius Tanz nella serie televisiva Salvation, i ricchi e tecnologici innovatori che salvano il mondo da un disastro imminente sono diventati un classico della nostra cultura popolare.
Il potere del portafoglio
Alcuni individui avranno sempre più potere di altri, ma quand’è che il potere diventa troppo? Una volta, il potere era legato alla forza fisica o al valore militare. Oggi, invece, i suoi vantaggi derivano da quello che io e Simon Johnson chiamiamo “potere di persuasione”, un potere che, come spieghiamo nel nostro libro Power and Progress, affonda le radici nello status sociale o nel prestigio. Più elevato è lo status, più facilmente si riesce a persuadere gli altri.
Le fonti dello status sociale variano notevolmente tra le società, così come varia la misura della sua ineguale distribuzione. Negli Stati Uniti, lo status divenne saldamente ancorato al denaro e alla ricchezza durante la Rivoluzione industriale e, di conseguenza, la disparità di reddito e di ricchezza crebbe vertiginosamente. Pur essendoci stati, in vari periodi, tentativi da parte dei governi di invertire la tendenza, la struttura della società americana è sempre stata caratterizzata da una forte gerarchia legata allo status sociale.
Una siffatta struttura appare problematica per diverse ragioni. Innanzitutto, la costante competizione per ottenere uno status sociale, e quindi il potere di persuasione che ne deriva, è perlopiù un gioco a somma zero, perché lo status è un “bene posizionale”. Più status per un individuo significa meno status per il suo vicino, e una società fortemente gerarchizzata in tal senso implica che alcune persone saranno felici mentre molte altre saranno infelici e insoddisfatte.
Inoltre, gli investimenti in attività a somma zero tendono a essere inefficienti ed eccessivi rispetto agli investimenti in attività a somma diversa da zero. È meglio spendere un milione di dollari in Rolex d’oro o nell’acquisizione di nuove competenze?
Entrambi gli investimenti possono avere un valore intrinseco – la bellezza dell’orologio a fronte dell’orgoglio di acquisire nuove conoscenze – ma mentre il primo si limita a segnalare che un individuo è più ricco e più capace di consumi vistosi rispetto ad altri, il secondo incrementa il suo capitale umano e può anche essere utile alla società. Il primo è prevalentemente a somma zero, il secondo a somma diversa da zero. E la cosa peggiore è che nel primo caso la situazione può facilmente sfuggire di mano perché comporta che tutti spendano sempre di più in quel tipo di beni per restare davanti agli altri.
Gli osservatori spesso si chiedono perché chi ha centinaia di milioni di dollari dovrebbe aver bisogno di altre centinaia di milioni. Sono poche le cose che non possiamo permetterci disponendo già di 500 milioni di dollari, quindi perché desiderarne un miliardo? Perché l’essere “miliardario” rappresenta uno status sociale. Ciò che conta non è la capacità di spesa, ma il prestigio e il potere che il denaro conferisce rispetto ai propri pari. In un equilibrio secondo cui “ricchezza è status”, la folle corsa degli ultra-benestanti ad accumulare sempre più ricchezza diventa inevitabile.
La dittatura del dilettantismo
Esistono basi evolutive e sociali per associare il potere di persuasione allo status sociale e al prestigio. D’altronde, a livello individuale è razionale imparare da persone esperte ed è ragionevole collegare l’esperienza al successo.
Fra l’altro, questa forma di apprendimento è positiva per le comunità perché facilita il coordinamento e la convergenza verso le buone pratiche. Quando però lo status sociale è legato alla ricchezza, e la disparità di ricchezza aumenta a dismisura, le fondamenta su cui poggia l’esperienza iniziano a sgretolarsi.
Facciamo il seguente esperimento mentale. Chi ha maggiori competenze in materia di falegnameria, un bravo falegname o un miliardario dei fondi speculativi? La scelta del primo appare naturale, tuttavia, quanto più la ricchezza conferisce status sociale, tanto maggiore è il peso che avranno le opinioni dei miliardari dei fondi speculativi, anche in materia di falegnameria. Oppure, prendiamo un altro esempio contemporaneo, più pertinente.
Quale opinione sulla libertà di parola conta di più oggi, quella di un miliardario del tech o quella di un filosofo che si è a lungo interrogato sul tema e le cui prove e argomentazioni sono state sottoposte al vaglio di altri esperti qualificati? Milioni di persone su X (Twitter) hanno imp licitamente scelto il primo.

Più veniamo trascinati nella mentalità che “ricchezza è status”, più rischiamo di accettare la supremazia dei miliardari della tecnologia. Eppure, è difficile credere che la ricchezza possa essere un perfetto strumento di misura del merito o della saggezza, o addirittura un nullaosta a esprimersi come un’autorità in materia di falegnameria o di libertà di parola.
La ricchezza, poi, è sempre in qualche modo arbitraria. Possiamo discutere all’infinito se LeBron James sia migliore di Wilt Chamberlain all’apice della sua carriera cestistica, ma in termini di ricchezza non c’è gara. Mentre Chamberlain, all’epoca della sua morte nel 1999, aveva accumulato un patrimonio netto pari a 10 milioni di dollari, quello di James è stimato in 1,2 miliardi di dollari. Questa differenza non riguarda il talento o l’etica professionale del singolo giocatore, semmai il fatto che Chamberlain visse in un’epoca in cui le star dello sport non erano remunerate come quelle di oggi. Ciò è dipeso in parte dalla tecnologia (oggi tutti possono guardare James grazie alla tv e ai media digitali), in parte dalle norme sociali (pagare centinaia di milioni alle superstar della cultura popolare è diventato più accettabile) e in parte dalle tasse (se gli Stati Uniti avessero ancora un’aliquota marginale massima sul reddito superiore al 90%, James avrebbe meno soldi e nel Paese vi sarebbe meno disparità di ricchezza). Allo stesso modo, se il settore tecnologico non fosse diventato così centrale per l’economia, e se non fosse guidato da una dinamica del “vincitore piglia tutto” così marcata (che è in parte una questione di scelta su come organizzare certi mercati), gli odierni magnati della tecnologia non sarebbero diventati così ricchi. Il fatto che Gates e Musk siano stati tassati meno non li rende più saggi, ma certamente li ha resi più benestanti e quindi più influenti nell’ambito della mentalità dominante che “ricchezza è status”.
Il potere corrompe
Tali figure beneficiano inoltre di una dinamica ancora più deleteria che io e Johnson spieghiamo nel libro Power and Progress usando l’esempio di Ferdinand de Lesseps. Lesseps raggiunse uno status elevato nella Francia di fine Ottocento, dove era conosciuto come “il Grande Francese”, grazie al suo successo nel realizzare la costruzione del Canale di Suez malgrado la lunga opposizione della Gran Bretagna al progetto. Lesseps fu lungimirante e dimostrò grande abilità nel convincere i politici egiziani e francesi che il commercio marittimo internazionale sarebbe diventato molto importante. Ma fu anche incredibilmente fortunato: le tecnologie sperate, necessarie per costruire il canale senza chiuse (cosa inizialmente impossibile a causa della quantità di scavi e di sbancamenti richiesti), vennero sviluppate appena in tempo per salvare il progetto.
Con la vittoria di Suez, Lesseps acquisì grande prestigio. Ma ciò che fece con il suo nuovo status è istruttivo: si trasformò in un individuo temerario, instabile e presuntuoso, spingendo il progetto del Canale di Panama in una direzione impraticabile che alla fine portò alla morte di più di ventimila persone e alla rovina finanziaria di molte altre (compresa la sua stessa famiglia). Come tutte le forme di potere, il potere di persuasione può rendere arroganti, incontrollati, distruttivi e socialmente odiosi.
La storia di Lesseps continua a essere importante perché riecheggia chiaramente nel comportamento di molti miliardari di oggi. Se è vero che alcuni degli individui più ricchi d’America non usano la loro condizione di ricchezza per influenzare dibattiti pubblici cruciali (si pensi a Warren Buffett), è anche vero che molti altri lo fanno. Gates, Musk, George Soros e altri non esitano a intervenire su questioni per loro importanti e, sebbene sia facile accogliere con favore i contributi di coloro con cui ci troviamo d’accordo, dovremmo resistere alla tentazione di farlo. Ha molto senso per la società attingere alle conoscenze e alla sapienza di chi è esperto su un dato argomento, ma è controproducente amplificare lo status di coloro che ne hanno già in abbondanza (e si impegnano a fondo per rafforzarlo).
Un’altra via
Naturalmente, non è tutta colpa dei miliardari se la politica statunitense sta favorendo l’aumento delle disuguaglianze (anche se di certo essi spingono per politiche che vanno in questa direzione). Tuttavia, se abusano dell’immenso status sociale che la ricchezza offre loro in condizioni di crescente disparità, questi soggetti dovrebbero assumersi le loro responsabilità. Ciò vale in particolare quando sfruttano il loro status per promuovere i propri interessi economici a scapito degli altri, o per polarizzare una società già divisa con una retorica provocatoria o comportamenti mirati alla ricerca di prestigio.
Esercitando già un’influenza sociale, culturale e politica eccessiva, l’ultima cosa che dovremmo volere è offrire a questi miliardari fuori controllo delle tribune pubbliche ancora più ampie, ad esempio sotto forma di un proprio social network, come nel caso di Musk attualmente proprietario di X. Bisognerebbe invece avvalersi di mezzi istituzionali più forti per limitare il potere e l’influenza di quanti sono già dei privilegiati, e rivedere le politiche fiscali, normative e di spesa che sono all’origine di queste enormi disparità.
Ma il passo più importante sarà anche il più difficile. Dobbiamo iniziare a parlare seriamente di ciò che andrebbe valorizzato e di come riconoscere e ricompensare i contributi di coloro che non gestiscono grandi fortune. Sebbene la maggior parte delle persone sia d’accordo sul fatto che ci sono molti modi per contribuire alla società e che eccellere nella propria vocazione dovrebbe essere fonte di soddisfazione individuale e di stima da parte degli altri, abbiamo trascurato questo principio e rischiamo di dimenticarlo del tutto. Anche questo è un sintomo del problema.
© PROJECT SYNDICATE 2024
 

Più veniamo trascinati nella mentalità che “ricchezza è status”, più rischiamo di accettare la supremazia dei miliardari della tecnologia. Eppure, è difficile credere che la ricchezza possa essere un perfetto strumento di misura del merito o della saggezza, o addirittura un nullaosta a esprimersi come un’autorità in materia di falegnameria o di libertà di parola.
La ricchezza, poi, è sempre in qualche modo arbitraria. Possiamo discutere all’infinito se LeBron James sia migliore di Wilt Chamberlain all’apice della sua carriera cestistica, ma in termini di ricchezza non c’è gara. Mentre Chamberlain, all’epoca della sua morte nel 1999, aveva accumulato un patrimonio netto pari a 10 milioni di dollari, quello di James è stimato in 1,2 miliardi di dollari. Questa differenza non riguarda il talento o l’etica professionale del singolo giocatore, semmai il fatto che Chamberlain visse in un’epoca in cui le star dello sport non erano remunerate come quelle di oggi. Ciò è dipeso in parte dalla tecnologia (oggi tutti possono guardare James grazie alla tv e ai media digitali), in parte dalle norme sociali (pagare centinaia di milioni alle superstar della cultura popolare è diventato più accettabile) e in parte dalle tasse (se gli Stati Uniti avessero ancora un’aliquota marginale massima sul reddito superiore al 90%, James avrebbe meno soldi e nel Paese vi sarebbe meno disparità di ricchezza). Allo stesso modo, se il settore tecnologico non fosse diventato così centrale per l’economia, e se non fosse guidato da una dinamica del “vincitore piglia tutto” così marcata (che è in parte una questione di scelta su come organizzare certi mercati), gli odierni magnati della tecnologia non sarebbero diventati così ricchi. Il fatto che Gates e Musk siano stati tassati meno non li rende più saggi, ma certamente li ha resi più benestanti e quindi più influenti nell’ambito della mentalità dominante che “ricchezza è status”.
Il potere corrompe
Tali figure beneficiano inoltre di una dinamica ancora più deleteria che io e Johnson spieghiamo nel libro Power and Progress usando l’esempio di Ferdinand de Lesseps. Lesseps raggiunse uno status elevato nella Francia di fine Ottocento, dove era conosciuto come “il Grande Francese”, grazie al suo successo nel realizzare la costruzione del Canale di Suez malgrado la lunga opposizione della Gran Bretagna al progetto. Lesseps fu lungimirante e dimostrò grande abilità nel convincere i politici egiziani e francesi che il commercio marittimo internazionale sarebbe diventato molto importante. Ma fu anche incredibilmente fortunato: le tecnologie sperate, necessarie per costruire il canale senza chiuse (cosa inizialmente impossibile a causa della quantità di scavi e di sbancamenti richiesti), vennero sviluppate appena in tempo per salvare il progetto.
Con la vittoria di Suez, Lesseps acquisì grande prestigio. Ma ciò che fece con il suo nuovo status è istruttivo: si trasformò in un individuo temerario, instabile e presuntuoso, spingendo il progetto del Canale di Panama in una direzione impraticabile che alla fine portò alla morte di più di ventimila persone e alla rovina finanziaria di molte altre (compresa la sua stessa famiglia). Come tutte le forme di potere, il potere di persuasione può rendere arroganti, incontrollati, distruttivi e socialmente odiosi.
La storia di Lesseps continua a essere importante perché riecheggia chiaramente nel comportamento di molti miliardari di oggi. Se è vero che alcuni degli individui più ricchi d’America non usano la loro condizione di ricchezza per influenzare dibattiti pubblici cruciali (si pensi a Warren Buffett), è anche vero che molti altri lo fanno. Gates, Musk, George Soros e altri non esitano a intervenire su questioni per loro importanti e, sebbene sia facile accogliere con favore i contributi di coloro con cui ci troviamo d’accordo, dovremmo resistere alla tentazione di farlo. Ha molto senso per la società attingere alle conoscenze e alla sapienza di chi è esperto su un dato argomento, ma è controproducente amplificare lo status di coloro che ne hanno già in abbondanza (e si impegnano a fondo per rafforzarlo).
Un’altra via
Naturalmente, non è tutta colpa dei miliardari se la politica statunitense sta favorendo l’aumento delle disuguaglianze (anche se di certo essi spingono per politiche che vanno in questa direzione). Tuttavia, se abusano dell’immenso status sociale che la ricchezza offre loro in condizioni di crescente disparità, questi soggetti dovrebbero assumersi le loro responsabilità. Ciò vale in particolare quando sfruttano il loro status per promuovere i propri interessi economici a scapito degli altri, o per polarizzare una società già divisa con una retorica provocatoria o comportamenti mirati alla ricerca di prestigio.
Esercitando già un’influenza sociale, culturale e politica eccessiva, l’ultima cosa che dovremmo volere è offrire a questi miliardari fuori controllo delle tribune pubbliche ancora più ampie, ad esempio sotto forma di un proprio social network, come nel caso di Musk attualmente proprietario di X. Bisognerebbe invece avvalersi di mezzi istituzionali più forti per limitare il potere e l’influenza di quanti sono già dei privilegiati, e rivedere le politiche fiscali, normative e di spesa che sono all’origine di queste enormi disparità.
Ma il passo più importante sarà anche il più difficile. Dobbiamo iniziare a parlare seriamente di ciò che andrebbe valorizzato e di come riconoscere e ricompensare i contributi di coloro che non gestiscono grandi fortune. Sebbene la maggior parte delle persone sia d’accordo sul fatto che ci sono molti modi per contribuire alla società e che eccellere nella propria vocazione dovrebbe essere fonte di soddisfazione individuale e di stima da parte degli altri, abbiamo trascurato questo principio e rischiamo di dimenticarlo del tutto. Anche questo è un sintomo del problema.