La Lettura, 24 ottobre 2024
Chi ha ucciso Anna Karenina? Il libro della Fusini
Anna Karenina, Emma Bovary, Effi Briest, Hedda Gabler (e molte altre) sono figure che dominano la letteratura ottocentesca dall’alto di una fine tragica e luttuosa che le accomuna, insieme a un vissuto che di quella fine denuncia l’ignominia, l’ingiustizia non generica ma circostanziata e quindi storica, sociale, determinata dalla rete di rapporti in cui i loro autori le hanno collocate.
Chi e che cosa ne ha provocato la morte? – si domanda Nadia Fusini nel saggio Chi ha ucciso Anna Karenina? Inchiesta sugli omicidi bianchi nei romanzi dell’Ottocento, uscito da poco per minimum fax. La studiosa, ripercorrendo con un finissimo esercizio di analisi testuale la struttura del romanzo tolstojano, ma anche di Madame Bovary e di Hedda Gabler, a cinquant’anni dalla prima edizione – il saggio era in origine apparso nel 1974 sulla rivista «Per la critica» – risponde così: «Risulta di nuovo chiaro e lampante come non si tratti di suicidi ma di assassini preterintenzionali e dolosi al tempo stesso; di omicidi bianchi, per l’appunto».
Mandanti e quindi responsabili di tali morti bianche sarebbero gli uomini di cui queste donne sono circondate: mariti, amanti, ex fidanzati. Nessuno di loro, dei vari Charles Bovary, Tesman, Karenin e Vronskij le ha uccise con le proprie mani, ma il suicidio che esse si sono date era l’unico sbocco di una vita in cui non trovavano più posto come madri, amanti, mogli, e nessuno spazio nuovo era previsto per il loro essere donne, al di fuori di quei ruoli e di quelle rigide convenzioni.
La sovrapposizione, emotiva quantomeno, con le cronache dei femminicidi contemporanei è perfino troppo facile e, come Fusini avverte, rischia di far ridurre la portata di alcune questioni che la studiosa si poneva nel 1974 e si pone ancora, situandosi con notevole sprezzatura al cuore di uno dei temi più dibattuti di oggi, e forse di sempre: la letteratura produce modelli di vita, di costume, di pensiero? Nel caso specifico, per usare le sue stesse parole: «Quanto hanno contato questi personaggi-donna nella vita reale delle donne, quale influenza hanno avuto sul modo di pensare delle donne reali? Addirittura sul loro destino?».
Fusini non ha una risposta, che forse spetterebbe alla sociologia della letteratura o agli storici, ma la sua mossa critica è quella di argomentare che se da un lato è vero che la morte di Emma Bovary, di Anna Karenina, di Hedda Gabler sancisce l’impossibilità della loro condizione femminile, dall’altro è proprio grazie alla maniera in cui sono costruite queste figure, vitali, pienamente in grado di prendere la parola, consapevoli della loro condizione di minorità – soprattutto Anna Karenina – che emerge per contrasto la bassezza, la pusillanimità, il privilegio senza meriti degli uomini da cui sono attorniate.
La loro morte risulta alla lettrice, e crediamo anche al lettore, tanto più insopportabile quanto più è evidente che l’adulterio non ne fa delle persone moralmente discutibili quanto delle accuse viventi all’istituzione in cui sono state ingabbiate: il matrimonio, principale strumento di controllo maschile sulle donne.
Tutto il romanzo di Tolstoj è percorso da una sistematica messa in discussione dell’istituzione coniugale; Fusini analizza come questo tema innervi non solo la trama della protagonista, Anna Karenina, ma anche quella del personaggio che a ragione lei chiama il vero antagonista, ossia Levin, che passa dai vagheggiamenti di una rivoluzione agraria, a beneficio di una maggiore autonomia dei contadini, a una riconferma del modello tradizionale della famiglia, e dell’azienda agricola, di cui deve tenere le redini.
Se per Flaubert la «femme en dehors du mariage» – la donna fuori dal matrimonio – è un mistero, per Tolstoj non c’è molta differenza fra matrimonio e adulterio perché in entrambi i casi Anna Karenina si ritrova senza il potere di decidere per sé e per i propri figli, in balia di uomini che si sentono legittimati a decidere per lei. Scrive Fusini: «Abilmente articolata e suggerita in certi punti chiave del romanzo, l’identificazione tra Vronskij e Aleksej Aleksandrovic Karenin vanifica l’idea romantico-convenzionale dell’adulterio come alternativa liberatoria rispetto al matrimonio. In realtà, il matrimonio è presentato come quella istituzione globale che fa il vuoto attorno a sé, atrofizzando in radice le sue possibili alternative. Sia il matrimonio che l’adulterio sono una prigione».
È significativo che a mettere in crisi non solo i capisaldi della società borghese, matrimonio/adulterio, ma anche il motore di molte macchine narrative, siano proprio le donne, i soggetti più deboli e con meno possibilità di scelta. I soggetti cui viene richiesto di romanticizzare e idealizzare l’amore proprio perché non è data loro la possibilità di sceglierne la forma, i modi e perfino l’oggetto. Come dimostra la fine di Anna Karenina l’espressione del desiderio femminile incontra la riprovazione sociale e la frustrazione individuale. Anna ci mostra nella sua parabola esistenziale la profonda ingiustizia patita, l’asimmetria nel trattamento che la comunità le riserva rispetto al marito, Karenin, e all’amante, Vronskij – l’uno ha il diritto di tenersi i due figli, l’altro prima acquisisce prestigio per avere un’amante come Anna, poi viene compatito quando lei si butta sotto un treno, mentre lei non riesce a mendicare nemmeno la complicità e la solidarietà della cognata Dolly che pure, quanto a matrimonio infelice, non era priva di esperienza personale.
L’analisi di Fusini ha buon gioco nell’affermare che figure come quella di Emma Bovary e Anna Karenina sono agenti potentissimi di disvelamento dei meccanismi di repressione e delle dinamiche ipocrite attraverso cui il potere e il patrimonio vengono conservati in una società patriarcale.
Tuttavia mi domando se alla sensibilità di oggi la morte delle protagoniste appaia, come sostiene l’autrice, un’istanza rivoluzionaria o invece come la negazione di un’ipotesi alternativa cui queste vite si erano aperte. E non solo perché oggi esiste il divorzio e si può essere madre di figli avuti da padri diversi senza per questo venir considerata una reietta, ma soprattutto perché – per rimanere sul campo letterario cui appartengono Anna, Emma o Hedda Gabler – esistono figure femminili, a loro coeve, cui non vengono risparmiate vicissitudini e tormenti, scontri durissimi con l’assetto sociale e il suo lato castrante, e sono Jane Eyre di Charlotte Brontë, Maggie Tulliver e Dorothea di George Eliot, per fare giusto due esempi. Sono eroine altrettanto complesse di quelle di Flaubert, Tolstoj e Ibsen, ma a differenza di quelle non vengono condannate a morire in modo tragico; libere dai fantasmi maschili, scartano lo schema de La morte ci fa belle, per citare il titolo di un bel testo critico di Francesca Serra.
Sono figure femminili immaginate da altre donne che ci dicono come anche allora fosse possibile uscire da un destino luttuoso e tracciarne un altro diverso, questo sì forse rivoluzionario.