La Lettura, 24 ottobre 2024
I poveri d’America
Per farsi un’idea di che cosa significhi essere poveri oggi in America basta scorrere alcune pagine del nuovo saggio del premio Pulitzer Matthew Desmond: «Ci sono oltre 38 milioni di persone negli Stati Uniti che non possono soddisfare le proprie necessità di base e oltre 108 milioni che si arrangiano (…), bloccati in una via di mezzo tra povertà e sicurezza», scrive Desmond in Povertà, in America (in uscita per La nave di Teseo). «Più di un milione di studenti delle scuole pubbliche sono senza casa, vivono in motel, automobili, rifugi, edifici abbandonati. Quando finiscono in prigione, molti detenuti americani scoprono improvvisamente che la loro salute migliora perché le condizioni che affrontavano da cittadini liberi (ma senza soldi) erano peggiori». In uno tra i Paesi più ricchi del mondo vivono più poveri che in qualsiasi altra democrazia. Uno scenario allarmante, di cui si torna a parlare anche in concomitanza con l’appuntamente elettorale del 5 novembre, quando gli americani eleggeranno il nuovo presidente. «La Lettura» ne ha discusso, in collegamento su Zoom, con Desmond.
Partiamo dalla domanda alla base del libro: perché c’è così tanta povertà in America?
«È una scelta politica, deliberata. La povertà si può evitare. Il nostro tasso di povertà infantile è drammaticamente più alto rispetto a democrazie come Canada, Corea del Sud, Germania. Semplicemente, l’America ha deciso che la povertà è tollerabile. Non intendo solo il Congresso, i legislatori di Washington e i politici locali. Tanti cittadini americani della classe media si sentono a loro agio in mezzo a questa povertà. Inconsapevolmente, contribuiamo alla sua proliferazione».
In che modo? Perché gli americani non sono stati in grado di arginare così tanta povertà?
«In parte perché ne traiamo beneficio: consumiamo beni e servizi a buon mercato prodotti da lavoratori che vivono in stato di povertà. Metà del Paese investe nel mercato azionario. Siamo felici quando vediamo i nostri risparmi aumentare, le nostre azioni salire. Non pensiamo al costo umano che c’è dietro. Gli Stati Uniti hanno deciso di sovvenzionare l’abbondanza al posto di alleviare la povertà. Basta dare un occhio alla marea di agevolazioni fiscali di cui disponiamo. Molte sono riservate alle famiglie più ricche, ma anche la classe media ne trae enormi benefici. Questo sistema di welfare sbilanciato è diventato la norma. Più che espandere le opportunità per i meno abbienti proteggiamo fortune già esistenti. Viviamo ancora in un Paese segregazionista. E tutti noi abbiamo una fetta di responsabilità».
Ci faccia esempi pratici: quali scelte, prese quotidianamente da una persona o da un legislatore, possono aumentare il livello di povertà di un Paese?
«I nostri acquisti, per citarne una. Se ci definiamo ambientalisti, compriamo un certo tipo di macchina o mangiamo cibo che proviene da allevamenti protetti. Ma spesso non pensiamo a come vengono trattati i lavoratori. Anche qui in America vengono detratti gli interessi sul mutuo, per la prima e la seconda casa. Costa al Paese cento miliardi di dollari circa in pochi anni. Sarebbe bello se i legislatori decidessero di risparmiare questi soldi e di destinarli alla costruzione di alloggi a prezzi accessibili. Ma la domanda è: quanti di noi rinuncerebbero a quelle detrazioni? Per costruire un modello politico nuovo, dobbiamo iniziare a muoverci da soli, senza aspettare che sia il Congresso a fare la prima mossa».
Questo libro arriva dopo «Sfrattati» (2016), che le è valso un Pulitzer, nel quale ha raccontato il dramma delle famiglie povere di Milwaukee che hanno difficoltà a tenere la propria casa. Adesso ha ampliato il suo orizzonte al Paese intero.
«Dopo aver scritto Sfrattati mi sentivo bloccato. Scrivo esclusivamente di povertà, tengo corsi al college su questo tema. Un giorno mi sono chiesto: perché l’America ha un livello di povertà così alto rispetto ad altre democrazie avanzate? E come possiamo porvi fine? Non avevo ancora una risposta e mi sentivo inquieto. Toni Morrison una volta disse che scriveva i libri che voleva leggere. Sapevo che avrei voluto leggere un libro come questo, così se qualcuno mi avesse fermato per strada e mi avesse chiesto come mai c’è così tanta povertà in America avrei potuto finalmente rispondere».
I sindacati americani hanno avuto storicamente meno potere di quelli europei. È parte del problema?
«I sindacati non sono perfetti, hanno la loro fetta di colpe. Ma hanno anche vinto battaglie importanti. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, i sindacati erano molto potenti: è stato il periodo economicamente più equo della storia americana. I salari crescevano del 2% circa annuo, al netto dell’inflazione. L’assistenza sanitaria nazionale è un ottimo esempio in questa storia di luci e ombre. Quando il Paese ha iniziato ad abbracciare l’assistenza sanitaria, dopo il New Deal rooseveltiano, molti sindacati hanno preso parte alla lotta, portando a casa accordi sostanziali. Una volta conquistata l’assistenza sanitaria, molti lavoratori sindacalizzati si sono tirati indietro e si sono dimenticati degli “altri” americani, che ancora non avevano una copertura. I sindacati degli Stati Uniti hanno una storia piuttosto razzista alle spalle. Ma hanno anche imparato dagli errori».
Qual è invece il grado di colpa della politica?
«Più potere economico o politico hai, più responsabilità ti vengono addossate. Quello più ricco o più potente è sempre quello da biasimare. Ma pensando in questi termini ci autoassolviamo e non arriviamo alla radice del problema. Pensiamo alla riforma fiscale. Molti americani liberali vorrebbero una riforma fiscale sensata e bilanciata. Ma finché non arriva, nessuno muove un dito, soprattutto se si può contare su una determinata gamma di agevolazioni, come dicevamo prima. In questo libro cerco di non puntare il dito solo sui legislatori, anche se puntare il dito è pratica del tutto legittima».
A questo punto non possiamo non farle una domanda cruciale: si può abolire la povertà? Se sì, come si può agire in termini pratici?
«La cura che suggerisco si basa su tre fasi. Innanzitutto, dobbiamo potenziare la rete di assistenza sociale. Solo una famiglia su quattro ha i requisiti per ricevere alloggi a prezzi accessibili in America. È troppo poco, bisogna rivedere i criteri di assegnazione. La maggior parte delle persone che ha davvero bisogno di aiuto per pagare le bollette o l’affitto non riceve sussidi. Il secondo step è espandere il potere di spesa dei lavoratori e combattere lo sfruttamento finanziario delle banche e degli istituti di credito: secondo la mia stima, ogni giorno in America i più poveri vengono derubati di circa 61 milioni di dollari, tra multe e commissioni. La terza fase è aprire i nostri quartieri agli altri. Dobbiamo imporci come la generazione che mette fine alla segregazione. Nella maggior parte delle nostre zone residenziali, puoi costruire solo case unifamiliari indipendenti. Significa escludere una grande fetta della popolazione. Perché non si possono costruire case per più nuclei? Oggi che le politiche identitarie hanno preso piede in America è doveroso identificarsi in un movimento anti-povertà. La parte più difficile è tradurre tutto ciò in un’azione di massa. Dobbiamo creare un vocabolario che un giorno verrà usato dagli “abolizionisti della povertà”, cercare di dare al movimento anti-povertà una sorta di identità. Così come decidi di essere un ambientalista, puoi decidere di combattere la povertà, che tu sia più o meno abbiente».
Quali sono le zone più povere degli Stati Uniti oggi?
«La risposta più rapida a questa domanda è il Sud, il Delta del Mississippi in particolare, una zona molto rurale. Qui ci sono famiglie che hanno le fogne che si riversano nei cortili. Ma secondo alcuni parametri la povertà è molto più radicata in città come Los Angeles e New York, dove fino all’80 per cento del reddito viene speso per l’affitto. Vieni spremuto senza pietà. Recenti ricerche dimostrano che i luoghi con una grande maggioranza di senzatetto sono quelli con gli affitti più alti. Non è la droga o la salute mentale precaria a metterti sulla strada, ma i prezzi scandalosi delle case».
C’è stato un momento nella storia degli Stati Uniti dove si è imposta una sorta di giustizia sociale?
«Durante il Covid, quando l’amministrazione Biden ha messo a punto l’American Rescue Plan, un pacchetto di aiuti a livello nazionale che non vedevamo dai tempi della Great Society del presidente Lyndon Johnson. Biden ha reso permanente il credito d’imposta per i figli, l’ha trasformato in qualcosa come un assegno universale. Questo ha ridotto la povertà minorile del 46 per cento in sei mesi. È stata applicata una moratoria sugli sfratti. Il Paese ha raddoppiato gli investimenti in alloggi a prezzi accessibili. Poi, una volta finita l’emergenza, questi aiuti sono scomparsi. Rimane un dato indiscutibile: se l’uno per cento più ricco pagasse tutte le tasse federali sul reddito, ci sarebbero 175 miliardi di dollari in più ogni anno».
Nei programmi dei due candidati alla Casa Bianca, Kamala Harris e Donald Trump, ha visto piani di welfare che potrebbero arginare la povertà in America?
«Trump vorrebbe soprattutto aumentare le tariffe sui beni importati. Un approccio che desta molta preoccupazione tra gli economisti. Secondo alcune stime, aumenterebbe la spesa di una famiglia di mille dollari, perché le tariffe verrebbero semplicemente scaricate sui consumatori. Harris vorrebbe costruire tre milioni di nuovi alloggi accessibili entro la fine del primo mandato, rafforzare il potere sindacale, aumentare i salari minimi. Nella sua campagna Kamala Harris ha parlato di edilizia abitativa molto più di altri esponenti democratici. Forse perché la crisi immobiliare ha raggiunto il picco in America. Mi piacerebbe vedere i suoi primi cento giorni alla Casa Bianca, per capire se una forma di giustizia sociale potrà imporsi in America».