la Repubblica, 24 ottobre 2024
Intervista a Maysoon Majidi dopo la scarcerazione
«Sono fuggita dall’Iran perché sono una militante, il regime mi avrebbe uccisa. E sono troppo giovane per morire, ho troppe cose da dire, da fare, per cui combattere. Mai avrei pensato di finire in carcere per questo». E invece ha dovuto resistere dieci mesi Maysoon Majidi, regista e attivista kurdo-iraniana, arrivata in Italia il 31 dicembre dello scorso anno e fermata come “scafista” dalla procura di Crotone. Prove e indizi contro di lei si sono sbriciolati e al termine dell’ultima udienza i giudici l’hanno liberata senza aspettare le conclusioni di accusa e difesa previste per il 27 novembre. Per il suo legale, Giancarlo Liberati è «un’anteprima dell’esito favorevole del processo».Cosa ha pensato in quel momento?«Libertà. Senza, non esiste vita. Per dieci mesi non ho vissuto e questo nessuno me lo ridarà indietro».Quando è finita in carcere ha capito subito di cosa era accusata?«No, ci sono voluti mesi. Inizialmente non sapevo neanche perché fossi in prigione. Solo dopo mi hanno spiegato che la procura mi accusava di aver distribuito acqua e cibo fra i naufraghi. Ho avuto mal di mare tutto il tempo, eravamo in 77, tutti pressati, non c’era da mangiare, da bere, non c’era niente lassù. Solo paura. Per mesi non ho potuto neanche spiegarlo, solo disegnarlo».Che idea si è fatta dell’Italia?«La vedo oggi (ieri ndr) per la prima volta. Da quando ho messo piede sulla spiaggia di Crotone ho conosciuto solo carcere e tribunale».Cosa ha fatto nel suo primo giorno da donna libera?«Volevo cose semplici, ma che per mesi sono state impossibili. Una passeggiata, un pranzo fuori, una videochiamata con la mia famiglia, un appuntamento dal parrucchiere. Qualche tempo fa mi sono guardata allo specchio e mi sono detta: “Io questa ragazza non la conosco”».Cosa c’è di diverso?«Quando sono entrata in carcere a Castrovillari pesavo 53 chili, ora 38 o meno. Il dolore mi ha divorata, consumata. Sentivo il cuore battere come un tamburo tutto il tempo».Come ha fatto a resistere?«Mi hanno dato ansiolitici per gli attacchi di panico, sonniferi per dormire. Ma martedì sera ho buttato tutto via. Ero stanchissima, ma non volevo dormire. Non volevo perdere quelle prime ore di libertà. Adesso so che mi devo concedere del tempo, per ritrovarmi, per recuperare psicologicamente e fisicamente».E dopo? Che progetti ha?«Un giorno farò un film su tutto questo, la gente deve capire che chi sta su quelle barche non lo fa per piacere. Mette a rischio la propria vita perché non ha altra opzione».Ha avuto paura?«Certamente. Il motore era in avaria, c’era una falla e bisognava continuamente svuotare lo scafo.Ma non potevo più restare in Iran, o nel Kurdistan iracheno: la mia vita era a rischio. In questi dieci mesi, dodici dei miei compagni sono stati ammazzati. Sarebbe potuto succedere a me».Perché era così pericolosa per il governo?«Sono un’attivista di Komala. Per anni ho documentato anche in video le violenze, l e persecuzioni e i continui raid contro i curdi, volevamo e vogliamo mostrare al mondo cosa stia accadendo. Usavo uno pseudonimo, ma mi hanno individuata lo stesso, la mia famiglia subiva continuamente minacce. A un certo punto, io e mio fratello abbiamo capito che non potevamo far altro che andare via».Si sarebbe mai aspettata di finire in carcere in Italia?«Assolutamente no, mai. Sono fuggita per mettermi al sicuro e mai mi sono sentita così persa e impaurita come in questi mesi dicarcere. Non sono l’unica in Italia ad aver vissuto una situazione simile e vorrei fare un appello».A chi?«Agli investigatori voglio dire: quelle non sono barche di turisti, lì c’è gente che scappa per salvarsi la vita, ricordatelo quando indagate».