Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  ottobre 23 Mercoledì calendario

Quando i bambini poveri del Sud venivano accolti da benestanti famiglie del Nord

«Vai», gli dissero. «Tornerai presto». Partì in un giorno pieno di sole, arrivò che c’era la neve. E dopo 80 anni non è ancora tornato. Era il 1946, Antonio aveva 9 anni quando salì su uno dei “treni della felicità”, quei convogli della solidarietà organizzati dall’Udi, l’Unione donne italiane, e dal Partito comunista, che trasferirono bambini provenienti dai paesi poveri del Mezzogiorno in famiglie del Nord che vivevano in buone condizioni.
Una macchina dell’accoglienza messa in piedi tra il 1945 e il 1952 in soccorso dell’infanzia più fragile del Meridione post bellico. Lui è Antonio Gaudio e ora ha 87 anni, è nato in Basilicata, a Francavilla sul Sinni, paesino alle porte del Pollino, nel Potentino. Ma qui resta poco. Dopo quel viaggio, la sua infanzia sarà divisa tra Nord e Sud Italia e questo gli segnerà il destino: la sua vita sarà in Piemonte.
Antonio è uno dei 70 mila figli del Sud adottati dal Nord: nel dopoguerra è costretto a lasciare la sua terra. Va a vivere «con famiglie benestanti dell’Alta Italia, dove anche se si sedevano in 10 a tavola, c’era sempre cibo sufficiente per tutti. E piatti e posate per ciascuno. Una pagina scritta dai comunisti, che non mangiarono i bambini ma li salvarono», racconta oggi Antonio Gaudio. È una storia che non ha mai raccontato prima. A guardare con gli occhi di oggi può apparire straziante per un bimbo lasciare la sua famiglia per andare chissà dove, eppure «ero felice di partire. Lasciata la stazione di Salerno ho visto il mare per la prima volta. Da quel momento l’ho cercato in ogni anfratto del mio viaggio, ero ammirato. La vista del mare e dell’orizzonte così esteso e non chiuso da colline e montagne al quale ero abituato mi distraeva dalla paura dell’incognito».
Tra paesaggi mai visti e il canto di Bella Ciao, colonna sonora del viaggio, inizia il peregrinare tra Nord e Sud di Antonio, detto Belfiore «perché era ed è bello, è sempre stato un uomo affascinante e ben curato», dice la figlia Vera. Antonio oggi è grato di aver avuto la possibilità di prendere quel treno, il primo della sua vita, per lasciarsi alle spalle povertà e macerie e vivere un’esperienza che ha segnato in meglio il suo destino. «Da Francavilla siamo partiti solo in quattro. Le nostre famiglie furono criticate e spaventate: dall’arciprete. Sosteneva che in mano ai comunisti saremmo finiti in Russia o che – bene che poteva andarci – i comunisti dell’Alta Italia ci avrebbero sciolto in sapone. Quando ci pensavo, avevo paura», dice.
Alla sua età doveva frequentare la quarta elementare. Fu destinato a Bondeno, frazione di Gonzaga, in provincia di Mantova. «Qui mi hanno trattato meglio di un figlio e del resto in quella casa non c’erano altri bambini. All’arrivo la neve era ovunque: mi pareva ricotta. Era morbida e i miei piedi quasi scalzi affondavano nel gelo. Vennero a prendermi due uomini: mi caricarono sulle loro spalle, facevano a turno. Arrivai in una bella casa di campagna, mai ne avevo vista una così: ci accolse quella che per un anno fu la mia mamma. L’ambiente era curato e caldo, la tavola imbandita, ero felice di essere lì».
Poi d’improvviso Antonio fu colto dal terrore: «Vidi una vasca piena d’acqua al centro della sala, vicino al camino acceso. Tremavo. Pensai: aveva ragione il prete, ora mi sciolgono, divento sapone e muoio». E invece, dopo il bagno arrivarono panni nuovi, biancheria intima fresca e profumata, le prime scarpe lucide e «mai usate da nessun altro prima di me». Giunse l’ora della cena e la scoperta di cibi mai visti: la mortadella, «il prosciutto con le macchie bianche» e il gorgonzola, «il formaggio ammuffito». Finita la scuola, raggiunse mamma Filomena.
A settembre tornò in Lombardia per frequentare la quinta elementare. Fu assegnato a una nuova famiglia, in città, a Mantova. «Avevano 7 figli, anche qui fui trattato sempre come uno di famiglia. Da noi non si sapeva ancora come mettere assieme pane e companatico, al Nord si viveva molto bene». «Ero contento di questa opportunità», sottolinea. Un’operazione salvezza che gli ha consentito di studiare e di crescere lontano dalla fornace di famiglia, dove il nonno si spaccava la schiena per sfornare mattoni.
Antonio Gaudio ora vive in Piemonte, a Castelnuovo Scrivia, in provincia di Alessandria. La prima famiglia voleva adottarlo, ma lui non volle. Con i figli della seconda famiglia ospitante conserva «buoni rapporti». A 15 anni ha iniziato a cercare lavoro. La piccola comunità lucana di Alessandria lo ha aiutato. Dopo aver lavorato “a bottega”, ha deciso di aprire il suo laboratorio. «Ho fatto il sarto con grande soddisfazione fino all’età di 36 anni, poi la crisi mi ha fatto capire che dovevo abbandonare. Fino alla pensione ho lavorato alla Ferrero, la mia salvezza».
Antonio Gaudio non vede l’ora: il 4 dicembre prossimo sarà insieme alla sua famiglia davanti alla tv per guardare su Netflix il film che la regista Cristina Comencini ha tratto dal bestseller Il treno dei bambini di Viola Ardone.
Quella è anche la sua storia, quella è anche la sua vita. Gli resta solo un piccolo rimpianto: non esser riuscito a suonare il tamburo nella banda musicale. «E per questo – racconta commossa la nipote Alessia Vizza – ha chiesto alla banda di Francavilla sul Sinni di fare una trasferta musicale a Castelnuovo Scrivia. È stata una giornata di festa carica di emozioni, lui è tornato ragazzino, noi abbiamo conosciuto un pezzetto del suo mondo antico». E quel giorno c’era il sole, come quando partì bambino. —