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 2024  ottobre 23 Mercoledì calendario

Gli strani matrimoni di Dickens e Mills

La prima cosa da fare, recensendo questo libro, è risparmiarsi il sottotitolo: troppo lungo. Ma utile, essendo l’elenco dei grandi della letteratura vittoriana, ovvero l’oggetto del libro di Phyllis Rose, autorevole critico letterario americano poco tradotto in Italia. Accontentiamoci del titolo furbastro, Vite parallele ( Phyllis Rose, Utet, p. 366, €24), che occhieggia all’opera immortale di Plutarco, ma si occupa dell’accidentato percorso matrimoniale di alcuni scrittori, che si trovano loro malgrado a marciare paralleli. Per cultura, epoca e il vivere, tutti, a Londra, e quindi financo per la reciproca conoscenza di prima mano, testimoniata da alcune lettere qui pubblicate. È un saggio vecchio di quarant’anni che ha avuto e ha tuttora un buon seguito, perché curiosare tra le lenzuola di gente famosa funziona, e poi è fatto bene.
Guai a identificare i capolavori con i loro autori, che sono umani, troppo umani, perciò fallibili e pieni di difetti, non sempre perdonabili. Prendiamo, per esempio, Charles Dickens, il protagonista della letteratura inglese dell’800 e dell’etica vittoriana, ovvero puritana. Quello di Oliver Twist e del Circolo Pickwick, praticamente un gigante, uno scrittore bravissimo – non esce superlativo più adatto – e prolifico: scriveva per ore ogni giorno ed ebbe fin da subito un enorme successo. Dickens fu altrettanto prolifico in fatto di figli: ne ebbe dieci, sarebbero stati undici se uno non fosse perito in fasce. Per lui erano troppi. Dopo il quinto aveva scritto una lettera in cui si augurava non ne arrivassero altri. Che già è strano, per l’uomo che ha trasformato il Natale nella festa della famiglia riunita a scartare regali intorno all’albero; uno che si divertiva a improvvisarsi prestigiatore facendo apparire dal nulla il plum pudding – il panettone inglese – da una tuba.
In verità Dickens non ne poteva più della moglie, la mansueta Catherine Hogarth, una donna buona – “povera donna”, scrive – invecchiata precocemente e molto ingrassata, cosa che al ritmo di una gravidanza l’anno non sorprende. Dickens, il moralista in ansia per la sua immagine pubblica, la pianta per una giovane attrice, non prima di averle addossato ogni colpa e di aver murato la porta della camera da letto, che comunicava con la sua. Come se la madre dei suoi figli fosse una mantide e non la creatura sfiorita, triste, che aveva finito per soccombere sotto il peso della sua personalità.
Se Catherine fu una vittima, Harriet Taylor a molti era sembrata una carnefice. Il nome non dirà niente ai più, ma significava tutto per il filosofo John Stuart Mill, padre dell’utilitarismo ed esponente di spicco del pensiero liberale. Harriet era brillante, intelligente, un folletto in gonnella, ma era già sposata, perciò si inventò una specie di relazione adulterina che tale non fu, a detta degli interessati, perché i due non divisero mai il talamo. E questo neanche quando Harriet, rimasta vedova, lo sposò. Un po’ per rigore puritano, un po’ per temperamento, o forse per rinsaldare il pregiudizio dell’adagio “niente sesso, siamo inglesi”. Fu un matrimonio bianco tra quarantenni abbastanza comico, lui detestava il suo atteggiamento da primadonna frigida. Eppure il loro è stato un connubio felice, un proficuo sodalizio intellettuale. Insieme leggevano i poeti, Shelley sopra tutti, e teorizzarono una forma più moderna di matrimonio, che dev’essere un «contratto tra eguali da potersi sciogliere come ogni altro contratto». Quando Harriet morì, Stuart Mill prese casa di fronte al cimitero in cui era sepolta e stava presso la sua tomba per ore, fatto dal sapore più gotico che vittoriano.