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 2024  ottobre 23 Mercoledì calendario

I saggi di Sloterdijk sul mondo senza metafisica

Tre sono le umiliazioni inferte all’uomo, non ne siamo stati salvati e sono tre distinte ferite narcisistiche: quella di Copernico che «fece ruzzolare la terra dal centro dell’universo», quella di Darwin che fece discendere l’uomo dalla scimmia e non da uno stampo divino e, infine, quella dello stesso Sigmund Freud – oltretutto autore di questa Teoria del Tre – che inchiodando l’uomo al proprio inconscio ne fa un Arlecchino a servizio di due bislacchi padroni, l’Es e il Super-io.
A partire da questa teoria, datata 1917, elaborata da Freud nel suo saggio Una difficoltà della psicoanalisi, il filosofo Peter Sloterdijk scandaglia ferite narcisistiche a noi contemporanee da cui non siamo riusciti a salvarci. E ce ne sono altre come quella inferta dal computer che «umilia l’uomo scimmiottandolo» oppure quelle profetiche – la ferita ecologica e quella neurobiologica – che «promettono di gettare l’uomo definitivamente fuori dalla sua casa» per arrivare a una conclusione inquietante: «Le qualità attribuite all’anima, appartengono in realtà all’oggetto, alla cosa, il futuro è pensabile solo come crescita dell’artificiale».
Un’inquietudine, questa, in ovvio confronto con la gigantesca questione posta da Martin Heidegger – «Ormai solo un dio può salvarci» – su cui Sloterdijk incide il proprio contrappunto: Non siamo ancora stati salvati.
Ecco il titolo italiano di una raccolta di Sloterdijk per la casa editrice Tlon, una meritoria riedizione a vent’anni dalla prima uscita per Bompiani. Sono testi di diversa datazione – Saggi dopo Heidegger – che coprono un lungo arco di tempo, dagli anni Novanta del secolo scorso al Duemila, per un lavoro filosofico che non è un generico depositarsi di saperi ma un formare la vita, il dare forma alla vita, insomma: il salvarsi. E sempre grazie all’autore di Essere e tempo.
La prosa di Sloterdijk non arriva certo tardi nello svolgersi della storia delle idee. Ecco «il discorso sul pensiero nel movimento di Heidegger» – giusto per soffermarsi su uno dei capitoli del volume – che trova preludio a teatro. Ed eccoci nell’Atene del IV secolo a.C. dove nel 386 si decide che la tragedia, tradizionalmente portata sulla scena solo un’unica volta, possa essere replicata più volte durante l’anno.
Poiché la tragedia greca è molto più che una rappresentazione scenica di fatti delittuosi, piuttosto è «una pratica cultuale e politica» che racconta l’ethos della polis, rappresentarla più volte equivale a desacralizzarla, a farla diventare, allora sì, uno spettacolo.
PALESTRA DISEDUCATIVA
Come se la processione del Venerdì Santo si replicasse in altri periodi. Un inaudito. Come se qualunque altra data di culto o di memoria potesse replicarsi nell’arco dello stesso anno. La verità, insomma, non dimora a teatro. E di contro, a prendere il posto della tragedia, sarà la filosofia di Platone che con la fondazione dell’Accademia diventa scuola, custode di un pensiero che si fa metafisico e vede nel teatro il “tradimento” della pedagogia, contribuendo con la sua efferatezza, a distogliere l’animo dei fanciulli dal retto sentiero, incoraggiando la visione e la immedesimazione nelle azioni più turpi.
Il teatro come palestra diseducativa da condannare e da cui salvarsi. Il riferimento ad Heidegger, presenza ingombrante e irrinunciabile nel libro, qui riguarda la scelta di essere seppellito in un cimitero di campagna, nel villaggio di Messkirch, non lontano dai luoghi della sua infanzia, per testimoniare, anche con le ultime volontà, di non amare il palcoscenico, poiché la verità – reitera Sloterdijk – non si mostra a teatro.
Non siamo ancora stati salvati. E in Essere e tempo, il soggetto, l’esserci, è gettato nel mondo – deiezione la chiama Heidegger – in una assenza di fondamento che reclama una scelta di autenticità, pena lo smarrirsi nella chiacchiera, nella dispersione.
Il soggetto ha perso la sua identità di res cogitans cartesiana ancora portatrice di ottimismo. Nell’Heidegger che arriva alla conclusione che «ormai solo un dio ci può salvare» Sloterdijk scorge la filosofia di Agostino di Ippona.
La deiezione, altrimenti detta Dasein, può corrispondere infatti alla condizione dell’uomo agostiniano, bisognoso della Grazia divina, poiché corrotto dal peccato di Adamo, incapace di salvarsi con le sue sole forze: «Si può pensare che Agostino e Heidegger riposino vicino, attendendo che il mondo, che non si è convertito, impari dalla sua progressiva autodistruzione».
Un suicidio già annunciato da tempo. Nel capitolo Innocentismo fondamentale, all’interno del saggio dedicato a Niklas Luhmann, l’autore descrive la modernità iniziata nel Settecento illuminista, come un passaggio radicale che sostituisce alla convinzione del male come causato dalla natura peccaminosa dell’uomo, un ventaglio di ulteriori cause per le quali proporre altrettante soluzioni. Il male può essere la proprietà borghese che aliena l’operaio, lo sfruttamento coloniale, il sistema finanziario, per culminare nell’orrore dei due conflitti mondiali, dei campi di sterminio, delle purghe staliniane, dei bombardamenti nucleari giù fino «all’abbrutimento quotidiano attraverso i media che intrattengono e disinibiscono».
NICHILISMO
La riflessione cosiddetta post-moderna, individua come unica soluzione, un invito alla medietà, una sorta di quieto vivere, che testimonia «la stanchezza apocalittica di una società che ha dovuto vedere sin troppi sconvolgimenti».
Con il tramonto della metafisica, con il “dio è morto” di memoria nicciana, si afferma, potente, l’era del nichilismo.
Niente ci ha ancora salvato, il nulla detronizza l’Essere e – secondo Sloterdijk – l’aver tolto modelli di riferimento, l’aver sottratto l’anima e Dio all’uomo, rende “generativo” il nichilismo, responsabilizza l’individuo, gli consegna una creatività che dovrebbe saper utilizzare.
Con molta fiducia e qualche nebulosità, Sloterdijk affida a quelli che definisce «nuovi imprenditori dello spazio progettuale il compito di realizzare ciò che non si era mai dato» nella convinzione, decisamente impegnativa, che il meglio debba ancora giungere.
Le macerie di una ben precisa prigione, la metafisica, ce le siamo gettate alle spalle del tempo, della storia e del mondo. E questo è ciò che non si era mai dato nel tempo, nella storia e nel mondo.
Solo quel Dio cercato da Heidegger può salvare chi ancora non è stato salvato: restituendo la terra al proprio trono nel cosmo e l’uomo all’immagine di Dio perché, insomma – come per l’autore di Essere e Tempo così per il filosofo di Ippona – nessuno può salvarsi con le sue sole forze.
Ps. Non siamo ancora stati salvati, saggi dopo Heidegger (edizioni Tlon, 20.00 euro), traduzione di Anna Calligaris e Stefano Crosara contiene una postfazione di Antonio Lucci.