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 2024  ottobre 23 Mercoledì calendario

Intervista a Giampaolo Manca, ex malavitoso, sulle carceri

Le due dita che stringono la sigaretta, il fumo che gli esce di bocca. E quei segni sul volto di un uomo dopo quasi 37 anni di galera. Sciarpa al collo, giacca chiara, dolcevita color panna, Giampaolo Manca è un ex esponente di spicco della Mala del Brenta, l’organizzazione criminale che dagli anni ’70 ai ’90 terrorizzò il Nordest, il cui boss era Felice Maniero. Rapine, sequestri, omicidi, traffico di droga. Settant’anni compiuti lo scorso 26 giugno, Manca ha vissuto più anni in carcere che fuori.
Soprannominato il Doge perché a 17 anni rubò i quadri del Bellini e del Vivarini dalla Chiesa Santi Giovanni e Paolo di Venezia – qui sono sepolti per l’appunto 25 Dogi -, entra nel carcere minorile per la prima volta nel 1970. Da lì è tutto un andirivieni nelle prigioni di massima sicurezza, dodici anni pure in isolamento. L’ultima parte del periodo carcerario l’ha passato in una comunità di Rimini. Quando è uscito di galera, il 4 marzo 2018, ha chiesto un vassoio di croissant. «Potevo finalmente farmi la doccia senza chiedere il permesso», racconta a Libero.
Ora, lunedì 28 ottobre, sarà alla Camera penale di Roma a ripercorrere i suoi 36 anni, 8 mesi e 2 giorni di detenzione.
«Nella mia vita ho partecipato a tantissimi processi come imputato. Quelle aule dove spesso venivo condannato a pene severissime, ora mi vedranno non più come imputato ma come “esperto”».
Manca, che effetto le fa? Lei le carceri le conosce bene.
«Mamma mia se le conosco, ho fatto più anni di vita lì dentro che fuori. In effetti del carcere posso dire tantissimo. Sarò la voce per chi voce non ne ha».
Cos’è stata per lei la detenzione?
«Un inferno. Non mi ha cambiato. Anzi, mi ha fatto diventare peggiore. Sono cambiato perché ho voluto cambiare io. Ci sono poche probabilità di cambiare in un carcere».
Perché?
«Perché nessuno ti ascolta. Perché vieni lasciato in balìa di te stesso. Perché sei considerato meno di zero».
Ma ai detenuti viene fatta violenza?
«Eh, quando qualche detenuto si altera troppo, sì. Ma questo non accade nelle carceri speciali, perché lì hanno paura».
Ossia?
«Bé, con i detenuti di un certo calibro sanno di non poter fare certe cose».
E tra detenuti c’è violenza?
«Tra i detenuti c’è spesso solidarietà. La parte più debole sono i tossicodipendenti. Diciamo che se… posso dirlo?»
Dica.
«Ecco, diciamo che se rompi i coglioni, ti entrano in cella e ti massacrano di botte. Ma con me non lo facevano mai».
Perché?
«Perché li minacciavo. Sapevano che se mi avessero fatto qualcosa, qualcuno ci avrebbe rimesso una volta fuori».
Le minacce erano vere?
«Insomma, nemmeno tante false...».
Lei aveva qualcuno fuori che agiva per lei?
«Qualcuno a disposizione poteva anche esserci, no?».
E di Felice Maniero che mi dice?
«Eh, Maniero. Lui è un collaboratore. È stato lui a fare la spia. Ma per me non esiste il tradimento. Ora se n’è uscito con questa sparata: ha detto che come criminale ero una nullità. Perché non l’ha detto ai magistrati all’epoca?».
Lei si fidava di lui? 
«Certo, ci fidavamo tutti». 
Come l’ha conosciuto?
«Quando andavo a ballare in Riviera del Brenta, c’era questa banda dei ragazzi del Piovese che già commetteva crimini. Ma lui aveva plagiato questi ragazzini: era scaltro, Maniero».
La vostra prima “impresa”, diciamo?
«A 23 anni circa».
Chi si fece avanti? 
«Entrambi». 
E che avete fatto?
«Una rapina. Poi ne ho fatte talmente tante...».
Ha mai ammazzato qualcuno?
«Sì. Mi diedero l’ergastolo, per questo».
Perché lo faceva?
«Perché dovevo farlo. La determinazione, l’obiettivo che ti sei messo in testa, questa cosa ti acceca».
Torniamo un attimo a prima. Lei mi ha detto che il carcere non l’ha cambiato, ma che è stato lei a voler cambiare.
«Sì».
E come?
«Io ce l’ho fatta perché mi sono alienato, lì dentro. Facevo sempre qualcosa, avevo sempre la testa in movimento: leggevo, scrivevo. Scrivevo perfino le petizioni per i ragazzi giovani».
Ossia?
«C’erano dei ragazzi giovani magari finiti dentro per qualche furto, parlavo con loro, compilavo le istanze. Conosco benissimo i codici di procedura, mi sono difeso in tutti i miei anni da delinquente. Facevo impazzire i miei avvocati, sa?».
Torniamo ai ragazzi.
«I ragazzini mi chiedevano come si facevano le rapine, ma io dicevo loro che era meglio lasciar perdere. Insegnavo loro che il male produce il male. È una catena».
Sono recuperabili per lei questi ragazzi?
«Sì, assolutamente. C’è gente recuperabile. Il problema è che per la gente un detenuto vale meno di zero. Quest’anno ci sono stati già 74 suicidi in carcere. Secondo lei perché?».
Già: perché?
«Perché lì dentro sei in un limbo, devi avere la forza di andare avanti».
Lei pensava mai di redimersi?
«No, ho sempre pensato che la mia vita sarebbe finita da criminale. Poi mi son detto che morire in carcere fosse una delle cose più brutte che potesse capitare a un essere umano».
Cosa l’ha fatta scattare?
«Mi dissero che mio fratello aveva un tumore. E così feci un voto. Dissi che se mio fratello si fosse salvato, non avrei più commesso nulla».
E si è salvato suo fratello?
«Sì, combatte ogni giorno, combattiamo insieme, ma almeno è vivo. Guardi, è come se fossi malato anch’io».
Nessuno penserebbe mai che qualcuno che si è macchiato dei reati di cui si è macchiato lei possa dire una cosa così.
«Eppure è vero, io son cambiato dentro. Con la stessa intensità con cui facevo del male, ora faccio il bene».
Ha mai parlato con le famiglie delle vittime?
«No. È una questione di pudore, di rispetto, vado lì e cosa dico? Perdonatemi? Tanto i loro figli non tornano. Ma queste cose le porterò sempre dentro. Ho fatto tanto male, se mi avessero dato cinquant’anni avrebbero fatto bene. Anche se, per come è pensato il carcere ora, non è rieducativo. Anche il peggiore ha la luce dentro».
Lei è stato in carcere con uno dei padrini di Cosa Nostra. Anche lui aveva la luce dentro?
«No. Loro no. Hanno la metastasi del male. Ma per altri delinquenti, la luce c’è. Devi solo tirarla fuori».
Come?
«Devi alimentarla, capirla, parlare con queste persone, ma cosa vuole in carcere mancano anche educatori, assistenti sociali. Bisogna avere il coraggio di cambiare le cose. I figli giovani si possono recuperare. Ma ci vuole la volontà. Ma adesso faccio io una domanda a lei».
Dica.
«Non crede che sia un investimento maggiore recuperare un criminale, cosicché torni a casa e non faccia più danni?».