Corriere della Sera, 23 ottobre 2024
Intervista a Claudio Sabelli Fioretti
La perfidia del vecchio leone si rivela dopo tre ore e quaranta di guida da Milano a Lavarone, in mezzo ai tornanti trentini, quando l’intervistato, serafico, accoglie l’intervistatrice e annuncia: «Ti avevo detto che ho scritto un’autobiografia? La pubblico a fine ottobre». Solo chi fa questo mestiere sa quanto può essere utile, in fase di preparazione, un libro che riveli aneddoti e curiosità. «E me lo dici solo adesso?». Risposta: «Non pensavo ti interessasse». Il che racchiude tutta la malvagità di Claudio Sabelli Fioretti, 80 anni, nostro signore dell’intervista, «diabolico come l’ispettore Colombo» (copyright Sandro Bondi), l’unico che riuscì a far dire a Maria De Filippi che era stata «sgarzolina in amore» e che la infastidiva il rapporto tra Maurizio Costanzo e Irene Pivetti, il solo ad aver fatto uscire dai gangheri la compassata Daria Bignardi in una conversazione a dir poco epica sulla Stampa, capace di intervistare Francesco Cossiga in mutande (è agli atti) e di tirare i capelli a Silvio Berlusconi per vedere se erano veri (con lui c’era Giorgio Lauro, nel programma radiofonico Un giorno da pecora). In fin dei conti, le basi di tanta malignità si potevano intuire fin dai tempi in cui era caposervizio nella redazione milanese di Repubblica e costrinse un redattore a riscrivere 24 volte un articolo che sarebbe andato bene già alla terza. «Volevo che ti esercitassi», si giustificò. Ci daremo del tu, poiché siamo stati colleghi ai tempi della sua lunga collaborazione con il Corriere della Sera, dove ha diretto pure Sette.
Carissimo Claudio, chi è l’intervistatore più bravo d’Italia?
«Stefano Lorenzetto. Quando lo chiedono a lui, fa il mio nome. Quindi mi sembra gentile ricambiare la cortesia. Ma io sono più bravo».
Hai sempre voluto fare il giornalista?
«Mio padre era direttore del Corriere dello Sport. Da bambino mi portava in redazione e passavo pomeriggi interi estasiato a guardare le telescriventi o i dimafonisti che registravano le corrispondenze degli inviati».
Tuo padre è stato podestà. Questo ti ha mai messo in imbarazzo?
«Ma no. Mio padre era fascista. Quando arrivarono gli americani, confermarono l’incarico a chi già lo aveva. Il sindaco era un pastore che ebbe paura e chiese a mio padre se poteva farlo lui. Poi, quando vide che non gli era successo nulla, gli richiese indietro l’incarico. È più una storia da ridere. Mio padre era un fascista buono».
Ti disse mai «bravo»?
«No. Però una volta si presentò come Giuseppe Sabelli Fioretti e quando gli chiesero se era mio padre si inorgoglì parecchio».
Dove cominciasti?
«A Selesport, un giornaletto laziale. Facevo i tabellini la domenica, cento lire per ciascuno».
A 24 anni sei stato assunto a Panorama. Eri un raccomandato.
«Mah, qui le teorie variano. Potrebbe avermi raccomandato mio padre, s’intende, che era amico del direttore Lamberto Sechi. Oppure Giorgio Fattori, amico di mio padre e di Sechi. O Gianni Farneti, mio compagno di scuola, che già lavorava a Panorama. Ultima ipotesi, Marco Fini, altro giornalista di Panorama che seguiva lo sport e non ne poteva più: credo sia stato lui a spingere la mia assunzione per mollarlo a me».
Per Panorama hai intervistato Oriana Fallaci, che però l’intervista se la scrisse da sola.
«Lei stava per uscire con Un uomo. Sechi mi mandò a casa sua in Toscana. Un collega mi avvisò: “Guarda che ti sequestra”. Allora escogitammo uno stratagemma: se dopo due giorni non avesse avuto mie notizie, avrebbe dovuto chiamare per dire che Renato Curcio, ai tempi latitante, aveva accettato di farsi intervistare e voleva incontrarmi il giorno dopo».
Funzionò?
«No, perché quando telefonò a casa di Oriana, lei fece fuoco e fiamme. Mi liberò dopo quattro giorni. Poi cominciò il calvario della stesura. Le mandai l’intervista per rileggerla e mi rispose garbata che se l’era riscritta. Ne feci una seconda stesura, tenendo conto delle sue osservazioni. La riscrisse. Al terzo giro mi arresi».
Non ti buttare giù, alcune domande, rilette oggi, sono proprio tue. Invece, com’è che facesti infuriare Daria Bignardi?
«Perché lei voleva parlare solo del suo libro, Non vi lascerò orfani».
Disse che l’allieva aveva superato il maestro.
«La mia presunzione è tale che un’affermazione del genere non mi può scalfire».
Gioco della torre: del resto lo hai inventato tu.
«No, fu un’idea di Mieli».
Va be’. Tra Bignardi e Fagnani chi butti giù?
«Salvo Francesca Fagnani. Io sono innamorato di lei! Primo, perché legge le mie interviste e le cita, mentre un sacco di gente saccheggia e basta. Mi copia, ma lo ammette. Noi narcisi ci teniamo a queste cose».
Il personaggio che ti è rimasto nel cuore?
«Sandro Bondi. Mi piacque la sua tenerezza, l’amore incondizionato verso Berlusconi, che era un lazzarone. Aveva comprato un appartamento ad Arcore pur di stargli vicino. Per l’intervista mi diede appuntamento nella villa di Silvio e mi fece fare il tour. Quando arrivò a mostrarmi il mausoleo, con le tombe già pronte per accogliere Confalonieri e i collaboratori più stretti, notando che non c’era quella per lui gliene chiesi conto e mi rispose con molta tristezza, quasi piangendo, che in effetti non era stata prevista».
Nell’Aldilà chi vorresti intervistare?
«Hitler: perché i cattivi sono più interessanti dei buoni».
E cosa gli chiederesti?
«Così su due piedi non ti so dire, devo prima prepararmi, leggere tutto quello che ha scritto».
Chi ti manca?
«Il Papa. Ci sto lavorando, ma non mi risponde mai. Eppure lo intervistano tutti».
A lui cosa chiederesti?
«Se una mattina si svegliasse convinto che Dio non esiste, cosa farebbe?».
Un personaggio che ti ha colpito più di altri?
«Giulia Bongiorno. Non è bella come Marilyn, non è nemmeno particolarmente simpatica. Però ne sono rimasto turbato».
Hai intervistato donne bellissime. Nessuna ti ha fatto tremare?
«Carla Bruni. La incontrai al Café De Flore a Parigi, era uno splendore. Io avevo vinto il Premiolino per un’inchiesta sul mondo della moda e così le chiesi se la infastidiva il disprezzo verso la sessualità delle modelle, che nei backstage dovevano girare quasi nude e farsi toccare dagli stylist. E lei cominciò a toccarmi per farmi capire come non ci fosse nulla di male. Si alzò in piedi e cominciai a sudare, con le sue mani addosso».
A un certo punto non hai più fatto interviste.
«Ero arrivato a quota 600. Ma non era più bello come una volta. Prima c’era chi avrebbe pagato per farsi intervistare da me. Poi hanno cominciato a pretendere le domande per iscritto. Oggi preferiscono andare da Floris. È stata la ministra Teresa Bellanova a farmi decidere: mi aveva rimandato così tante volte che ho pensato non valesse più la pena fare questo mestiere».
A Sette potevi fare quello che ti pareva. Ma a un certo punto hai chiesto di essere pagato il doppio per lavorare la metà. Cosa ti era saltato in testa?
«Volevo vedere quanto mi volevano. Mieli si seccò e chiuse la mia collaborazione. Quando provò a rilanciare non ero più interessato».
Ora scrivi per il mensile di Repubblica, U, diretto da Emanuele Farneti, figlio di Gianni. La smetti di farti raccomandare?
«Ma faccio solo un’intervista al mese!».
Hai diretto 5 testate e hai lavorato per i 3 quotidiani principali. Dove ti sei divertito di più?
«Alla radio».
Lì hai intervistato Silvio Berlusconi.
«Fu un’intervista bellissima, la migliore. Lui si prestò al gioco. Davvero un giorno memorabile, ma non grazie a noi: si era dimesso Ratzinger».
Ascolti ancora Un giorno da pecora?
«Quando sono in macchina. Mi piacerebbe molto sostituire Geppi, quando non c’è. Giorgio Lauro è come un figlio per me».
E Geppi ti piace come tua sostituta?
«Di lei mi piace la battuta pronta. La coppia funziona, ma mi avrebbe incuriosito molto anche Mattia Feltri al posto suo».
Come direttore sei stato impareggiabile. Vittorio Feltri prendeva i giornali a centomila copie e li portava rapidamente a duecentomila, tu li prendevi a trentamila e li facevi chiudere. Come con Cuore.
«Cuore non ha chiuso con me, ma con Andrea Aloi. Certo, io ho dato una grossa mano».
Titolasti «Tutto pronto all’inferno per l’arrivo di Muccioli», il giorno prima della sua morte.
«Non fu una bella pensata. Però era vero».
Fu per quello che i muccioliniani ti fecero causa?
«No, ma me ne hanno fatte tantissime altre e ci ho rimesso un sacco di soldi. Praticamente in quei due anni e mezzo ho lavorato gratis».
Hai avuto due compagne e tre mogli: Annette è ancora in carica e incredibilmente ti sopporta. Hai un figlio, Giovanni, di 48 anni. Pensi di essere stato un buon padre?
«No. Un padre che si separa non è mai un buon padre, perché evidentemente fa delle scelte egoistiche. E poi una volta l’ho buttato giù dal carrozzino, l’ho fatto cadere dal letto a castello, l’ho lasciato solo ad aspettarmi sulla neve per mezz’ora. Mio figlio è un sopravvissuto».
Ti spiace che non abbia fatto il tuo mestiere?
«Se l’avesse fatto non mi sarebbe dispiaciuto, ma gli avrebbero detto che era raccomandato».
Chi era più permaloso: tu o Scalfari?
«È una bella lotta, però direi lui: non mi riprese a Repubblica dopo che me n’ero andato».
Chi è il tuo erede?
«Penso che non sia ancora nato».
Ops: non abbiamo parlato del tuo libro!
«Si intitola Amascord e lo pubblica Aliberti Editore. Pensa che non l’ha voluto nessun altro. Com’è possibile?».
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