La Stampa, 22 ottobre 2024
Tutte le feste di Mrs Dalloway
Clarissa Dalloway è la signora del miracolo letterario di Virginia Woolf: capace di tenere tutto il mondo dentro di sé e di offrirlo a noi, come nella festa dell’essere umano. La festa per cui Mrs Dalloway compra i fiori e rammenda l’abito di seta verde, e mette insieme tutte le persone della sua vita, i protagonisti e le comparse, gli amati e gli inconsistenti, i sani e i pazzi insieme. Ma tutte le categorie meritano il suo amore, che poi è essenzialmente pietà. Pietà per loro, per chi sa vivere e per chi non ci riuscirà mai, pietà per noi stessi che abbandoniamo le speranze della giovinezza e che facciamo i conti con chi siamo diventati, con quello che non avremo mai più, con le ossessioni e con l’irrealtà di ciò che è reale. Non tutti si salvano, nella grande e irreale festa del vivere. Clarissa Dalloway si salva, per un giorno si salva perché in questo capolavoro in cui tutto il mondo è racchiuso tra la mattina e la sera di una giornata di giugno (il 13 giugno 1923), soccombe un uomo, il suo alter ego.Clarissa si salva perché conosce la precarietà degli esseri umani, conosce la perdita, comprende il cambiamento e fluttua insieme a questo grande pericolo che comporta di continuo essere al mondo.«Per niente al mondo lei avrebbe detto di qualcuno che era questo o quello. Si sentiva molto giovane; e nello stesso tempo indicibilmente vecchia. Riusciva ad affondare nelle cose come una lama; e nello stesso tempo stava all’esterno, osservandole. Aveva sempre la sensazione, mentre guardava i taxi, di trovarsi fuori, fuori, al largo nel mare, e sola; aveva sempre avuto l’impressione che vivere anche un solo giorno fosse molto, molto pericoloso».Quanto è pericoloso vivere, pensa Clarissa, la signora ordinaria e straordinaria, che non conosce la differenza tra gli armeni e gli albanesi e non gliene importa, le importa molto più delle rose da disporre nei vasi. E che pure capisce tutto, vede tutto, sente intensamente le vite di tutti, sa perfettamente che cosa ha provato per Sally molti anni prima, sa che cosa prova ancora per Peter, che pure le scrive lettere noiose ed è sempre pronto a criticarla subdolamente (ma come la guarda, lui, anche adesso che è invecchiata, che è stata malata, che i capelli sono diventati bianchi e non ha mai smesso di dare feste, e quanto si sente felice solo a essere nella stessa stanza insieme a lei). Clarissa sa che suo marito ha qualcosa di irrimediabilmente ottuso, e che il letto in cui ora dorme sola è privo di calore. Ma sa anche che ha amato ogni istante di quel che ha vissuto, e adesso, a cinquantadue anni, in questo giorno di giugno prova la terribile ma allettante certezza che tutti dobbiamo morire.«Oh, nel bel mezzo della mia festa, ecco la morte».Dev’essere questa struggente consapevolezza, questa continua apertura dei limiti, questo caldo stupore che si allarga, la ragione per cui ogni lettura della Signora Dalloway provoca commozione, e un sentimento lirico, la sensazione di riuscire a vedere la verità dentro lo sguardo di una donna. Nel traffico di giugno in Bond Street, nella frivolezza di una festa piena di persone importanti, nella gioia di un attimo, nel ricordo di quel che è stato ci sono i fantasmi. Clarissa Dalloway li sa vedere, e Virginia Woolf, allora quarantenne, sa che il suo romanzo, il romanzo della signora Dalloway, va immensamente oltre la critica sociale, la precisione proustiana del racconto e la condizione di donne circondate da uomini che strappano le ali alle mosche ai ricevimenti, donne circondate da uomini certi di avere già fatto tutto, costruito tutto, pensato tutto. Ha ragione Paolo Bugliani nel dire che sarebbe riduttivo presentare La signora Dalloway come l’Ulisse di Virginia Woolf. Sarebbe relegare questo grande romanzo a un modello magnifico ma già sperimentato, a un modello maschile. Mentre la signora Dalloway è qualcosa di completamente nuovo, è una ragazza di cent’anni che ha fatto tantissima strada e che non è stata immediatamente compresa nella sua grandezza (mi colpisce, nel carteggio con Vita Sackwille West, l’assenza nell’amica, che ha letto il romanzo in bozza, dell’entusiasmo che invece ha riservato alla lettura e rilettura del Lettore comune. Ed è palpabile il dispiacere di Virginia Woolf, e grandioso il suo distacco e la sua capacità, avendo scritto un capolavoro, di interessarsi ai piccoli libri degli altri). Anche i personaggi intorno alla signora Dalloway, che le stringono la mano alle feste, che la guardano con ammirazione o con invidia e che Virginia Woolf, dentro la sovrabbondanza di idee di quegli anni, ha chiuso nello scrigno prezioso di racconti qui tradotti e pubblicati per offrire non solo l’unità di tempo e di luogo del romanzo, ma anche l’unità di mondo toccato dalla protagonista assoluta del romanzo moderno, non possiedono la visione della signora Dalloway, colgono solo l’istante, ammirano Clarissa per il suo savoir faire o per la bontà, o invece la giudicano frivola proprio perché non arrivano a cogliere il tutto ma solo una piccola parte di lei: questi personaggi sono sufficienti a mostrare che cosa succede al mondo vittoriano che si disgrega, sono sufficienti a raccontare lo sgomento e la paura di Lily Everett che viene presentata in società e si sente schiacciare da quel pensiero, da quel mondo totalmente maschile.Solo la signora Dalloway sa guardare tutto per come è davvero, sa contemplare gli esseri umani e sentirli dentro di sé. Sa dilatare il tempo interiore e tornare laggiù, quando Sally dimenticò il telo di spugna e attraversò di corsa il corridoio nuda. Ora in Sally, moglie di un ricco commerciante e madre di cinque figli, non c’è traccia di quella grandezza se non attraverso il ricordo di Clarissa, che ha saputo riunire tutti di nuovo, per celebrare questa vita che contiene in sé la morte. Queste luci accese sul buio più totale. Questo perdono che arriva come una carezza. Clarissa ha il cuore puro, ecco cos’è. E c’è qualcosa di suo nel cielo sopra Londra. Nel cielo sopra di noi. —