il Giornale, 22 ottobre 2024
Questa volta il professore non ha alcuna voglia di mettersi in cattedra. Si siede davanti a un fuoco, magari in un pomeriggio di tardo autunno, con chi vuole ascoltarlo, non solo studenti, a semicerchio, e parla di dodici romanzi, seguendo un sentiero invisibile che alla fine interpreta il destino, uno di quelli possibili, di quelli che, bene o male, chiamiamo italiani
Questa volta il professore non ha alcuna voglia di mettersi in cattedra. Si siede davanti a un fuoco, magari in un pomeriggio di tardo autunno, con chi vuole ascoltarlo, non solo studenti, a semicerchio, e parla di dodici romanzi, seguendo un sentiero invisibile che alla fine interpreta il destino, uno di quelli possibili, di quelli che, bene o male, chiamiamo italiani.
Il professore si chiama Gaetano Quagliariello, di professione storico e, a tempo perso, è stato per più di qualche lustro anche senatore. La sua lezione, a puntate, è un saggio un po’ particolare, perché sembra portarlo fuori dai confini del mestiere. Il titolo è Storia d’Italia in dodici romanzi (Rubbettino, pagg. 189, euro 16). Non è soltanto un progetto editoriale. È una passione. È che a un certo punto ti accorgi che non basta il metodo scientifico per cogliere il senso del tempo. Marc Bloch diceva che «lo storico è come l’orco delle favole, va là dove sente odore di carne umana». È lo stesso lavoro dei romanzieri. C’è la capacità di cogliere e raccontare a sguardo d’uomo certe cose che la ragione non sempre vede. Il Gattopardo, per esempio, non si limita a raccontare la fine di un’epoca, ma ti fa capire perché il principe di Salina sente il dovere, ancora aristocratico, di farsi da parte. È la consapevolezza che non si può nuotare troppo a lungo controcorrente. Ti mostra i limiti della sua casta, ma con sorniona ironia lascia intravedere l’inganno democratico dei nuovi tempi. Lo specchio è nella risposta che il principe riserva a Aimone Chevalley di Monterzuolo, messaggero del governo. L’offerta è di un posto al Senato, ma don Fabrizio declina: «C’è un nome che io vorrei suggerire per il Senato, quello di Calogero Sedara. Egli ha più meriti di me per sedervi. Il casato, mi è stato detto, è antico, o finirà presto con l’esserlo; più che quel che lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza dei meriti scientifici ha tanti meriti pratici eccezionali. Illusioni non credo che ne abbia più di me, ma è abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorrerà. È l’individuo che fa per voi».
Non è un caso che il primo dei dodici sia il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Non è solo una scelta di affinità politica, da conservatore a conservatore. C’è molto di più. È la ricerca dei punti di svolta, gli incroci dove la storia scarta di lato e lascia il segno per gli anni a venire. Questi romanzi finiscono sotto traccia per incarnare anche i tempi che stiamo vivendo.
La decomposizione del Parlamento italiano comincia presto. L’Italia è unita e già sfatta. L’Imperio di Federico De Roberto, una sorta di secondo tempo dei Vicerè, pubblicato postumo, ti porta alle origini del connubio tra destra e sinistra e il successivo trasformismo, dove quello che conta non sono le idee e i sentimenti, ma le combriccole, le alleanze strategiche per governare. «Aveva visto lo spettacolo del male, la petulanza della menzogna, le tortuosità dell’ipocrisia, la ferocia degli egoismi, la mordacità della calunnia, la cupidità degli appetiti, la presunzione dell’ignoranza, l’insolenza della vanità, la sfrenatezza di tutte le peggiori passioni...».
Se c’è un sentimento che attraversa i dodici romanzi è il disincanto. È la delusione verso la politica. È crederci e poi integrarsi o lasciare. È la stessa miseria umana che si ritrova, in un altro spaziotempo, in Todo modo di Leonardo Sciascia. È la parabola umana di Andrea Costa che, in Il diavolo di Pontelungo di Riccardo Bacchelli, abbandona il sogno anarchico per accontentarsi di un posto in Parlamento, rinnegando non le idee di Bakunin, ma la sua maschera grottesca. È il fascismo di provincia, così micragnoso da sembrare perfino innocente, che spunta ne La spartizione di Piero Chiara e in Almeno il cappello di Andrea Vitali.
È il rifiuto della nostalgia come chiave di lettura che trovi nel Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio e ne La Storia di Elsa Morante. È proprio quest’ultima che lascia una lezione fondamentale a tutti gli storici e a quelli che si sono scontrati, da ambo le parti della barricata, per affermare il primato di una ideologia o anche solo la superiorità di un’idea che per la maggior parte degli uomini, in quegli anni bui, la preoccupazione principale era sopravvivere. Ci sono romanzi che segnano poi l’inizio e la fine delle illusioni ideologiche. La Grande Guerra è l’inizio dei furori anti liberali e anti democratici. Tutto viene da lì. È Emilio Lussu, interventista pentito, che in Un anno sull’Altipiano racconta la perdita di umanità che ancora stiamo scontando. È l’occasione perduta del ‘68 che Antonio Pennacchi tratteggia ne Il fasciomunista. La guerra civile si poteva chiudere e invece sta ancora qua.