Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  ottobre 22 Martedì calendario

IlFollementeCorretto

«Biancaneve e i sette verticalmente svantaggiati». Se vi fa ridere e rabbrividire l’ipotesi di leggere un giorno titoli che aboliscano Brontolo, Mammolo e Pisolo in nome del rispetto nelle favole per i brevilinei, esce oggi il libro giusto per voi. Si intitola Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite e lo ha scritto per La nave di Teseo il sociologo e politologo Luca Ricolfi, autore di saggi quali Sinistra e popoloLa società signorile di massaLa notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia. Direte: paradossi! Il guaio è che cose simili sono già successe. E se il giallo di Agatha Christie Ten little niggers, nonostante cento milioni di copie vendute nella scia della nota filastrocca («Dieci poveri negretti/ se ne andarono a mangiar:/ uno fece indigestione, solo nove ne restar.// Nove poveri negretti/ fino a notte alta vegliar:/ uno cadde addormentato,/ otto soli ne restar...») è via via mutato in Dieci piccoli indiani fino al neutro E poi non rimase nessuno, perché escludere altre correzioni «virtuose»?
Nella scia esasperata e demenziale del «politicamente corretto», ride Ricolfi, la redattrice americana d’un libro sull’evoluzione ha chiesto a Telmo Pievani di «cambiare alcune parole. Due in particolare: cieco e nano. La cosa non stupisce, i due aggettivi sono da anni considerati offensivi per i non vedenti e le persone di bassa statura, e quindi è invalso l’uso di evitarli». In questo caso però «lo studioso usava l’aggettivo cieco per parlare della selezione naturale che è cieca (cioè non segue un piano); e usava la parola nano per parlare di una specie particolare di elefanti, detti elefanti nani». Se furono chiamati così come chiamarli ora? Corti? Bassi? Ridotti? E la dea Fortuna «che Cicerone nel De amicitia diceva cieca»? Va ribattezzata «non vedente»?
È ricchissima, la raccolta di forzature paradossali messa insieme dal politologo. Compresa l’abolizione dell’usuale classificazione degli spinotti: «L’associazione americana dei produttori di materiali audio (Pama) ha pensato che, al giorno d’oggi, non si poteva continuare a parlare di jack “maschio” e jack “femmina”. E ha dato le sue direttive: d’ora in poi, in uno “spirito di inclusività e coerenza”, il jack maschio sarà chiamato plug (spina), quello femmina socket (presa)». Evviva.
Il follemente corretto, riconoscendo il copyright a un articolo sul Fatto di Caterina Soffici sulle «proteste degli studenti inglesi per il peso eccessivo dei filosofi bianchi, come Platone e Kant, nei programmi universitari», non è però una collezione di paradossi. È di più: un attacco alla deriva «degli eufemismi: non devi dire negro, meglio se dici nero; non devi dire cieco, meglio se dici non vedente; non devi dire donna di servizio, meglio se dici colf…». Correzioni sensate ma sfociate negli eccessi delle «vestali della Neolingua» e della «lobby del Bene» che pretendono d’imporre la loro visione del mondo a tutti fino a «perdere ogni senso delle proporzioni». Al punto che «i drammi degli ipersfruttati – l’esercito di 3,5 milioni di para-schiavi che fanno girare la “società signorile di massa” – sono caduti nell’oblio più totale» per lasciare spazio solo a rivendicazioni di diritti civili.
Risultato? Dopo aver esteso il «cari colleghi» al «care colleghe e cari colleghi» e poi al «car* collegh*» fino «qualche diavoleria neutra (ad esempio il cosiddetto schwa: e)» la marea delle identità da riconoscere si è allargata al punto che «la vecchia sigla Lgbt è evoluta in Lgbtqia+, che significa: Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender, Queer, Intersexual, Asexual, e chi più ne ha ne metta» fino a «un’esplosione di pronomi, ciascuno completo della sua più o meno cervellotica declinazione». Volete una tabella? Eccola: 45 varianti.
Una moltiplicazione tale che «la scelta del pronome è completamente arbitraria e soggettiva: è l’individuo che deve decidere (liberamente) con quale pronome gli altri (obbligatoriamente) devono chiamarlo». Di più: «Dopo quello dei trans-sessuali, è venuto il tempo dei trans-razziali». Come Martina Big, tedesca bianca, ricorsa a iniezioni di melanina per diventare nera o Oli London, un ragazzo inglese che «si è sottoposto a 18 interventi chirurgici» per somigliare a una popstar coreana.
C’è chi sbufferà: «oddio, Ricolfi nel solco di Vannacci!» Non proprio. Il sociologo torinese ha nel mirino il «suo» orizzonte: «In un mondo in cui la maggior parte della popolazione ha problemi ben più seri, concreti, e drammatici, l’esito della guerra dei pronomi rischia di essere la creazione di nuove discriminazioni e stigmatizzazioni. Questa volta ai danni di quanti non vogliono o non possono adeguarsi ai molestatori della lingua. Perché il paradosso della battaglia per un linguaggio “inclusivo” e “non discriminatorio” è che gli unici a poterlo maneggiare con destrezza sono i membri delle classi alte: docenti, magistrati, operatori dell’editoria e dell’industria culturale, manager, tecnici, giornalisti della carta stampata e dei siti. La guerra dei pronomi è anche un formidabile amplificatore della frattura fra élite e popolo».
Brutalmente: c’è «un abisso che separa coloro che fanno i conti ogni giorno con le difficoltà della vita, e coloro che si possono permettere di baloccarsi con problemi come i pronomi, le desinenze, l’asterisco, l’identità di genere, la sessualità più o meno polimorfa». Dunque «il linguaggio politicamente corretto, specie se usato nei confronti di qualcuno che parla e scrive in modo naturale (non artificioso), funziona come una forma di bullismo etico, un modo per segnalare la propria sensibilità morale, o la propria superiore virtù». Con chi ce l’ha? «Sul fatto che il follemente corretto sia un’esclusiva della cultura di sinistra non credo esistano dubbi». Un suicidio: «Non si sottolineerà mai abbastanza quanto cruciale – anzi esiziale! – sia stata, per la sinistra, la sostituzione dell’ideale dell’eguaglianza con quello dell’inclusione. (...) Un processo che ha condotto a mettere sempre più in ombra le (costose) istanze di eguaglianza dei ceti popolari, per puntare tutte le carte sui (ben meno costosi) diritti di inclusione di gruppi particolari, a partire dalle minoranze sessuali».
Già che c’è, l’autore si toglie dalla scarpa un sassolino in più: «Impegno politico e adesione acritica al follemente corretto restano tutt’oggi formidabili strumenti di autopromozione di scrittori e artisti di sinistra. Ma è anche vero che, con il passare del tempo, sta diventando sempre più chiaro quanto oppressivo – e autolesionistico per la creatività – sia vivere perennemente in “una Corea del Nord della mente”, per riprendere la felice espressione dello scrittore Hanif Kureishi». Chissà cosa ne diranno, i «coreani»...