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 2024  ottobre 21 Lunedì calendario

Biografia di Francesco Guccini

Piccola città bastardo posto... La canzone su Modena si pianta in testa mentre leggi Così eravamo – Giornalisti, orchestrali, ragazze allegre e altri persi per strada, libro di racconti di Francesco Guccini, attuale Bardo di Pàvana, che fu bardo di Modena e di Bologna prima di tornare cocciutamente in montagna, come aveva previsto, a passare la vecchiaia e scrivere libri. Non raramente sono racconti. Poiché lo zoccolo duro dei suoi lettori è più o meno lo stesso dei fan dei dischi e dei mai abbastanza rimpianti concerti, è nato un pensiero collettivo ma non espresso, secondo il quale i racconti sarebbero gli equivalenti scritti delle canzoni. Lui lo sa e non ha per ora smentito.Contenuta in un album seminale per i guccinologi (Radici del 1972) Piccola Città cantava la fatica dell’immediato dopoguerra, i primi turbamenti della gioventù e l’aria asfittica del provincialismo di Modena, dov’è nato e vissuto a lungo Francesco, ma che non ha mai amato. C’è chi ha definito impropriamente una Spoon River questa raccolta di cinque racconti brevi nei quali l’io narrante è diversificato ma appartiene a una persona della sua età che ha fatto le stesse esperienze: è come se così si staccasse da sé e dai rischi autobiografici, ma è il suo pallino di raccontare da sempre con memoria prodigiosa e generosità di particolari la storia minore però assai vivace e significativa del popolo, che la Storia maiuscola trascura. Fra le pagine corre una fiumana di particolari e facce e nomi e sensazioni e pensieri di uno che con la consapevolezza della giovinezza e il suo baule di speranze si guarda intorno, si dà obiettivi mentre il tempo passa. Il testo è impastato con la leggendaria ironia che gli riconosciamo.Però si parte da lontano, dalle medie. C’è questo primo racconto, Colombini, che comincia mesto con la notizia della morte di un compagno di classe del quale ricorda soltanto il cognome e una giacca senape. A dirglielo è il compagno di banco, che non gli piace: «Il suo viso adolescente sembra amichevole ma ha qualcosa del nibbio, del falco, del predatore...». Predatore di giovinezza e spensieratezza, ma anche un presagio del bastardo posto. Una specie di anteprima guardinga che non gli impedisce di parlare della cartella di pelle e della penna acquisita con il nuovo status di studente delle Medie: già, perché all’epoca c’era anche l’Avviamento, cui erano destinati i ragazzi che non volevano studiare o più spesso non avrebbero potuto proseguire per motivi economici gli studi. Il futuro si disegnava da bambini, la speranza poteva essere bandita. E alle medie si studiava il latino: «Il vero passaggio del Rubicone scolastico, il vero segnale che ti faceva sentire di un’altra classe». Il percorso verso la scuola serve a raccontare una città ancora sospesa nei retaggi del Dopoguerra, con le panchine di legno divelte da quelli che dovevano scaldare casa e però i segnali di rinascita nella palazzina nuova dove l’io narrante risiede, con il bagno e «un sanitario nuovo e in parte misterioso per noi che venivamo da fuori, il bidé».Consegnato a un’epoca bombardata dal progresso quotidiano che è per tanti anche smarrimento, Così eravamo si rivela una gustosa antologia degli zampilli di vita nuova che fioriscono con le loro mode e dei desideri che cambiano negli Anni 50 e 60, con scene di vita quotidiana che ti fanno ricordare le scoperte degli archeologi che ancora disseppelliscono Pompei.Si pensa al vulcano tecnologico che sta arrivando a mettere ancora di più a dura prova, con Il giornalista racconto in terza persona sul mestiere al quale il Maestrone pensò in gioventù. Ci sono testimonianze di lui che va ad offrirsi in redazione alla Gazzetta dell’Emilia, come qui narra. Augusto Minucci, mio caposervizio alle Cronache Italiane de La Stampa, decenni fa mi raccontò di questo ragazzone dotato che lavorava così bene ma poi abbandonò per inseguire il sogno della musica, ancora da orchestrale, non sapendo dove quella bella testa lo avrebbe condotto. Forse Guccini non gli aveva detto quel giorno che era arrivato da Pàvana con la corriera per una giornata al fulmicotone, per presentarsi alla Gazzetta: descrive l’ingresso nella redazione spoglia e annegata dalle cicche, e l’incontro con un caporedattore benevolo che per provarlo gli fa riscrivere 5 volte un pezzo. La contentezza sparisce quando il ragazzo si accorge che la giornata era volata e il pullman del ritorno era perso: senza soldi e finite le 5 sigarette che intorno gli scroccavano, in preda alla fame, si nutre alla mensa dei poveri sotto l’occhio amorevole di un Padre, per poi coricarsi a dormire sulla corriera che lo avrebbe riportato a casa la mattina dopo.La gara, in prima persona, suona come la continuazione ormai faticosa dell’esperienza di giornalista e anche la ragione dell’abbandono successivo, vien da pensare al lettore. Intanto era finita la pacchia delle vacanze scolastiche, e l’estate ti trovava morto di caldo a vagare per la redazione di notte, vedendo dalla finestra gli umani che uscivano dal cinema o i gesti amorosi della coppietta sulla panchina che turbavano il ragazzo della provincia ancora immersa in molto pudore. E di notte litigare con il proto (il boss dei tipografi), che si impadroniva dell’impaginazione e faceva danni. Fu in una notte così che avvenne l’incontro con una ragazza allegra, una prostituta amica di un collega assatanato di sesso, come capitava in quei tempi molto abbottonati per le ragazze: un giornalista e un pittore si mettono in gara di resistenza sessuale con la volenterosa compagna. Si avverte una delicatezza sconosciuta, nell’oggi che non ama i freni.E vai che finalmente la parentesi giornalistica è alle spalle. Non più solitari notturni disperati in cerca di emozioni forti, ma in Balere appunto di balere si parla, e suonare è un mestiere usurante: «A vent’anni una donna diversa in ogni balera. A trenta ancora ancora, a quaranta comincia a cambiare e a cinquanta non ne puoi più», gli dice un veterano. Il mestiere era imparaticcio, gli unici che ne sapevano qualcosa erano i pianisti.Arriva il celebre Nunzio Gallo ed è senza complesso, bisogna arrangiarsi: «Mi feci coraggio, presi la chitarra e a orecchio bene o male riuscii ad accompagnarlo e a salvare, almeno un poco, la situazione». Trapela l’entusiasmo per le sale da ballo, la gente che arrivava da dovunque, il cerimoniale dell’invito a danzare, la reazione a un “no” della fanciulla. Pagine molto godibili, frizzanti quanto una polka, di sapori cinematografici.Si chiude con Un portacenere rosso, ode agli oggetti inanimati che abbandoniamo per le strade della vita e che rimarranno, sopravvivendoci, in fondo ai cassetti o nelle tasche di una giacca dismessa. Qui c’è il protagonista alle prese con il servizio militare e a volte anche con armi che erano residui della II Guerra Mondiale, con capitani di varia etnia regionale, ognuno con una propria ricetta e in lite fra loro, i campi estivi sotto la grande diga: e il profilarsi di un disastro inenarrabile che seppellisce un paese, proprio quello dove era corso un filo di simpatia fra il narratore e una ragazza che lavorava all’osteria dove lui si era messo in tasca un posacenere rosso. Da allora son passati più di 60 anni. Il Maestrone ci ha scodellato senza la fatica la memoria di come si viveva negli anni che sempre più si allontanavano dalla guerra. Chi lo ama e lo conosce amerà queste pagine (forse, non solo loro). —