La Stampa, 21 ottobre 2024
Il crack a Palermo
Una dose di crack costa 10 euro. Le prime fumate si regalano. Per una ragione precisa: far scattare la dipendenza e avere sempre nuovi clienti. Il crack non perdona. Costa poco, rende molto. Si ricava dagli scarti della cocaina che fusi con altre sostanze (bicarbonato e ammoniaca ma anche rifiuti, tipo plastica) dà vita ai cristalli. Questi si sciolgono e si fumano con pipette o bottiglie di plastica. Il crack provoca psicosi, stati paranoici, schizofrenia, aggressività, alienazione. È il nostro fentanyl. Se giri di notte per Palermo, vedi zombie trascinarsi e accasciarsi per terra. «Una città sotto scacco e nessuno fa niente, tanto meno a Roma». Alberto ha 76 anni, ogni giorno prende il pullman da Trapani e viene a Palermo per cercare sua figlia tossicodipendente. Francesco Zavatteri, suo figlio Giulio, l’ha perso per sempre: aveva 19 anni, la prima dose di crack a 14. La mafia in Sicilia ha imparato a cucinare il crack dai nigeriani, lo compra dalla ’ndrangheta, le dosi destinate alla vendita le preparano le donne. Per rendermi conto veramente di cosa sta accadendo, ho seguito per una settimana una madre, Carla, che da un anno ha perso sua figlia. Con lei ho vagato per le vie dello spaccio. «Occhi aperti, stiamo entrando a Ballarò. Qui mia figlia potrebbe spuntare». Ci muoviamo dopo le 23. Guida Carla, io le sto accanto. Ballarò è il centro storico di Palermo, sede del mercato più antico e grande della città. «Mia figlia ha iniziato a fumare crack sette anni fa. All’inizio per giorni interi non dormiva. Usava l’eroina per spegnersi». Ci fingiamo volontari, distribuiamo cibo e acqua, non facciamo domande.
Con noi c’è anche Nino Rocca, un insegnante in pensione diventato un punto di riferimento per tanti genitori. Nino infatti è anche amministratore di sostegno di 8 dei loro figli, compresa la figlia di Carla. Su richiesta delle famiglie e coordinato dal giudice, Nino cerca di individuare per ciascuno di loro percorsi di recupero in comunità fuori regione. Sono figlie e figli che preferiscono, quando sono con l’acqua alla gola, telefonare a Nino piuttosto che a mamma e papà. Nino entra in un portone. Io lo seguo. Carla resta in macchina. Le porte ai piani sono chiuse con i lucchetti: «Perché così gli spacciatori trattengono dentro le ragazze che si prostituiscono in cambio della droga». Anche la figlia di Carla si prostituisce. Lei lo sa. Bussiamo a una porta. Ci apre un uomo, è nudo, quando sente chi cerchiamo, urla: «Non c’è più, andatevene».
Davanti al mercato passa una volante della polizia. Gli spacciatori si nascondono. Carla fa una telefonata. «Mia figlia l’hai vista?», «L’ho vista davanti alla stazione in macchina con uno». Chi hai chiamato, chiedo a Carla. «Un depravato sessantenne che va a letto con le ragazzine tossicodipendenti, regala loro il crack e poi se le porta a casa o le fa dormire nella sua macchina. L’ha fatto pure con mia figlia». E tu perché lo tolleri? «Perché mi dà informazioni». La prima volta che la figlia di Carla è sparita, questa madre l’ha ritrovata da sola dopo quattro mesi. «Mi sono finta tossicodipendente per agganciare gli spacciatori, sperando di entrare nel giro e incontrarla». Una volta è finita a casa di uno che la voleva violentare, si è presa una coltellata sulla spalla ma è riuscita a scappare.
Un’altra volta l’hanno condotta allo Sperone, periferia di Palermo. La volevano chiudere in un garage con un cliente. «Mi sono buttata a terra. Ho finto di stare male, in astinenza. Si sono spaventati e quando si sono allontanati sono scappata». Correva Carla, correva veloce. «Mi sono detta: ora muoio». Invece ce l’ha fatta. All’alba, è persino tornata indietro. «Il mio sesto senso mi diceva che mia figlia era dentro uno di quei garage». E infatti. L’ha trovata svenuta su un materasso sudicio. Mezza nuda. «Me la sono caricata in spalla. Non so nemmeno come e l’ho portata via». La ragazza non si è mai ripresa. «È vittima di sfruttamento della prostituzione. L’ho denunciato. Deve essere ricoverata con la forza. Altrimenti si ammazzerà o la ammazzeranno».
Quando le volanti della polizia se ne vanno, gli spacciatori escono di nuovo. Nascosti dietro le bancarelle, gli zombie: giovanissimi buttati a terra, con la bocca aperta, gli occhi chiusi, incapaci di reggersi in piedi. C’è persino una ragazza piegata in un cassone, circondata da uomini che la guardano mentre si buca. La figlia di Carla invece non c’è: «È andata via da poco», ci dice un ragazzo del Ghana: «Sei sua sorella? La chiamo, aspetta». Lei però non arriva. Il giorno dopo riceviamo un’altra segnalazione: c’è un asilo abbandonato in via Carmelo Lazzaro, accanto all’Ospedale Civico di Palermo, forse è lì. Scavalchiamo, entriamo. Dentro cumuli di immondizia, vestiti e bottiglie di plastica, una ventina di paia di scarpe messe in ordine in fila. Tende davanti alle porte di ex aule trasformate in alloggi di fortuna. C’è puzza di bruciato: «Perché la notte fumano, si addormentano e talvolta prende tutto fuoco», spiega Nino.
Lo sanno tutti che dentro l’ex asilo vengono a drogarsi e prostituirsi, ma nonostante le denunce dei cittadini, non è cambiato niente. L’ultima segnalazione che arriva è quella giusta. «La ragazza sta male, andate a prenderla». Davanti al parco d’Orléans ci sono dei blocchi di cemento, ricoperti da plexiglass, profondi due metri. Siamo davanti alla sede della Presidenza della Regione Sicilia. Tra cumuli di immondizia, vecchi vestiti, bottiglie di plastica e persino un gattino, finalmente la troviamo. È magrissima, fa paura. Nino informa i servizi sociali, il Comune, la polizia. «Va prelevata e ricoverata in maniera coatta». Arrivano i vigili, la conducono al pronto soccorso. Ma dopo un’ora la doccia fredda: «Non possiamo trattenerla». Come? Perché? E che si fa? Nel cuore della notte, senza nemmeno aspettare la fine degli accertamenti, lei scappa. E ora è di nuovo dispersa. Vado al Sert di Palermo, i servizi pubblici per le tossicodipendenze, infermieri e medici mi accolgono così: «Siamo messi male. Non abbiamo servizi di psicoterapia familiare. Solo una psicologa che viene due volte a settimana ma sta andando in pensione. Non c’è un servizio specifico per i genitori, per esempio. Solo a pagamento. Da un mese lavoriamo senza contenitori di urine e le analisi le dobbiamo fare a tutti. Qualche volta li mandiamo via e altre volte usiamo come contenitori delle urine i bicchieri di plastica per bere».
Da un anno in Sicilia c’è una comunità di genitori, attivisti e volontari che ha deciso di non restare in silenzio. Sono nate associazioni, La casa di Giulio per esempio, in memoria di Giulio Zavatteri. Denunce e proteste sotto i palazzi del potere per ora hanno ottenuto solo uno stanziamento di 11 milioni di euro per l’emergenza crack, briciole che non sposteranno molto. «Stiamo sottovalutando la gravità della situazione. Roma non ne parliamo. Il governo centrale non fa niente». Servono investimenti in sanità pubblica, psicoterapia, strutture per disintossicarsi, di primo e secondo livello e a doppia diagnosi, cioè comunità in cui si cura la tossicodipendenza ma anche il disagio mentale. Serve far fuori la mafia e i suoi business. Ma in fondo: le vittime saranno anche giovanissime, i nostri figli, ma sono pur sempre solo tossici. Possiamo farne a meno.
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