il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2024
40 anni dalla morte di François Truffaut
“In Jules e Jim abbiamo un personaggio che potremmo definire eroico: il marito. Catherine, dal canto suo, è un personaggio teorico: non credo sia reale, ma è interessante. Il film lo vedo, in effetti, come un tentativo di riunire tutte le donne in una sola”. Come Truffaut nessuno più: il regista francese se n’è andato 40 anni fa, il 21 ottobre 1984, senza lasciare eredi, fuorché i suoi film. Lui stesso ne era intimamente coinvolto da doversi dare una regola, un tempo di re-visione: “Mi trovo in un momento della mia vita in cui non riesco a rivedere i miei film che hanno più di 7-8 anni. Forse per ragioni sentimentali. La morte di certi attori (Françoise Dorléac, protagonista de La calda amante, ad esempio) è stata per me uno choc troppo grande. Il mio giudizio su questi film non solo è falsato: non li posso più giudicare”.
Come analista, e davvero nel senso di autoanalisi, rimane impareggiabile: smessi per un poco i panni dell’autore, si ricorda del critico acuto che fu – si veda Il cinema secondo Hitchcock – e si concede a una lunga intervista per l’Institut national de l’audiovisuel, suscitando dal singolo spezzone aneddoti, confessioni, segreti. Era il 1981, François aveva 49 anni e 21 titoli in carnet, da I 400 colpi a Effetto notte: ne verrà una Lezione di cinema, ovvero di arte-vita, che Il Saggiatore restituisce ora.
Truffaut si dà senza filtri, da Ragazzo selvaggio (1970), e contemplando quel singolare incoraggiamento ad apprendere laddove “tutti gridavano: ‘Abbasso l’università! Gli insegnanti sono feccia! Bruciamo i libri!’” si mette allo specchio: “Io sono un autodidatta infelice di esserlo – ho sempre desiderato studiare – e sono d’accordo con tutto ciò che dice il film”. Mai saccente, tanto meno onnisciente, in due lunghe giornate di riprese funestate dalle cure dentali, nonché dalle pene d’amore sul set de La signora della porta accanto alla voce Fanny Ardant, il regista ingaggia una spietata lotta contro se stesso, ossia le sue opere, ovverossia i suoi amori. La mia droga si chiama Julie, ma la sua s’appella Catherine (Deneuve), e François sta ancora a rota: la dolorosa separazione gli intinge la lingua nel fiele, e ne fa le spese il film, sicché “trovo questa scena – il primo incontro tra Louis (Belmondo) e Julie (Deneuve) – davvero orrenda, spaventosa. No, davvero, oggi non farei più così! È orribile!”.
Mutuando il titolo del 1977, Truffaut era L’uomo che amava le donne, forse più del cinema: “Nelle storie di seduzione, tutto ciò che è vocale, che poggia sulla mancanza della vista, riveste una grande importanza”. Così come il personaggio di Antoine Doinel: battezzato nei 400 colpi e incarnato da Jean-Pierre Léaud, avrebbe innescato un ciclo, che invero è “un fenomeno molto curioso: si tratta di una serie nata per caso, senza alcuna deliberazione da parte mia”. Chi non lo ricorda, Doinel? Eppure, alla domanda se pensasse di averlo seppellito, cinematograficamente parlando, il Nostro tracimava damnatio memoriae: “Non l’ho fatto esplicitamente morire, ma è come le l’avessi fatto. Ho preso questo personaggio da adolescente e non sono riuscito a condurlo all’età adulta. È una situazione che mi mette molto a disagio e fa sì che io, questo personaggio, non lo possa più soffrire”. Onore – e dolore – alla sincerità. Passando davanti alla macchina da presa per quell’intervista, Truffaut avrebbe consegnato nei fatti il proprio testamento, zeppo di intelligenza, tenerezza e curiosità: trova “che filmare i bambini assomiglia un po’ a filmare con un elicottero”, assicura che “faccio la vita dell’impiegato. Ogni mattina vado in ufficio…”, afferma che “fare cinema sul lungo termine significa anche scoprire l’importanza, i piaceri e i limiti dell’inganno”. E seduce.