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 2024  ottobre 21 Lunedì calendario

Intervista a Cristina Comencini

C’è stata un’Italia unita e solidale. Ma durò poco. È un film che incolla e inchioda; è una storia di separazione e solidarietà. «Che si è smarrita, questa storia la conoscono in pochi», dice Cristina Comencini, regista di Il treno dei bambini, alla Festa del cinema e dal 4 dicembre su Netflix.
Tutto nasce dal candore e la forza dell’omonimo romanzo di Viola Ardone (tradotto in 25 lingue), dove un bambino di 7 anni lascia i vicoli di Napoli e viene fatto salire su un treno; deve rinunciare all’amore di una madre per scoprire il proprio destino.
Cristina, una storia vera.
«Ho letto il libro e la voce del bambino (nel film Amerigo è Christian Cervone) mi ha fatto innamorare. Penso alla sua miseria e al suo essere scanzonato e spiritoso. Come sempre nei bambini, in ogni situazione drammatica basta che gli dai una cosa in mano e loro giocano. Il film doveva avere una sua epicità, come avvenne nel 1946, quando 70 mila bambini, per iniziativa della Unione Donne Italiane e del Partito comunista, lasciarono l’estrema povertà del Sud e per alcuni mesi vennero accolti nelle famiglie contadine dell’Emilia; una parte non sentì nostalgia e non tornò, restò lì. Fu un’organizzazione gigantesca. Tra quei bambini c’era la nonna di Serena Rossi, che interpreta la mia madre napoletana, mentre Barbara Ronchi è l’emiliana che accoglie e si prende cura di Amerigo».
Ci parli della nonna di Serena Rossi.
«Si chiama Concetta e ha 84 anni. Trascorse tre mesi in una famiglia di Modena che le diede l’infanzia che non aveva avuto. Ha ragione l’autrice del romanzo nel dire che quei treni erano nati per creare solidarietà, e oggi abbiamo navi per creare separazioni, deportazioni, ingiustizie».
La donna emiliana non sa cos’è l’amore materno.
«Lei, che non ha un marito né figli, e le hanno ammazzato il compagno, si pensava inadatta, il bambino all’inizio non lo capisce, eppure deve consolare un cuore infantile. È dominata dal Pci, dalla logica del partito, che sente superiore alla sua. E deve abbassare la testa. Ha una sua rigidità. Tutto cambia quando il bambino si fa abbracciare da lei, mentre sua madre a Napoli non sa leggere né scrivere, è misera, ha l’amante, sacrifica il figlio ma poi nel freddo gli scalda i piedi».
È raro che le donne lascino andare i figli.
«Per questo il personaggio di Serena è stupendo. Carezze non ne ha avute e non ne può dare. C’è stata una realtà analoga, le donne afghane che cercarono di spingere a forza i loro figli verso i soldati Usa che lasciavano il loro Paese».
Quella donna consegna la cosa più preziosa che ha.
«Una madre che non riesce a dire ti voglio bene ma compie il gesto più grande, lasciarlo andare per vivere e non per sopravvivere. Volevo raccontare una maternità non santificata. Tutte abbiamo imparato a fare le madri. Non ci sono madonne nel mio film».
Che cosa è rimasto di quell’Italia?
«Dopo la guerra vennero altre tragedie. Una civiltà che si era perduta. Se si perde un senso di convivenza civile e non hai niente, e non sei più una madre e un padre... Le cose le paghiamo ancora ora. A ricostruire non basta un secolo».
La scena simbolo è quella dell’arrivo in stazione.
«Per me è importante il contesto, la Storia collettiva all’interno di una storia personale. L’Italia ha vissuto due anni in cui era unita, infatti si scrisse la Costituzione. Quelle famiglie emiliane non ricche erano pronte a ospitare; si sono costruiti fili, rapporti continuati negli anni. La scena più commovente racconta i bambini che, scendendo a decine dal treno, vengono accolti dall’inno di Mameli, che oggi risuona solo nelle partite della Nazionale».
Napoli fu la città più bombardata durante la guerra.
«I bambini davvero morivano per fame. Il mio protagonista ha imparato a camminare scalzo tra i sassi».
Lei, che fa un cinema che le emozioni le trattiene, qui buca la pancia.
«Però avevo girato Va’ dove ti porta il cuore... Non volevo edulcorare. Sono napoletana e bisogna essere duri coi propri posti. Ho cercato di restare fuori dalla retorica dei sentimenti, le cose parlano da sole».
È il suo film più vicino a quelli di suo padre, Luigi Comencini.
«Perché lavorava con i bambini. Questo film, in cui ci dovremmo riconoscere, racconta quello che siamo stati e che potremmo essere».