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 2024  ottobre 21 Lunedì calendario

Quella volta che volevano uccidere La Russa

«Basette lunghe. Minigonne. Zampe d’elefante. Tv in bianco e nero. Mina e Ornella. Il Derby di Jannacci e di Cochi e Renato. La via Gluck di Celentano. Rivera e Mazzola. E poi il fumo. Odore forte di fumo di sigaretta sempre e ovunque. Nei cinema, nelle sale, negli uffici, nei bar, nei ristoranti». Nelle scuole. «In questi anni ne stanno nascendo tante nuove. Per molte, non c’è neanche un nome a cui intitolarle. E così cominciano a numerarle». Ce n’è una, in zona Crescenzago, che si chiama Settimo istituto tecnico. Nello stesso palazzo ce n’è un altro che si chiama Istituto tecnico industriale Ettore Molinari. E c’è un ragazzo di 18 anni che lo frequenta. È figlio di un barista, gioca a calcio all’oratorio, tifa Inter. Si chiama Sergio Ramelli.
Non ha mai fatto nulla di male. Non ha mai sprangato nessuno. Ha semplicemente simpatie politiche diverse da quelle della maggioranza dei suoi compagni di scuola. È di destra. Una notte qualcuno, forse proprio i suoi coetanei di Avanguardia operaia, traccia scritte fasciste sui muri della scuola. Il mattino dopo vanno a prenderlo in classe, lo portano fuori di peso, lo costringono a cancellare scritte che non aveva fatto, e lo fotografano. Il braccio è alzato. Ma non nel saluto romano. Nel gesto di pitturare un muro. La persecuzione continua. Sergio viene aggredito, picchiato, minacciato. Suo padre lo accompagna a scuola a chiedere il nulla osta per cambiare istituto. La voce si sparge, arrivano picchiatori da mezza Milano, padre e figlio devono passare tra due ali di folla che grida, picchia, sputa. Sergio lascia il Molinari, ma non è tranquillo neppure nella sua nuova vita.
Un giorno, un gruppo di picchiatori riceve la foto dell’obiettivo da colpire. È un ragazzo che non hanno mai visto. Ha un braccio alzato, e questo basta a identificarlo come fascista. È la foto di Sergio Ramelli davanti al muro della sua scuola, mentre sta cancellando le scritte.
L’aggressione è bestiale, financo maldestra. Sergio inciampa nel suo stesso motorino, il Ciao che ha appena parcheggiato sotto casa. Tenta di proteggersi la testa, lo colpiscono al volto. Tenta di proteggersi il volto, lo colpiscono alla testa. Dal cranio spaccato fuoriesce materia cerebrale. Gli aggressori fuggono. Sergio morirà dopo giorni di agonia.
È il 29 aprile 1975. Una morte innocente che innesca altre morti: i fascisti accoltellano a caso ragazzi il cui aspetto tradisce idee politiche diverse dalle loro, i rossi sparano e uccidono il consigliere provinciale del Msi Pedenovi, comincia il tempo delle pistole e degli agguati non per ferire e intimidire ma per ammazzare.
È un libro che si legge come la sceneggiatura di un film. Si intitola «Il tempo delle chiavi», lo pubblica domani Piemme. L’autore è Nicola Rao, oggi direttore della Comunicazione Rai, dopo una vita da cronista. Come ne «La fiamma e la celtica» e negli altri suoi libri, Rao investiga sia il mondo da cui proviene, la destra, sia il mondo a essa contrapposto negli anni 70, con onestà intellettuale, senza fare sconti a nessuno. E dimostra che l’omicidio Ramelli non fu un fatto casuale.
Nella sola Milano furono centinaia i «cucchini», le aggressioni mirate a giovani e giovanissimi a colpi di chiave inglese, da parte di gruppi dell’estrema sinistra. Contro militanti di fazioni rivali, contro giovani di idee politiche diverse e soprattutto contro militanti di destra, veri o presunti. Sergio Ramelli fu il più sfortunato di tutti perché perse la vita, ma avrebbero potuto essere decine i morti di questa guerra mai dichiarata e in parte sconosciuta. In molti restarono menomati nel fisico e nella mente, non pochi finirono paralizzati o invalidi. Una sorta di guerra «minore» e dimenticata.
Una persecuzione contro un ragazzo durata mesi, a scuola e nel suo quartiere, di fronte a professori impotenti e a tanti, troppi giovani e meno giovani che contribuirono a creare un clima di odio e demonizzazione che si concluse in tragedia. Rao ricostruisce questo clima minuto per minuto, in una sorta di flash back dell’orrore. Un lavoro quasi archeologico che riporta alla luce per la prima volta i verbali delle scuole in cui i professori cercavano di confrontarsi su quello che accadeva davanti ai loro occhi, con affermazioni che oggi sarebbero inaccettabili.
Rao pubblica anche un altro inedito: il verbale del consiglio comunale di Milano il giorno in cui giunse la notizia dell’aggressione a Ramelli, con applausi e cori da parte del pubblico, quel giorno composto da molti dipendenti e sindacalisti dell’Atm venuti a discutere il rinnovo del contratto di lavoro.
Il racconto va dalla sentenza del processo alla postfazione di Guido Salvini, il magistrato che anni dopo scoprì tra i militanti del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia gli assassini di Ramelli. Di particolare interesse le testimonianze dei politici che c’erano. Compreso il presidente del Senato Ignazio La Russa, che è un po’ l’alter ego della vicenda. Non solo perché, prima da leader dei giovani, poi da dirigente in ascesa del Movimento sociale, si trovò a gestire politicamente la vicenda Ramelli e in genere i difficili anni 70 milanesi. Ma perché al posto di Ramelli avrebbe dovuto esserci lui. Lo racconta Mario Martucci, capo della «Stalin», la più numerosa e aggressiva delle tre squadre dei Katanga, il servizio d’ordine del Movimento studentesco. Per noi, sostiene Martucci, «l’obiettivo dell’aggressione doveva essere qualcuno che poneva oggettivi problemi di convivenza, oppure un personaggio simbolico. Non c’era motivo di colpire il singolo ragazzino. Colpire Ignazio La Russa, ad esempio, quello sì che aveva un senso educativo e politico. E infatti ci abbiamo provato diverse volte, ma non ci siamo mai riusciti. Perché era attento, furbissimo, poi girava sempre con questo cane enorme al guinzaglio. Diventò un bersaglio obbligato, ma anche molto, troppo complicato da colpire». E La Russa conferma: «Arrivano un migliaio di compagni. Noi saremo stati alcune decine. Parte una sassaiola, resto ferito a una gamba. Il grosso del nostro gruppo si rifugia nell’ufficio di Franco Servello, e chiude il cancello. Mi volto e dietro di me trovo soltanto il mio vice al Fronte della Gioventù, la mia fidanzata e due militanti. Stop. Il gruppetto di testa dei compagni, una quindicina di persone, chiavi inglesi in mano, parte all’assalto al grido di «becca La Russa», «acchiappa La Russa». E uno di loro ce l’avrebbe fatta se la mia fidanzata non si fosse sostituita a me, prendendosi un colpo sulla spalla. Ci sono diversi agenti dell’ufficio politico della Questura in borghese, ma non intervengono. C’è anche una pattuglia di due carabinieri, uno spara alcuni colpi di pistola in aria. I compagni scappano. E cosa fanno quelli dell’ufficio politico? Fermano il carabiniere e se lo portano via. Non so cosa gli sia successo, non ho mai saputo come si chiamasse. Mi piacerebbe ringraziarlo perché mi ha salvato la vita». C’è un punto su cui La Russa fornisce però una versione diversa da quella del capo dei Katanga: il cane. «È vero, giravo sempre con un grosso pastore tedesco. Ma era buonissimo e non avrebbe mai fatto male a nessuno. Per fortuna i compagni non lo sapevano».