Corriere della Sera, 21 ottobre 2024
le politiche che vanno collegate
Giovedì scorso, la Banca centrale europea (Bce) ha abbassato il tasso di interesse guida della politica monetaria di 25 punti base. È la terza volta consecutiva. Siamo passati da un tasso del 4% nel settembre 2023, a quello di oggi, del 3,25%. Il segnale è quindi quello di un’inversione di tendenza dal lungo ciclo di aumento dei tassi, durata dal luglio 2022 al settembre 2023.
Non è stata una sorpresa. L’inflazione è in discesa da due anni e la Bce prevede che il target del 2% annuale sarà raggiunto l’anno prossimo. Come molti di noi avevano previsto, il fenomeno di alta inflazione è stato temporaneo, frutto di circostanze eccezionali come la riapertura dell’economia dopo il Covid e lo shock del gas, legato alla guerra in Ucraina.
Tra gli osservatori c’è chi pensa che la Bce sia in ritardo e che avrebbe dovuto allentare la stretta prima e ora tagliare di 50 punti base come è stato fatto negli Stati Uniti.
A sostegno di questa idea è il fatto che le sue previsioni hanno sovra-stimato sia l’inflazione che l’andamento dell’economia reale, ambedue più deboli di quanto previsto solo pochi mesi fa. Oggi, con una riduzione di 25 punti base, le condizioni di finanziamento rimangono ancora restrittive, cosa che si evince dalla differenza tra il costo reale del credito (tasso di interesse aggiustato dall’inflazione) e quel tasso ipotetico dove l’economia raggiunge il pieno impiego.
Q uesta differenza, una specie di barometro della politica monetaria, ci dice che quest’ultima sta ancora comprimendo la domanda di beni e servizi. Lo ha detto esplicitamente la presidente Lagarde e lo ha giustificato con la necessità di un prudente gradualismo per evitare il rischio di una ripresa dell’inflazione. Ma il rischio del contrario, cioè di un prolungamento di condizioni anemiche di crescita e di un ritorno alla situazione pre-Covid, caratterizzata da una inflazione troppo bassa e da tassi di interesse negativi, non è da sottovalutare. Le condizioni sottostanti dell’economia europea di quel periodo – debole demografia, bassa crescita di produttività e del reddito potenziale – non sono cambiate negli ultimi due anni ed è quindi molto probabile che i fattori di offerta richiedano tassi reali bassi per evitare che riemergano rischi di deflazione come negli anni precedenti al Covid. Questi rischi preoccupano anche perché le politiche fiscali dell’Unione nei prossimi anni saranno anch’esse restrittive e contribuiranno ulteriormente a sottrarre stimoli di domanda.
Ma ciò che succederà a tassi e inflazione nei prossimi anni dipenderà soprattutto da altri fattori: contesto geopolitico, transizione energetica e scelte che farà l’Unione europea in tema di investimenti.
Le tensioni geopolitiche potrebbero comportare shock negativi di domanda legati all’aumento di tariffe nei confronti delle esportazioni europee e frizioni nelle catene del valore che potrebbero determinare impennate nel prezzo di materie prime essenziali, una combinazione quindi di shock di offerta e di domanda con conseguenze opposte sull’inflazione ma ambedue di segno negativo sull’attività economica reale.
La transizione energetica nel lungo periodo ci renderà più resilienti, ma nel breve avrà enormi costi. Numerosi rapporti di esperti calcolano che la transizione innalzerà i costi di produzione poiché richiederà una modifica dei processi e una sostituzione o riadattamento delle attività ad alta emissione con un conseguente aumento dei costi operativi e dei costi di capitale per nuovi investimenti e ammortamento. Nel settore energetico, è probabile che il costo medio globale dell’elettricità erogata tra generazione, trasmissione, distribuzione e stoccaggio aumenterà nel breve periodo anche se nel lungo dovrebbe scendere perché il progresso tecnologico nel settore delle rinnovabili dovrebbe aumentarne la scala e la capacità di rete e stoccaggio.
Queste considerazioni fanno pensare a una combinazione di depressione della domanda che abbassa l’inflazione media, ma uno shock di offerta che ne innalza la volatilità, uno scenario non facile da affrontare per una Banca Centrale. Il recente episodio inflazionistico è probabilmente un esempio di tale regime. Se questo è vero, è anche probabile che la Bce avrebbe dovuto evitare di rispondere con troppa aggressività alla volatilità temporanea dell’inflazione per non indebolire l’economia reale e favorire l’aggiustamento dei prezzi relativi in relazione ai cambiamenti strutturali e alla riallocazione di attività tra settori e dovrebbe oggi correggere il tiro con più tempestività.
Per il futuro, il regime che prevarrà, dipenderà da quanto velocemente si accelererà l’investimento nelle tecnologie rinnovabili. In Europa, come indicato dal rapporto Draghi, questo dipenderà soprattutto dalla volontà collettiva di mobilizzare risorse ingenti per questo scopo. Non solo questo è un fattore decisivo per rendere la nostra economia meno vulnerabile ai rischi climatici, ma anche per contrastare i rischi di volatilità di inflazione e di offerta che la transizione comporta.
In questo la politica monetaria avrà un ruolo secondario. Ma in uno scenario di boom di investimenti, dovrà essere coerente con tassi di interesse reali più alti che in passato. Il futuro dei tassi di interesse dipenderà quindi dall’insieme delle politiche pubbliche e non solo dalla politica monetaria. La sfida per la Banca centrale sarà quella di saper leggere le tendenze dell’economia e discriminare tra spinte temporanee e permanenti di inflazione. Questo sarà il test su cui si misureranno le banche centrali nei prossimi anni e, più che in passato, la capacità di superarlo dovrà poter contare su un maggiore coordinamento tra politiche monetarie, fiscali e energetiche.