Robinson, 21 ottobre 2024
Intervista ad Alberto Abruzzese
Il libro che lo ha reso famoso, e che è stato in un certo senso condannato da chi ne fiutava (ed erano tanti tra accademici e intellettuali) l’odore di eresia, fu pubblicato mezzo secolo fa.
Grazie a Forme estetiche e società di massa Alberto Abruzzese aveva dato fondo a tutta la sua curiosità, scavando tra le prime avanguardie storiche del ’900, accompagnando con pensieri irriverenti la nascita del cinema, Hollywood e l’industria culturale americana. Libro spiazzante con al centro la figura totemica di King Kong, la cui tragica avventura – raccontata nel film del 1933 (e in altri remake) iniziava in un’isola misteriosa e finiva sul roof dell’Empire State Building. Ho l’impressione che Alberto, nel corso della sua lunga carriera di saggista, abbia finito con lo scrivere, varianti e integrazioni permettendo, sempre lo stesso libro. Non credo sia un demerito. Ma certo un’ossessione.
Come scoprire il Santo Graal e cercare ogni volta di difenderlo. Sicché nel 1979 uscì La grande scimmia, poi ristampato nel 2007 (edizioni Sossella), dove pur parlando di mostri, vampiri, mutanti e automi, al centro c’era sempre lui King Kong, l’anima segreta dell’Occidente, un concentrato di terrore e tenerezza che solo l’America degli anni Trenta poteva immaginare come sublimazione della natura selvaggia del potere e della sua drammatica perdita.
Quando uscì, il libro spaventò e irritò parecchi intellettuali del Pci, partito al quale tu eri iscritto.
«Non immaginavo ci fossero compagni disposti a “seppellirmi”. Gli apparati del partito erano le vere guardie del corpo dell’ideologia. Refrattarie al cambiamento difendevano il verbo della tradizione».
In quel momento qual era la tradizione?
«La linea storicista che comportava una certa lettura di Gramsci e uno sguardo sulla società congelato agli anni del dopoguerra. Oltretutto, non c’era neanche bisogno di un richiamo o una direttiva che scendesse dall’alto.
L’intellettuale comunista aveva interiorizzato le regole della politica e agiva di conseguenza».
Come il cane pavloviano.
«Era la disciplina di partito che produceva gli automatismi culturali».
I riflessi condizionati scattarono all’uscita del tuo libro. Cos’è che irritava?
«Nella sostanza il modo radicalmente diverso di leggere la cultura di massa. Il fatto che io avessi posto al centro del discorso quello che si riteneva un modesto prodotto cinematografico, intendo il film King Kong, attribuendogli una carica innovativa e dirompente, fu ritenuto uno sfregio o, peggio ancora, una resa al cinema americano e a tutto quello che rappresentava».
Sdoganasti la grandezza di Hollywood.
«Vidi in quel cinema una capacità di presa sul pubblico straordinaria. Mentre nella cultura di sinistra prevaleva l’idea che quel cinema fosse solo la massima espressione dei valori del capitalismo, io vi coglievo il corto circuito tra l’industrializzazione del sogno e l’industrializzazione della vita quotidiana».
Fu una delle prime forme novecentesche di globalizzazione.
«Ovvio che il capitalismo c’entrava ma era un suo dare forma all’esperienza vissuta attraverso il grande schermo».
Sono le cose che negli anni Quaranta la Scuola di Francoforte seppe mettere a punto.
«Attraverso un’analisi allora originale dell’industria culturale e i meccanismi che la regolano. Tuttavia, quella di Adorno e Horkheimer era una posizione sapienziale di forte critica dell’industria culturale come causa principale della disgregazione dei valori della società civile».
Colpevolizzano la cultura di massa?
«A differenza di Walter Benjamin – che colse nella “cultura di massa” le prime forme metropolitane dell’immaginario collettivo – condannarono la sua potenza irresponsabile».
Benjamin prese atto che si trattava di forme estetiche da cui non si poteva scappare.
«Evitò l’atteggiamento moralistico che è quello che in qualche modo ho cercato di fare anch’io proponendo negli anni ’70 un modo nuovo di leggere la cultura di massa. Trovando uno dei perni del discorso nel film King Kong».
Perché Kong sarebbe il nostro archetipo?
«Perché in qualche modo fonda la nostra civilizzazione. Il passaggio dall’origine brutale dell’isola alla metropoli dell’immaginario si compie attraverso il cinema hollywoodiano, uno dei vertici della cultura di massa. Quanto all’“archetipo”, esso non ha una storia alle spalle, ha solo un’estensione e una durata temporale che ho cercato di ritrovare nelle forme espressive del mondo contemporaneo».
Cosa vuoi dire?
«Che per capire il senso e la forza dell’immaginazione occidentale ho posato lo sguardo su quello che ritengo la massima espressione della società industriale e di massa: il cinema sonoro, una macchina narrativa e simbolica perfettamente in grado di spettacolarizzare tutte le forme culturali antiche e moderne della civilizzazione occidentale».
Di cui il destino brutale e tragico di King Kong è la perfetta immagine?
«Lo è per la relazione fondamentale tra barbarie e civilizzazione. Contrariamente alla tesi illuministica – che vedeva nel progresso l’uscita dalla barbarie e l’entrata nella civiltà – sostengo ci sia un permanente cortocircuito tra i due momenti».
Ossia che la civiltà non può fare a meno della barbarie?
«La barbarie è il sottofondo oscuro mai definitivamente eliminabile. Ma il problema è anche un altro, chi è il vero barbaro: Kong o coloro che lo catturano e lo espongono nella metropoli? Lo stesso dilemma lo ritroviamo nel rapporto tra bellezza e orrore. Non può esserci l’una senza l’altro».
Definisci questa relazione di tipo sacrificale.
«Come è sacrificale la scena finale in cui Kong rapisce la Bella e si rifugia in cima all’Empire State Building. Deportato dalla sua isola primitiva Kong si ritrova nel punto più alto della metropoli. La domina ma al tempo stesso ne è dominato fino a essere abbattuto dagli aerei e dai valori che la civiltà esprime. Eppure egli non è più solo la “Bestia”, è anche il tratto umano di chi ha scoperto la potenza del desiderio ossia l’amore istintivo e impossibile per la Bella. Per lei decide il gesto supremo del sacrificio».
Tutta questa storia mi fa pensare alla recente questione posta a partire da un vecchio libro I due corpi del Re di Ernst Kantorowicz.
«È vero, anche Kong è dotato di due corpi, il corpo archetipo, che è anche il suo corpo cinematografico, e il corpo della scimmia. Mi spingerei a dire che Kong è come il “corpo” della rete: organico e inorganico».
Mettiamo in pausa il motore di questa sofisticata analisi. Come sta il tuo corpo?
«In un certo senso mi sento una sottospecie di King Kong».
Mi ha colpito nella nuova introduzione a Forme estetiche e società di massa (che uscirà per Marsilio), il tuo insistito richiamo alla senescenza.
«Una condizione che non ho cercato ed è giunta improvvisa. Oltretutto, in chi come me ha evitato a lungo di farsi adulto».
Hai 82 anni.
«Non direi che mi percepisco in una vecchiaia del tutto irreparabile, ma come un corpo ormai fuori posto. Questo sì. C’è qualche sacra ragione che mi fa pensare di non essere più come prima. La stagione nella quale ho prolungato la mia infanzia è svanita di incanto, risucchiata dalla senescenza che mi ha colto e che tuttavia mi ostino a non considerare propriamente mia».
Una vecchiaia che vedi altrove.
«Di lato, fuori dalla mia vista. La sensazione è quella di avere attraversato lo specchio. Tuttavia, il “me” che mi guarda in questo passaggio resta ancora il bambino convinto che per capire e carpire il mondo, per farne esperienza, sia necessario restare senza parole e consegnarsi al tatto delle cose».
È quello che ti sta accadendo?
«È irrilevante ciò che accade a me come singola persona. Mentre rivela tutta la sua importanza il fatto che la sparizione del “me” corrisponde alla sparizione del genere umano, di quegli attori che ne hanno interpretato la storia, trasformandola in piccole o grandi narrazioni. È come se nel chiudersi di una vicenda personale, privata, si chiudesse il mondo che l’ha determinata. Un modo di morire e di rinascere».
Dove sei nato?
«A Roma. Famiglia, come si diceva una volta, di ceto medio. Mia madre professoressa ha segnato la mia educazione sentimentale, spingendomi alla lettura. Mio padre, puritano con un passato di giocatore d’azzardo e di sciupafemmine, è quello che mi ha introdotto alla passione per il cinema. Un buon mix che ha agito sui miei desideri culturali. Sono stato fulminato dalla triade Lukács (il primo Lukács), Benjamin, McLuhan. Mi sono laureato un po’ in ritardo con Natalino Sapegno e Alberto Asor Rosa. Alberto è stato un mio punto di riferimento, come lo fu Mario Tronti».
Hai fatto anche una comparsata in Ecce Bombo.
«Era il 1978, conoscevo Nanni che mi scelse per una particina nel suo film. Allora insegnavo già all’università. Interpretavo l’intellettuale un po’ trombone e frustrato. Il titolo del film era un’espressione che la mia compagna Benedetta Bini aveva sentito spesso dalla finestra gridata da uno straccivendolo. Davvero è un altro tempo».
C’è qualcosa che rimpiangi?
«Mi sono molto divertito a scrivere certe cose e a occuparmi di argomenti che in Italia erano stati per lo più invisi. Poi ho pensato che la mia giocosa predisposizione al pensiero sia coincisa con l’assenza di una teoria critica adeguata».
Intendi dire che avresti voluto fare delle cose che non sei riuscito a fare?
«Penso proprio di sì. E questa tardiva consapevolezza mi ha procurato una sensazione di sbandamento. Come se non riuscissi più a riprendere il filo di certe storie per dar loro una conclusione».
Eppure i tuoi libri hanno contribuito a incrinare l’egemonia culturale di sinistra frutto di neorealismo e storicismo.
«Ricordo ancora l’effetto dirompente dell’“Estate romana”. Fu una felice contaminazione tra i miei libri e l’azione politica di un personaggio straordinario: Renato Nicolini».
In molti nel Pci si infuriarono.
«Lo credo. Leggevano la cultura dell’“effimero” come una bestemmia».
Chi ha inventato la parola?
«Non lo so, non io. Ma quello che si concentrava nell’effimero era la consapevolezza che stesse nascendo l’avanguardia di massa dei consumi culturali».
Che di lì a poco avrebbe condotto alla nascita delle televisioni private.
«Quelle trasformazioni mediatiche furono il principio della crisi della politica tradizionale. Più potenza delle immagini meno potenza del capitale».
E questo il Pci non l’aveva capito.
«No, chi lo comprese benissimo fu Berlusconi. In un certo senso dopo King Kong è quello che ha riassunto meglio la teoria dei due corpi».
Cioè?
«Sovrano e giullare. Scrissi un libriccino sulle ragioni per cui aveva vinto».
Dimmene almeno una.
«Che in Italia il berlusconismo era nato prima di Berlusconi. Nel senso che lui è stato la conseguenza del rapporto servo-padrone che a lungo aveva fermentato nel Paese».
In che società ritieni di vivere?
«In una società della sopravvivenza. Non c’è più alcuna differenza tra il mondo animale e quello sociale. Le persone devono assoggettarsi a regole e ad azioni di sopravvivenza».
Cosa intendi dire?
«Siamo soggetti sociali investiti di un ruolo necessario alla persona. La nostra sopravvivenza è proporzionale alla capacità di difenderlo e di perpetuarlo. Una volta che questa necessità è accertata scatta il principio di violenza. Ciascuno agisce per rimuovere gli ostacoli che impediscono il riconoscimento del proprio ruolo».
È un paradosso.
«Lo è dal momento che le stesse regole da un lato servono a costruire un ordine ma, dall’altro, a generare conflitti.
Ecco il destino della sopravvivenza. Un tempo pensavo che avremmo cambiato il mondo. Poi è venuta la fase del mondo che cambia noi. Ora ci accorgiamo che il mondo se ne frega delle nostre passioni, dei nostri programmini, delle nostre teorie. La cosa peggiore è che non avvertiamo più il dolore degli altri».