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 2024  ottobre 21 Lunedì calendario

Aldo Capitini, la lezione del Gandhi italiano



Con l’incubo di nuove guerre, e le notizie disastrose di quelle in corso, si torna oggi a rileggere e meditare Gandhi, Capitini, Simone Weil, Etty Hillesum, e più indietro Tolstoj o Romain Rolland, con la sensazione di una ripetizione, con la paura di nuove barbarie e di altre migliaia o milioni di vittime innocenti (che sono talvolta, anche inconsciamente, scioccamente complici).
La radicalità di un pacifismo che potremmo dire integrale spaventa anche i pacifisti più convinti – e per questo Gandhi, Weil, Capitini ci tornano presenti sconcertandoci con la loro inflessibile, radicale volontà di pace, talvolta fino a proporre l’incontro tra aggressori e aggrediti – e questo tanto più quando non si riesce a distinguere fino in fondo gli uni dagli altri e si assiste impotenti ai reciproci massacri. C’è chi ha più ragione, e c’è chi ha più torto.
E ci sembrano quasi una provocazione le convinzioni e i consigli dei grandi della nonviolenza di fronte al fallimento delle speranze di un dialogo fruttuoso tra le parti. Testimoni di scontri criminali, ma anche loro – anche noi – nel turbine di notizie terribili, e con l’incubo che se ne possano ricevere di più brutte, e con la ineludibile sensazione che «niente serve a niente», come dice l’Ecclesiaste. Che la pace sia un’illusione alla cui speranza rinunciare.
È sconsolante rileggere Gandhi, la Weil, Capitini alla luce di quanto oggi avviene, di quanto continua ad avvenire e certamente non ha mai smesso di avvenire anche se non volevamo saperlo e non volevamo vederlo. Quel radicalismo ci sembra allo stesso tempo più che necessario e però infinitamente utopico, ché ogni segnale che ci manda la realtà sembra smentirlo, lo smentisce. La lettura del giornale non è affatto, come voleva Schopenhauer, la preghiera del mattino dell’uomo moderno, ma piuttosto la sua, la nostra bestemmia. Eppure l’insistenza nel proporre il dialogo (e nell’agire di conseguenza, individualmente o nei pur piccoli gruppi) deve continuare a essere il nostro progetto più ampio e il più possibile concreto, e senza mai stancarci, come non si stancarono Tolstoj Gandhi Weil Capitini. Pur nella nostra miseria, dobbiamo sempre cercare, in piccoli o grandi gruppi, la persuasione necessaria alla ricerca di una nostra presenza attiva, nonché disturbante. (Con l’ottimismo della volontà, rivolgendoci a gruppi più grandi anche quasi del tutto sordi, cercando di coinvolgere nella lotta per la pace più persone che sia possibile raggiungere e convincere, e una sinistra ufficiale, peggio che sorda vigliacca...).
Si torna a Capitini, oggi, per confrontarci ancora con le sue idee e persuasioni, perché di questo sentiamo ancora il bisogno, forse più che mai. Le sue idee e di pochi altri come lui, che tuttavia, in momenti molto difficili per chi davvero cercava la pace, si sono visti isolati, in assoluta minoranza. Eppure...
L’opera di Capitini ha la forza e l’originalità che hanno avuto quelle di Tolstoj, di Gandhi, della Weil. E se quest’opera non ha avuto e non ha i riconoscimenti e la diffusione che avrebbe meritato, pur sempre minoritaria, ciò è dovuto all’epoca in cui Capitini ha operato, e alle chiusure che contraddistinsero gli anni dei fascismi e quelli della guerra fredda. Ma, tra politica e cultura e tra filosofia e religione, Capitini vedeva più lontano dei politici del suo tempo, più complici che, taluni, vittime.
Capitini visse negli anni del fascismo e del nazismo, di Stalin e di Pio XII, e di un capitalismo risorto dalle ceneri della Prima guerra mondiale più aggressivo abile imponente che mai. Portarono, quegli anni, a Auschwitz e a Hiroshima, e dopo di allora parlare di pace, come a sinistra pur si faceva, aveva qualcosa di non convinto né convincente, e il sospetto verso quei discorsi si faceva più acuto quando a farlo erano i portatori di un pensiero che si voleva di fondo religioso, non solo politico. Capitini fu visto con sospetto o con ironia, anche a sinistra, perché parlava di politica e di cultura a partire da un’idea di “persuasione” (fu lui, probabilmente, il miglior divulgatore del giovanile capolavoro di Michelstaedter La persuasione e la rettorica) che non distingueva tra politica, cultura, pedagogia. E pedagogia era per lui, come dovrebbe sempre essere, la formazione delle nuove generazioni – guardando più in generale all’educazione anche come un processo di auto-formazione di un popolo, stimolato da interventi esemplari, pur minoritari, dentro la società, da una pratica evidente e sia pure di pochi del buono, del giusto, del vero.
Rileggere oggi certe sue pagine contro “l’assoluto del benessere” (il modello capitalista occidentale) e “l’assoluto dello Stato” (il modello imposto a tanti popoli dall’Unione Sovietica) e sulla necessità di mettere in discussione le ideologie dello Stato alla pari di quelle del consumo – che vanno spesso di pari passo – è ancora fortemente istruttivo, nonostante l’epoca sia cambiata: non accettando le proposte di vita che da quei modelli discendono e che ossessivamente vengono ribadite. Tanto più quando quei modelli mettono in forse la stessa sopravvivenza del genere umano, della natura...
Per cosa lotta il “persuaso” se non per il riscatto dell’uomo dalla limitatezza, dalla morte, dalla violenza, per la liberazione di tutti e per il rispetto della natura, quella natura “che tutti in sé confederati estima”? Per agire a questo fine occorre proporre e difendere “l’omnicrazia”, e cioè “il potere di tutti”. E si chiamò non a caso Il potere è di tutti  l’ultimo giornale o bollettino che Capitini diffuse, quattro facciate scritte quasi soltanto da lui. L’ultimo numero, poco tempo prima che egli morisse, volle dedicarlo (siamo agli inizi del ’68) al movimento degli studenti, in difesa del “potere assembleare” e contro le ricorrenti tentazioni di egemonia di un gruppo sugli altri, contro i vagheggiamenti della violenza, e contro il potere leaderistico in fortissima difesa del potere assembleare. Per Capitini, insomma, si tratta ogni volta o di accettare o di non-accettare la realtà per come ci si propone, come ci viene proposta dalle culture dominanti e dalla loro politica.
Si tratta di accettare o non accettare il mondo così com’è – la società e finanche la natura... (la creazione è imperfetta, ripeteva Anna Maria Ortese, e sta a noi intervenire per cambiarla).
Il pensiero di Capitini si è certamente nutrito di quello di altri maestri, europei e non – da Francesco d’Assisi a Leopardi, da Mazzini a Kierkegaard, da Tolstoj a Gandhi, e ovviamente da Gesù al Buddha.
Non accettare la realtà, intervenire nella realtà, cambiare la realtà. Un’impresa enorme, ma che è forse l’unica che meriterebbe la nostra adesione, riportando a essa la nostra pur minima azione. 
Affermando la nonviolenza come la strategia fondamentale e unica, non come un mezzo tra altri ma come una linea di fondo: contro il potere e contro la morte, contro la distanza tra le creature.
Capitini vede la nonviolenza come lo strumento che può rompere il cerchio dannato della storia, il circolo vizioso che sostituisce un potere a un altro senza cambiare le regole del gioco, senza liberare dal dominio di nuovi poteri, di nuove oppressioni, di nuove violenze. Quando la tensione rivoluzionaria si trasforma in istituzione, essa è destinata a produrre un nuovo potere e a mantenere le disparità di fondo. Il ricorso alla violenza finisce per preparare la strada a nuove ingiustizie; l’utopia che si pretende di realizzare ricorrendovi finisce per essere negazione dell’utopia egualitaria e socialista.
Nonviolenza, però, è qualcosa di più che un metodo, di uno strumento in quanto tale. Del provvisorio ricorso a metodi di lotta nonviolenta è piena la storia, anche quella del movimento operaio; e a questi metodi, ma in chiave più rigorosa e appunto non strumentale, Capitini ha dedicato un aureo libretto, Le tecniche della nonviolenza. La nonviolenza è un fine in sé, è il rifiuto di veder disgiunti i fini dai mezzi, è un modo di rapportarsi alla vita in tutti i suoi aspetti, agli “altri” anche i meno vicini (compresi gli animali, di qui la scelta del vegetarianesimo). C’era nella stessa piccola voga della nonviolenza degli anni in cui egli la andava predicando, qualcosa che Capitini non apprezzava: l’aspetto di mera testimonianza, di mero perfezionamento individuale; Capitini tollerava ma non amava questo modo di essere nonviolenti insistendo invece su un’idea fortemente attiva della nonviolenza. La nonviolenza non può e non deve proporre un piccolo giro di “salvati” in un mondo nemico e ha senso solo in quanto apertura e dialogo, apertura e azione. Sul modello di Gandhi, ma con radici profondamente italiane ed europee, Capitini ha insistito sulla nonviolenza come strategia e non solo tattica, contro la riproposizione delle logiche del potere e della violenza. Dall’individuo al gruppo e alla comunità, al “potere di tutti”. Tantissimi limiti possono essere abbattuti, l’importante è dire “non accetto”.
Ma è ancora attuale il pensiero di Capitini? Sull’attualità di Capitini io non ho alcun dubbio, ma ne ho invece molti sulla nostra, di attualità... L’epoca è quella che è, la sua confusione, il suo conformismo, i suoi opportunismi sono sotto gli occhi di tutti, e l’accettazione del presente e delle sue regole è diventata così generale e collettiva – senza domande sui perché e sui come e sui dopo – da lasciare assai pessimisti sul futuro di ogni possibile alterità.
Ci caratterizza l’accettazione del presente, delle cose così come sono o come si evolvono, o ancora meglio di come le portano a evolversi i vecchi e i nuovi padroni, la banca mondiale, l’industria o quel che ne resta da noi più onnipresente e distruttiva ricattatrice che mai (mi chiedo spesso come avrebbe reagito Capitini alle ossessive notizie di incidenti di lavoro, alle tante morti che ne seguono). Nessuno mette in discussione questo modello di sviluppo e non ci sono forze teoriche o organizzate che tengano testa, sia pure “nel loro piccolo”, a questi poteri e alla loro prepotenza. I piccoli e benemeriti gruppi ambientalisti e gli ancor più ristretti gruppi nonviolenti sembrano a volte preoccupati più di farsi ascoltare o accostarsi ai poteri vigenti accettando per starci anche condizioni inaccettabili, talvolta fino a negare la loro stessa ragion d’essere, mentre altri piccoli gruppi, i più abili, finiscono per insediarsi in piccoli spazi ai margini delle istituzioni e per non dare fastidio a nessuno, una variante fra tante nella pluralità delle proposte “democratiche”.
Quanti sono coloro che osano, anche di fronte all’inaccettabile, affermare “non ci sto”, “non accetto”, “cerco altro”; quel “no” indispensabile che è alla base – necessariamente individuale, prima che di gruppo – di ogni risposta attiva (preferibilmente nonviolenta) all’ordine che ci è imposto? Non credo che oggi Capitini apprezzerebbe molto i pochi che dicono di avere imparato da lui, credo invece che cercherebbe per quanto gli fosse possibile di mettere in crisi il loro quieto vivere, la loro accettazione delle “regole del gioco” detto democratico.
Sembrerebbe inattuale, Capitini, mentre è più che mai attuale. Non è attuale, perché dal suo pensiero è molto raro che vi sia chi ricavi davvero le indicazioni fondamentali per intervenire nella realtà sociale e politica del tempo, anche se talvolta – peraltro molto raramente – è citato da qualche associazione pacifista, o che si dichiara nonviolenta ma è poco più che “buonista”. Eppure il suo pensiero, con le indicazioni concrete che se ne possono ricavare è più che mai impressionante, a tanti anni dalla sua morte.
Alcuni suoi amici hanno lamentato il “provincialismo” di Capitini: quanto avrebbe potuto incidere il suo pensiero se avesse girato l’Europa, se non fosse stato così condizionato dal piccolo ambiente umbro! Egli era un educatore, come don Milani, per esempio, che si fermava su una cosa e ne ricavava il massimo, dovunque fosse; era un pensatore di vastissimo orizzonte, aveva bisogno di spaziare, e le sue idee avrebbero potuto avere un’influenza sulla storia del pensiero filosofico e religioso come su quella dei movimenti di contestazione politica se solo avesse voluto (più che saputo) uscire dal suo guscio – che era in parte, ora ce ne rendiamo meglio conto, anche una forma di nevrosi, conseguente a una ricerca di sicurezza.
Oggi possiamo lamentare l’opportunismo e la povertà del pensiero nonviolento venuto dopo di lui. E abbiamo scoperto e amato anche altri maestri, per esempio quel Günther Anders, partito dalla battaglia contro l’atomica come perno della sua azione perché cosciente della radicale trasformazione che l’atomica aveva portato nel mondo, dell’atomica come fine della storia e possibile “fine del mondo”. Non era nonviolento, Anders, e diceva che bisognava assolutamente fermare le mani che avrebbero potuto dar l’ordine di lanciarla, davvero un “punto di non ritorno”, e denunciò l’incapacità dei movimenti nonviolenti di reagire efficacemente all’esistenza stessa dell’atomica e alla costante, ossessiva aggressione verso la natura.
Né ci sembra del tutto irragionevole la proposta di “ritiro” che sembra venirci da più parti, da chi, crescendo nel mondo di oggi, si disgusta della sua insensatezza e decide semplicemente di starne fuori, di non cercare affatto il dialogo con la politica, con le rappresentanze organizzate, di dichiarare chiusa la partita e di fare banda a parte, e per quel che può di “non partecipare”. Di tenersi ai margini della storia per non contribuire al disastro, inventandosi spazi e modi di sopravvivenza confusamente marginali. E questi modi, di fronte al massiccio non-pensiero della cultura e della politica ufficiali, sono destinati a crescere, mentre tanti gruppi che fanno meritoriamente cose utili al prossimo più trascurato dal potere (e dalla democrazia), si lasciano usare, pur di sopravvivere, da poteri sempre più cinici. “Recupero” e “integrazione” caratterizzano quasi tutta la recente storia del volontariato e del terzo settore. Dentro i canoni che il potere stabilisce, dentro i miseri margini che esso concede, avvantaggiandosene a protezione del proprio egoismo e opportunismo.
Ma proprio per questo Capitini è attuale, perché il suo “non accetto” può ancora esserci di stimolo e di modello per il nostro tempo. C’è una molla su cui far leva, prima di ogni precisazione teorica e di ogni proposta di azione collettiva, che pure potrebbe avere quantità di modi di intervento singoli, di gruppo e di movimento. Il punto di partenza che Capitini ci indica è di non accettare le menzogne e gli opportunismi del potere, dei poteri. E basterebbe partire dal suo rifiuto della menzogna, dalla sua proposta della non-menzogna singola e di gruppo, con le sue conseguenze di non-collaborazione. Non-menzogna e non-collaborazione col potere e le sue logiche sono corollari fondamentali della nonviolenza, sono punti dai quali si dovrebbe e potrebbe partire anche per arrivare alla nonviolenza. La prima molla, il primo passo sono quelli del “volontarismo etico”, del “non accetto” individuale, e Capitini direbbe della “persuasione”. Ma quanti sono oggi i “persuasi”, nel flusso addormentante per i più e inquietante per i meno delle accettazioni, singole e di gruppo, che caratterizzano questo nostro tempo e questo nostro Paese così spaventosamente “consenzienti”?