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 2024  ottobre 20 Domenica calendario

Intervista a Paolo Calabresi

Uno, a volte nessuno, in alcune occasioni qualcun altro, in altre ancora una maschera di se stesso. Al centro c’è Paolo Calabresi, un’esistenza contro ogni regola dell’attore moderno, che “recita”: mai portare il personaggio a casa, il professionista si scherma. Lui per alcuni anni non ne portava uno, ma vari. Lui era “vari”. Quindi Nicolas Cage a San Siro, tutta la dirigenza del Milan schierata, ma in realtà voleva solo scroccare un biglietto per vedere la Roma; lui era il ministro africano davanti a Walter Veltroni (“non felicissimo della performance”). Lui era Tarantino alla notte dei David (“Scorsese mi ha beccato”).
E avanti così, per sette anni.
Eppure lui era, ed è, uno degli ultimi (reali) attori strehleriani (“il mio maestro”): cinque anni al Piccolo e proprio dopo una prova al Piccolo “è nata la goliardata di San Siro”.
Lui era ed è Biasciaca, uno dei personaggi più amati della serie cult Boris.
Lui oggi è Ugo Pecchioli, dirigente comunista, nel film di Segre dedicato a Berlinguer. Ed è bravissimo nel grigiore, nella serietà, nei colletti ben chiusi, nella solennità della liturgia comunista. “È un gran bel film, tecnicamente straordinario tra inserti di repertorio, musica, fotografia; alla fine della proiezione le lacrime di Bianca (Berlinguer) credo siano legate sia alla figura del padre, sia alla dolcezza di tutta la pellicola”.
Scatta l’effetto di “come eravamo”.
C’è il dolore lancinante per un’epoca definitivamente scomparsa, dove la politica era vicina alle persone, gli avversari si confrontavano, esistevano rapporti diretti; (pausa) fa impressione il rapporto tra popolo e politica, le feste dell’Unità ne erano la celebrazione.
Da ragazzo si occupava di politica?
Vengo da una famiglia di democristiani: mio zio è stato sottosegretario al ministero dell’Industria o degli Interni, non ricordo bene.
Democristiani di rango.
Sono il quarto di cinque fratelli, con una sorella comunista e un’altra fascistissima. A tavola erano litigate. Con mia madre e mio padre, dei dorotei, che accettavano e sopportavano il conflitto.
Famiglia borghese.
Medio-borghese.
Ha frequentato il Massimo, l’istituto privato dove sono cresciuti Montezemolo, Draghi…
(Sornione) Lo ha immaginato o ha studiato?
Il Massimo non è una colpa.
No, ci mancherebbe. Ma all’inizio di questo lavoro mi sentivo una pecora nera proprio per il Massimo: gli altri arrivavano da un altro tipo di estrazione, così avevo i complessi al contrario.
Per la ricchezza?
Ma quale? Mia mamma era una Rebecchini, il padre (Salvatore Rebecchini) è stato sindaco di Roma nel secondo dopoguerra, quindi una famiglia molto ricca; eppure a casa mia quella ricchezza non è arrivata, papà non era adatto a quell’ambiente.
Cioè?
Non ha mai potuto esprimere il suo talento da archeologo, è sempre stato fermato dal pragmatismo della necessità: quindi prima assicuratore, poi siccome tutti gli zii erano costruttori, anche lui si è lanciato. Un disastro. Ha costruito quindici case, ma senza compromessi né pelo sullo stomaco: ha perso tutto.
Eravate i cugini poveri.
Un po’ sì, ma in casa eravamo tanti, stavamo tra di noi.
Si occupava di politica?
Sono nato nel 1964, ho perso il ’77, sono rimasto tra il così e il cosà; e da ragazzo pensavo solo (si ferma un attimo, ragiona, poi si salva con…) alle femmine.
Non voleva dire “femmine”. Si è censurato.
(Ride) Ha presente la scena di Boris, quando in coro ripetono “manca la fregna”?; da ragazzo mi interessava solo la Roma, giocare a basket, a tennis, stare con gli amici…
Studiava?
Pochissimo, anche meno di pochissimo, però mi salvavo sempre perché ero già un impostore. Uno che la dava a bere. E allora pensavo fosse un’ancora di salvezza, soprattutto i primi tempi da attore, poi ho capito che non è così e mi piace sentirmi sincero.
L’impostore è spesso manipolatore.
Sono stato pure manipolatore; nel periodo del mio trasformismo, da Nicolas Cage in poi, ho intrapreso un percorso da analisi psicologica.
Travolto da un altro se stesso.
C’è un periodo chiave della mia esistenza, quando mio padre e mia madre sono morti a distanza di dieci giorni: mamma scopre di avere un tumore, papà appena lo sa gli viene un infarto di notte. L’amava moltissimo. Pochi mesi dopo, c’è il terzo grave lutto: muore pure Strehler, il maestro.
Senza più ancore.
Per fortuna ero già sposato e con un figlio.
Sua moglie, quando le hanno chiesto del periodo del trasformismo estremo, ha risposto “l’ho lasciato fare, andava bene così”.
Lei straordinaria, non si è mai spaventata, nonostante a un certo punto i miei scherzi avessero intaccato le ultime riserve economiche della famiglia.
Il primo scherzo.
Sono al Piccolo per le prove del Sogno di Strindberg, regia di Luca Ronconi. La sera c’era Milan-Roma, tutto esaurito, così un amico mi consiglia: “Vai come Nicolas Cage”. Così chiamo come addetto stampa di Cage. Loro mi consigliano di inviare un fax. Va bene. E all’improvviso si accende come un enorme riflettore su di me: allo stadio mi aspettavano, il Milan aveva diffuso la notizia, Galliani che mi accoglie. Poi mi portano negli spogliatoi…
Non era solo.
Avevo coinvolto altri attori vestiti da bodyguard, e l’autista del Piccolo mi aveva accompagnato con la macchina del teatro; (sorride) l’autista, fino alla sua morte, mi ha chiamato ogni anno ringraziandomi per “il giorno più divertente della mia vita”.
Viveva in un’altra dimensione.
Portavo il mio mestiere fuori dai soliti luoghi; (pausa) il problema è che in quel periodo, nonostante fossi al Piccolo, non me ne fregava niente della professione, mi interessava più la partita della Roma. E nella mia testa non avevo nulla da perdere.
Incosciente.
Lo ero e senza saperlo ero attratto dall’enorme faro generato dalla “recita” a San Siro: quella è stata una grande prova attoriale, dovevo crederci, non potevo sbagliare nulla.
Adrenalina?
Come la prima di uno spettacolo teatrale, moltiplicata per dieci. Alla fine della partita siamo usciti urlando come dei ladri dopo una rapina.
Torniamo al teatro: Strehler e Ronconi.
Ronconi sono arrivato a detestarlo, chi ha lavorato con lui si è ridotto a stare male; Strehler no, con lui avevi a che fare con Mozart, con uno che non aveva preconcetti, pregiudizi, che era talmente naturale che sembrava non studiasse; (sorride) con Strehler non ho mai partecipato a una prova generale senza che ci interrompesse o salisse sul palco.
Mai?
Impossibile, alla prova generale spesso gli assistenti lo imploravano di non assistere, altrimenti ti correggeva nuovamente.
Aveva ragione?
Entrava in una dimensione onirica, dove non esistevano ragionamenti, ma solo la pancia. E aveva sempre ragione, coglieva l’impossibile.
Come è arrivato al teatro?
In teoria sarei dovuto diventare avvocato, poi un giorno mi lascia la ragazza del tempo; sofferente, raggiungo un amico a Parigi. Una sera mi trovo davanti al Théâtre du Châtelet, una signora anziana si ferma e mi rivolge la parola: “Mio marito non è potuto più venire, prenda questo biglietto, così mi accompagna perché non riesco a salire le scale”. Accetto. Mi siedo. E assisto all’Opera da tre soldi, regia di Strehler, protagonista Milva. Per tre ore sono rimasto immobile, impazzito. Torno a Roma, esce il bando per la scuola del Piccolo, mi iscrivo e mi prendono.
Quando ha capito di essere un fuoriclasse?
Non lo sono.
Insistiamo.
Qualche volta ho avuto la sensazione di esserlo, specialmente nel periodo trasformista, ma ero dopato (arriva il primo di una serie di fan per ottenere un selfie). I fan di Biascica li riconosco subito, e mi piace perché Boris lo amo: mi ha salvato dalla dipendenza del trasformismo.
A Biascica è proprio legato.
Se dovessero chiamarmi per un’altra stagione, mollo tutto e corro. E non vale solo per me, ma anche per gli altri.
Le Iene non le piacevano?
Zero, mi sono divertito giusto tre o quattro volte, ma avevo quattro figli e il narcisismo era pure solleticato dall’andare in televisione; poi c’è mia moglie.
Fondamentale.
Mi ha sempre difeso, anche quando amici e parenti la chiamavano allarmati; quando mi sono trasformato in Marilyn Manson ho utilizzato gli ultimi soldi da parte, eppure lei ripeteva “se si sente di farlo…”.
È stato mai picchiato da sua moglie?
(Stupito) Come lo sa? Una volta sola, pensava l’avessi tradita. Non era vero.
Come si giudica nel film su Berlinguer?
È una delle poche volte in cui non mi sono dispiaciuto, di solito sono tremendo.
Prova mai invidia?
Tantissima, vedo tanti cani che possono scegliere cosa girare.
Ora ha la sua credibilità.
È sempre dura.
La critica che riceve più spesso dai colleghi.
Ogni tanto che non cerco la verità del personaggio.
Che vuol dire?
Sono cliché, infatti gli rido in faccia.
Lei è pericoloso?
Un po’ sì, e alcuni mi temono. Sono anche grosso.
È iroso?
No, poche cose, giusto tre o quattro volte ho sbroccato sul set.
Tre o quattro non sono poche.
Una volta ho picchiato Rolando Ravello.
Ravello non è prestante.
(Sorride) Per primo è partito lui!
Perché?
Sul set, lui regista, c’era l’attrice che non voleva baciarmi: “Non posso, mi sono fidanzata!”. E lui, quando provavamo, se la prendeva con entrambi. Alla fine ci siamo spintonati.
È soddisfatto della sua vita?
Non tanto, perché negli ultimi anni mi sono impigrito. Sono un po’ stanco.
Come mai?
Non lo so, forse è un periodo della mia vita, ho appena compiuto sessant’anni.
Potrebbe diventare regista.
Ci sto pensando, sono in evoluzione.
La Roma è sempre importante?
Certo, anche se da quando mio figlio è diventato professionista (gioca nel Pisa) sono leggermente più distaccato, più pacato.
Ha segnato alla Roma.
Tacci sua.
Ecco, distaccato.
Vabbè, che vuol dire…
Lei chi è?
(Silenzio, quasi panico) In che senso?
Nel senso: si definisca.
(Altro panico, quasi balbetta) Sono Paolo, mia moglie si chiama Fiamma e abbiamo quattro figli.