la Repubblica, 20 ottobre 2024
Tutto quello che c’è da sapere sul caso Puff Daddy
L’unica cosa che gli pesa del carcere, dice, è il cibo.
Sean John Combs è il rapper 54enne noto come Puff Daddy (ma anche P.Diddy, Puffy, Diddy, Love e Brother Love a seconda dei re-brand) vincitore di tre Grammy. Uno dei più influenti magnati dell’industria musicale americana: producer, attore, designer, ristoratore e protagonista abituale delle pagine di gossip dei tabloid statunitensi.
Lo scorso 16 settembre è stato arrestato a New York con accuse gravissime: abusi sessuali e fisici, traffico della prostituzione, racket. Lui si proclama innocente e attraverso il suo avvocato Marc Agnifilo fa sapere solo di non essere soddisfatto del menù del Metropolitan Detention Center di Brooklyn, dov’è rinchiuso. Lo stesso carcere duro dove nell’agosto 2019 si suicidò il pedofilo Jeffrey Epstein.
L’avvocato assicura che il suo cliente a suicidarsi proprio non pensa: l’unica cosa che lo turba sono quei pasti a base di cereali a colazione, hamburger a pranzo e pasta la sera (si fa per dire, la cena è servita alle 4 del pomeriggio), così diversi dalle cene stellate cui era abituato: «Sa di essere innocente. Il cibo, per lui, è la parte più dura». Ebbene, gli toccherà modificare i suoi gusti visto che il giudice distrettuale Andrew Carter ha respinto la proposta di libertà previa cauzione da 50 milioni di dollari. Rimarrà rinchiuso almeno fino al 5 maggio 2025, data del processo, perché avrebbe già tentato di inquinare le prove tentando di corrompere potenziali testimoni.
Più soldi, più problemi. «Mo Money Mo Problems». Così cantavano insieme, nel 1997, Puff Daddy e l’amico Notorious B.I.G.
E, se le accuse risulteranno vere, una parte ce l’hanno di sicuro i tanti soldi guadagnati dall’artista di maggior successo nella storia del rap.
Lo si capisce leggendo tra le sordide righe del mandato d’arresto federale: 14 pagine dove si dettagliano i suoi tanti crimini, compreso l’incendio doloso (per una molotov), corruzione, rapimento, ostruzione della giustizia. Per il procuratore che ha diretto le indagini, aveva trasformato il suo impero in «impresa criminale» focalizzata all’organizzazione di festini chiamati freak off (nel gergo afroamericano letteralmente «sesso selvaggio», ma anche «eiaculazione») tenuti nelle sue case ma anche in hotel compiacenti.
Il denaro non era un problema quando si trattava di assecondare i desideri sessuali di Combs. Nel 2012, per dire, bisognò risarcire un hotel di Manhattan con 46 mila dollari: necessari a coprire i danni all’attico in cui era avvenuto il freak off. Quei festini equiparati a esperienza horror: «Spettacoli sessuali degradanti che prevedevano ampio uso di droghe e attività erotiche forzate, dettagliatamente elaborate e riprese in video». Maratone così estenuanti da lasciare i partecipanti, maschi e femmine «abusati e minacciati» – spesso col coinvolgimento di prostitute e gigolò – «così esausti da aver bisogno di assorbire liquidi per via endovenosa».
Quelle immagini girate venivano poi usate come materiale di ricatto per impedire alle vittime di denunciarlo. La star afroamericana respinge accuse da lui definite «disgustose». Ma per i giudici deve rimanere in carcere: «È una minaccia alla comunità». Di sicuro si tratta di un caso giudiziario complesso: che arriva un anno dopo la denuncia della sua ex, Casandra “Cassie” Ventura, seguita poi da molte altre donne, come in una sorta di #MeToo tardivo. E infatti la vicenda del rapper è già considerata come un caso Weinstein del mondo della musica.
Proprio come nella triste vicenda del produttore di Hollywood, anche qui ci sono diverse star coinvolte. Ma, al di là delle insinuazioni, sono meno di quelle apparse in certe liste pubblicate dai media, dove sono stati nominati molti dei frequentatori vip dei White Parties organizzati da Combs. Feste ambitissime, dove tutto era rigorosamente bianco, e qualcosa di proibito accadeva: ma non accessibile a tutti. Certo, fra gli invitati c’erano Leonardo DiCaprio, Ashton Kutcher, le Kardashian, Beyoncé, Jay-Z. E c’era pure Kanye West: nei giorni scorsi denunciato dall’ex assistente Lauren Pisciotta, che sostiene di essere stata da lui drogata e stuprata proprio durante una festa di Puff Daddy. Ma appunto non tutti i partecipanti sapevano che nei meandri di quelle feste si tenevano dei freak off. Almeno così dice il podcaster Tom Swoope raccontando la sua esperienza diretta: «C’erano diversi livelli di accesso. Si poteva essere invitati senza poter entrare nelle aree riservate alla cerchia più intima». Certo, alla luce delle recenti accuse, oggi appare sinistro pure il ruolo di mentore assunto da Combs verso ragazzini poi divenuti famosi.
Agli albori del suo successo, quando aveva solo 23 anni, gli fu ad esempio affidato il 14enne Usher, poi diventato uno degli artisti più influenti dell’r&b. Ebbene, Usher ai tempi – ha confessato in un’intervista – vide «cose selvagge». E potrebbe anche averne subite, giacché finì in ospedale. «Non manderei mio figlio in una situazione come quella», dice ora: «Ma che volete, erano gli anni ’90».
La storia si è poi ripetuta. Qualche anno dopo Usher ormai ventenne fa da mentore a Justin Bieber, 15 anni appena, e secondo una pratica diffusa lo prende in casa. Salvo mandarlo da Diddy due giorni nel novembre 2009. L’afroamericano e il giovane canadese realizzano pure un video insieme: «Avete mai visto il film 48 Ore? Justin le sta vivendo con me. Si diverte un mondo. Non possiamo svelare cosa facciamo ma è il sogno di ogni quindicenne», si sente dire a Puff.
Poi gli chiede cosa vuole fare e Bieber risponde: «Cerchiamo qualche ragazza». Negli anni successivi, salvo sporadiche collaborazioni, i due non si frequentano più (e il rapper nero lo rimprovera pure). Ora, il New York Post allude a quella vecchia amicizia parlando di una «star terrorizzata all’idea che un sex tape girato con Puff sia nelle mani della polizia».
Di sicuro, è controversa l’intera carriera dell’uomo che ha riscritto la storia dell’hip-hop, trasformando letteralmente il cemento in oro, fino a rendere mainstream il sound delle strade di quella Harlem da cui proviene. Un’abilità lirica e affaristica la sua: capace di portare lo stile dei ragazzi di strada sulle passerelle di Parigi con la sua linea di abiti Sean John, benedetta pure da Anna Wintour che lo volle sulla copertina di Vogue. E di far soldi rivitalizzando la marca francese di vodka Ciroc, piazzandola in tutti i video degli artisti da lui gestiti. «Combs si muove come un candidato alla presidenza», lo descrive un profilo del New Yorker datato 2002. «È sempre in ritardo, non è mai solo. (La solitudine lo rende nervoso.) Anche quando percorre un solo isolato in città, usa un Suv con autista...».
Che vita, la sua. Nato ad Harlem, New York, il 4 novembre 1969, è figlio di Janice, ex modella poi diventata insegnante, e di Melvin, un pilota dell’aeronautica poi diventato socio del narcotrafficante Frank Lucas – quello che ha ispirato American Gangster di Ridley Scott – ucciso dopo essere stato scambiato erroneamente per un informatore. Janice lo cresce da sola: gli fa frequentare una scuola cattolica maschile, poi lo manda a studiare economia aziendale alla Howard University, la celebre università nera. Qui Sean scopre la verità su suo padre: «In biblioteca digitai il suo nome e l’anno della sua morte e scoprii che era morto ammazzato».
Già allora ha una sorta di doppia identità. Vende giornali e fa il chierichetto, ma quando si leva la tonaca fa a pugni coi coetanei, che lo soprannominano appunto Puff, perché sbuffa quando è nervoso. La passione per il rap nasce allora: appariscente e atletico, balla così bene da apparire nei video di Diana Ross e dei Fine Young Cannibals. Con la mamma è sempre generoso: nel 2020, per i suoi 80 anni, le regala una Bentley e un milione di dollari. Lei lo ha sempre difeso a spada tratta: «Mio figlio ha commesso errori, come tutti. Uno di questi è stato pagare chi lo accusa, invece di sostenere la sua innocenza fino alla fine. Ora i giudici credono che aver risolto controversie in questo modo sia un’ammissione di colpa».
Agli esordi organizza feste sontuose, dove mette musica e rappa, all’università. Attira così l’attenzione di Andre Harrell di Uptown Records, che gli offre uno stage nella sua etichetta. Va così bene che Sean lascia l’università e inizia a lavorare a tempo pieno, scoprendo artisti come Mary J. Blige. Risale ad allora anche la prima delle tante tragedie della sua vita. Nel 1991 organizza un concerto al City College di New York: arrivano cinquemila persone in uno spazio che ne contiene la metà. Nella ressa muoiono nove persone. «Ci penso ogni giorno della mia vita», ha detto nel 1998.
Nel 1993 scopre un talento straordinario, ancora oggi considerato uno degli artisti più influenti nel suo genere: Christopher Wallace, il rapper di Brooklyn noto come Biggie Smalls o Notorious B.I.G. Ha appena iniziato a produrne l’album di debutto, quando Harrell lo licenzia.
Solo di recente un celebre collega, Lord Jamar, ha raccontato il presunto motivo della rottura: «Fu scoperto mentre faceva qualcosa con un uomo coperto d’olio per bambini». Il prodotto per il quale, a detta di tutti, ha una vera ossessione. Per Lord Jamar «Puff era già allora parte della “Gay Mafia” che dominava l’industria. Anzi, era uno dei “capifamiglia”». Chi voleva lavorare, insomma, doveva sottostare alle sue voglie. Ma nel 2006 Puff ha raccontato diversamente a Oprah Winfrey quell’episodio: «Fui licenziato perché non potevano esserci due re nel castello».
Reagisce al licenziamento fondando una sua etichetta, Bad Boy Records, dove porta anche Biggie e la moglie di questi, Faith Evans. Pubblica pure Ma$e, 112, Total. Grazie a uno stile basato su campionamenti di successi noti – poco amati dai puristi dell’hip hop ma adorati dai dj radiofonici – la sua scuderia ha un successo incredibile.
Su tutti, l’album Ready To Die di Notorious B.I.G., del 1994, che vende milioni di copie ed è tuttora considerato un classico senza tempo. Se non fosse per quel sinistro titolo, trasformato presto in realtà.
La notte del 9 marzo 1997, Biggie, 24 anni, è assassinato a colpi di pistola mentre è in macchina a Los Angeles. Puff è nell’auto dietro. Un omicidio maturato nell’ambito della furiosa faida fra artisti e fan dell’hip hop della costa orientale (i newyorchesi di Bad Boys) e quelli della costa occidentale (legati alla Death Row Records di Los Angeles con talenti come Dr. Dre e Snoop Dogg).
Una guerra iniziata due anni prima, dopo un alterco fra Puff e Marion “Suge” Knight, Ceo di Death Row, al Platinum di Atlanta. Qui, proprio quando tutto sembrava rientrato, qualcuno uccide Jake Robles, guardia del corpo di Knight. Seguono altre sparatorie: sopravvissuto a un primo agguato, Tupac Shakur – il più celebre rapper della West Coast – viene ammazzato nel settembre 1996.
L’assassinio di Notorious B.I.G è la conseguente vendetta. Solo un «vertice di pace» organizzato dal leader della Nation of Islam, Louis Farrakhan (lo stesso che fu mentore di Malcolm X che poi ruppe con lui) sancì la tregua.
Non si è mai scoperto chi uccise Notorious B.I.G.. Puff condensa il suo dolore in una canzone: I’ll Be Missing You: «Sembra ieri che spaccavamo col nostro show, io facevo il testo, tu creavi il flow...».
Peccato che la base campionata usata sia quella di Every Breath You Take dei Police. Sting non la prende bene e gli fa causa, vincendo il 100 per cento delle royalty, cinquemila dollari al mese fino al 2053. «Ci ho pagato l’università dei miei figli», ha detto in un’intervista il leader della band britannica. Che non ha fatto sconti, sebbene abbia poi fatto pace con Diddy interpretando insieme il brano agli Mtv Awards del 1997.
Poco dopo incontra quella che sarebbe diventata la più celebre delle sue fidanzate. Sua coetanea, è un’attrice che fino ad allora ha fatto solo particine. Ha origini portoricane, viene dal Bronx e si chiama Jennifer Lopez. Stanno insieme dal 1999 al 2001 e lui ne lancia la carriera di cantante. Ma la mette anche nei guai. Il 27 dicembre 1999 in un locale di Brooklyn, mentre è appunto con J. Lo e il rapper Jamal “Shyne” Barrow litiga con un noto criminale, Matthew “Scar” Allen. Vengono sparati dei colpi, Allen muore, tutti vengono arrestati: Jennifer viene rilasciata dopo aver passato la notte in cella. Al processo, Combs, trovato con una 9mm, viene prosciolto. Barrow condannato a 10 anni: porterà a lungo rancore verso l’ex amico e collega.
Secondo indiscrezioni, proprio l’ombra di quella vecchia relazione ha accelerato il divorzio fra la regina del pop e l’attore Ben Affleck. Lo dice il solito Knight, sì, l’ex Ceo di Death Row, in un episodio del suo podcast dalla prigione dov’è rinchiuso, Collect Calls with Suge Knight: «Durante i raid nelle ville del rapper l’Fbi ha trovato «certi» video di Lopez. Si vede J-Lo fare questo e quello. Sanno pure che nel 1999 ha mentito dicendo che la pistola era di Shyne mentre era di Puffy. E allora che fanno? Avvertono Affleck». L’attore, preoccupato dei potenziali danni alla sua immagine, lascia dunque la moglie. Che di sicuro non ha ancora smentito le insinuazioni riportate pure sul popolare sito di gossip Page Six.
Se quei video esistono, e cosa può esserci dentro, nessuno lo sa. Ma la stessa Lopez ha raccontato a Forbes di essere stata «maltrattata e aver subito cose spiacevoli» in relazioni passate. Pur senza mai fare nomi. Di Puff ha sempre preso le difese: «All’inizio non volevo stare con lui ma mi corteggiava tanto ed era di New York, come me: parlavamo la stessa lingua, amavamo la stessa musica. Mi ha guidato ed è stato dolce all’inizio».
In una vita così caotica, non sorprendono altri episodi di violenza. Le bastonate all’ex manager Steve Stoute nel 1999 per un video sbagliato inviato a Mtv. Le minacce nel 2001 all’ex socio Kirk Burrowes, già presidente della Bad Boy Entertainment, per costringerlo a cedere le sue azioni nella società (caso archiviato nel 2006 perché prescritto). E le risse con J. Cole a un afterparty in discoteca.
Fra 2005 e 2018 ha poi una relazione – non stabile – con Casandra “Cassie” Ventura, 16 anni più giovane. Nel 2008 la lancia con un album R&B che ha grande successo di critica. Ma le cose non sono rosee. Lei lo denuncia nel 2023 affermando che per tutto quel tempo lui ha usato la sua posizione di potere per «gettare le basi di una relazione romantica e sessuale manipolatoria e coercitiva». Descrive violenti abusi, sostenendo di essere stata «regolarmente picchiata, riportando occhi neri, lividi e ferite». E abusata sessualmente: «Sono stata obbligata a compiere atti sessuali indotti con la forza, la frode e la coercizione». Episodi avvenuti sotto gli occhi di una «rete di persone leali» a Combs che «non hanno mai fatto nulla» per fermarlo.
Lui nega, accusa Cassie di volergli estorcere denaro. E risolve la causa in un giorno. Pagandole, all’indomani della denuncia, una cifra mai resa nota. Accordo che per il suo avvocato non è «in alcun modo un’ammissione di colpa».
Sei mesi dopo, però, la Cnn scova e manda in onda un video del 2016 ripreso dalle telecamere di sicurezza dell’InterContinental Hotel di Los Angeles, dove si vede proprio il rapper prenderla a pugni, a calci e gettarla a terra nel corridoio. Lei stava cercando di lasciare un freak off, sussurrerà qualcuno. «Atti imperdonabili di cui mi prendo la responsabilità», si scusa lui. «Sono disgustato da me stesso e ho iniziato una terapia. Sarò un uomo migliore...».
Le accuse di Cassie, che descrive i festini cui era costretta a partecipare come «incontri forzati da lui considerati come un progetto artistico personale tanto da adattare personalmente le candele che usava per meglio illuminare i video che girava», danno coraggio ad altre donne. Una settimana dopo, Joi Dickerson-Neal dichiara di essere stata drogata e stuprata dal rapper nel 1991. Liza Gardner denuncia di essere stata costretta a fare sesso con lui nei primi anni ’90 e di aver subito uno strangolamento che l’ha fatta svenire. Una terza donna rimasta anonima racconta di essere stata drogata e aver subito uno stupro di gruppo nel 2003, a 17 anni: preda di Combs, dell’ex presidente della Bad Boy Harve Pierre e di un terzo uomo a lei sconosciuto.
Tutte cause depositate pochi giorni prima della scadenza del New York Adult Survivors Act, la legge post-MeToo che ha consentito alle vittime di abusi sessuali, per un certo periodo, di presentare denunce anche per crimini andati in prescrizione. E per questo gli avvocati del rapper hanno parlano di avidità: «Vogliono denaro con storie vecchie di 30 anni che lui nega e respinge». Puff lo scrive pure su un post di Instagram il 6 dicembre 2023: «Quando è troppo è troppo. Vogliono assassinare il mio personaggio, distruggere la mia reputazione e la mia eredità. Contro di me vengono mosse accuse disgustose da gente in cerca di soldi rapidi. Non ho fatto nessuna delle cose orribili di cui mi accusano. Mi batterò per la verità».
Il giorno dopo, però, la cantautrice Tiffany Red lo smentisce con una lettera aperta pubblicata da Rolling Stone: «Le affermazioni di Cassie sono vere. Sono una delle amiche menzionate nella denuncia. Eravamo insieme a una festa quando l’ha separata da noi e l’ha costretta a un freak off...».
A quel punto la rete Hulu cancella il reality intitolato Diddy+7 e dedicato al suo rapporto con i sette figli, nati da donne diverse: Quincy (1991), Christian (1998), le gemelle Jessie e D’Lila (2006) avute con la modella Kim Porter. Justin Dior (1993) con la stilista Misa Hylton; Chance, con l’imprenditrice di prodotti di bellezza Sarah Chapman, anche lei classe 2006. Love Sean avuta con la modella Dana Tran nel 2022.
Non sono però solo donne a denunciare. A febbraio pure il producer musicale Rodney Jones Jr – che ha lavorato al The Love Album – accusa il rapper di averlo costretto a contatti sessuali indesiderati in una situazione con prostitute: «Ha cercato di convincermi a fare sesso con un uomo, dicendomi che era normale nell’industria musicale». Il raid nelle case di Diddy avviene un mese dopo: vengono trovati fucili d’assalto, compresi Ar-15. E migliaia di bottiglie del famigerato olio per bambini, insieme a centinaia di confezioni di lubrificante. E, appunto, migliaia di video.
Arrivano anche altre denunce: la modella Crystal McKinney, 22 anni, racconta di essere stata costretta a praticargli sesso orale dopo una cena da Cipriani. April Lampros dichiara di essere stata violentata quattro volte e di essersi decisa a denunciare dopo che uno sconosciuto ha approcciato il suo compagno dicendo di averla vista in certi video porno «registrati a mia insaputa e mostrati ai suoi amici». Nell’atto d’arresto del 16 settembre si parla esplicitamente dei freak off.
Per gli avvocati è ancora una volta tutto falso: «Erano incontri consensuali che possono sconvolgere chi non ne ha esperienza, ma non hanno mai comportato violenze sessuali».
Ma intanto, con il rapper in carcere, altri si fanno avanti. Thalia Graves il 24 settembre. Poi una modella della Florida rimasta pure incinta e costretta ad abortire. E ancora, accuse recentissime, depositate il 14 ottobre: due donne e quattro uomini che sostengono di essere stati aggrediti sessualmente tra il 1995 e il 2021 durante i White Party. Uno degli uomini aveva 16 anni. Un altro era una guardia del corpo. Per i procuratori siamo di fronte a un modello di abuso «ricorrente e ampiamente noto».
Lui insiste nel dichiararsi non colpevole. L’avvocato Agnifilo lo descrive come «persona imperfetta, ma non criminale. In periodi oscuri ha tradito le sue compagne ma non ha nulla da nascondere e non vede l’ora di riabilitare il suo nome in tribunale. Si batterà fino alla fine». Rancio del carcere permettendo.