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 2024  ottobre 20 Domenica calendario

Juliette Binoche, ironica, malinconica, affascinante, è seduta sghemba sulla poltrona vicino a una finestra piena di pioggia, albergo vicino all’Auditorium

Juliette Binoche, ironica, malinconica, affascinante, è seduta sghemba sulla poltrona vicino a una finestra piena di pioggia, albergo vicino all’Auditorium. Al nostro ultimo incontro a Parigi, lo scorso marzo, aveva tracciato un sintetico bilancio dei sessant’anni compiuti: «Sono felice di come vivo, di cosa ho fatto e di quel che faccio».
Nell’agenda fitta, dopo una Coco Chanel da serie e una cuoca da melodramma (Il gusto delle cose ),ci sono un film e un incarico importante. InThe return alla Festa di Roma, l’ Odissea secondo Uberto Pasolini, lei è Penelope, Ralph Fiennes è Ulisse. Ed è la nuova presidente della European Film Academy, che riunisce il mondo del cinema europeo e assegnerà i premi l’8 dicembre a Lucerna.
Che idea aveva di Penelope, prima di girare “The return?”
«Pur avendo studiato due anni di greco e uno di latino, avevo un ricordo sfocato dell’ Odissea, anche perché non si sa se Omero sia stato una sola persona o tante. Sono tornata ad affrontarla leggendola ai miei figli, scoprendo la meravigliosa traduzione di Emily Winston: la scrittura, la musicalità, le questioni affascinanti che pone».
La Penelope di Pasolini?
«L’ho subito abbracciata: arrabbiata, non sottomessa. È innamorata, per vent’anni è stata sola, ha dovuto crescere il figlio. Condizione contemporanea, che conosco bene: oggi le separazioni sono tante. Sono cambiati gli equilibri di coppia, si è sempre più esausti, la convivenza è difficile. Interessante questa chiave del rapporto tra Penelope e Ulisse».
Com’è stato tornare sul set con Ralph Fiennes, dai tempi de “Il paziente inglese”, nel 1996?
«Emozionante. Condividiamo poche scene ma colme di mistero emotivo.
Sul set diIl paziente inglese lo ricordo bisognoso di attenzioni, pieno di umorismo, provato dalle lunghe sedute di trucco. Anthony Minghellaci ha voluto mettere insieme, ha creato grande armonia, dato uno slancio alle nostre vite creative che continua ancora».
Una carriera di alti e bassi.
«Gli inizi sono stati tosti. Specie il filmRendez-Vous di Techinè, avevo vent’anni, interpretavo una ragazza di provincia che arrivava a Parigi perfare l’attrice: c’erano scene forti di nudo e di sesso. Avevo paura di espormi, ma il bisogno di fare l’attrice era più forte. Era il 1984, meno venti gradi a Parigi, eppure ho girato quel film in preda a una grazia, a una forza che non pensavo di avere».
Come “Gli amanti del
Pont-Neuf”, del suo ex, Leos Carax.
«In quel progetto ho messo forza, pazienza, fede, anche se ero in mezzo a un buco nero. Il film era bloccato, ma se mi fossi spostata su altro sarebbe andato a rotoli. A volte è difficile distinguere l’oscurità dalla luce. E così impari ad accettare le cose che non accadono come tiaspettavi, trovi modi nuovi di affrontarle. Sono quasi morta, su quel set. Stavo annegando nella piscina in cui giravamo la scena finale, quattordici chili legati al corpo. In quei momenti, mentre lottavo per stare a galla, ho capito che la vita è più importante dell’arte, non la puoi mettere in pericolo. E poi c’è la volta in cui sono stata licenziata...».
Da chi? Perché?
«Da Claude Berri. Ho iniziato le riprese, avevo passato del tempo con la vera partigiana Lucie Aubrac.
Claude e io eravamo in disaccordo su una scena, lui edulcorava la storia, Lucie la pensava come me. Forse si è sentito sfidato e mi ha cacciato, come altre venti persone. È stato un terremoto. Però tre mesi dopo ho vinto l’Oscar per Il paziente inglese.

La vita ti insegna ad abbracciare anche i bassi. L’Oscar non mi ha portato alcun tipo di vanità, so cosa significhi essere brutalmente rifiutati e quel senso di equilibrio me lo porto dietro da sempre».
Signora presidente, tra poco le cinquine per gli Efa, in corsa quattro italiani: “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi, “Vermiglio” di Maura Delpero, “Misericordia” di Emma Dante e “Queer” di Luca Guadagnino.
Storie e sguardi nuovi rispetto a pochi anni fa.«C’è grande movimento, lo sguardo delle artiste è più libero, c’è una maggiore consapevolezza maschile: il cambiamento non si fa da soli.
Qualcuno ha detto, io ci credo, che il prossimo secolo sarà femminile o non sarà. Serve un cambio rispetto alla supremazia maschile, bianca. Ci muoviamo verso un potere che non è politico ma si basa sulla potenza del cuore. Sono felice di ricevere il testimone da Agnieszka Holland, come attrice so che significa essere al servizio di una storia, di una visione comune. Il cinema europeo ha un’identità che fa tesoro delle differenze, le coltiva, le esalta. Non sono una cinefila canonica, ma curiosa e aperta. Con questo spirito ho abbracciato il mio compito».
L’ha stupita che Obama abbia dovuto redarguire gli afroamericani maschi perché sostengano Kamala Harris?
«Che bel cambiamento, una presidenza femminile negli Stati Uniti. So che ci sono sacche di resistenza. Ma non si tratta di esser maschio o femmina, bensì di sapere cosa vuoi per una nazione. L’America è fatta di tanti gruppi sociali. Chi ha meno, ha una vita difficile, non c’è un sistema che lo protegga. Harris propone una politica di sostegno per chi non appartiene alla parte fortunata della società».