la Repubblica, 20 ottobre 2024
Il lato oscuro della “Tosca”
Strana opera Tosca, così carica di segni, così sinistra. La sola nella quale muoiano tutti e tre i protagonisti. Muore il pittore Mario Cavaradossi (tenore) fucilato; muore il perfido Scarpia (baritono) pugnalato a morte da Floria Tosca (soprano) che poco dopo si suicida gettandosi dagli spalti di Castel Sant’Angelo.
Tosca è Roma, non una Roma qualsiasi però, la Roma vista da Victorien Sardou, commediografo francese da cui Illica e Giacosa ricavarono il libretto per l’esigentissimo Puccini. Una città triste e arretrata negli anni a cavallo tra Sette e Ottocento di cui poco in genere si ricorda.
L’opera si fonda su sentimenti elementari: odio, amore, gelosia, vendetta, morte. Dipende anche da questo il favore del pubblico ed è la stessa ragione per la quale qualche critico la definì un “romanzetto d’appendice”. Ma se lo schema può avvicinarsi a un romanzo d’appendice, i sentimenti sono come elevati di grado grazie alla costruzione drammaturgica e soprattutto alla tecnica musicale.
Puccini aveva visto la commedia di Sardou a Milano nel 1889, con la grande Sarah Bernhardt nel ruolo del titolo. Subito scrisse all’editore Giulio Ricordi: «La scongiuro di far le pratiche necessarie per ottenere il permesso da Sardou… in questaTosca vedo l’opera che ci vuole per me». Ci furono problemi e disguidi ma alla fine il maestro ebbe un libretto dal quale ricavò una delle sue opere più belle. La tecnica compositiva la sottrae al pericolo del provincialismo verista e del romanzetto conferendole invece un’aura di meraviglia, di magnifica falsità teatrale. Puccini e i suoi librettisti ricostruirono Roma inizio Ottocento un secolo dopo, quando la città era ormai capitale del Regno d’Italia e si stava attrezzando per competere con le altre metropoli del continente.
Quando si parla di Repubblica Romana si pensa in genere a quella gloriosa del 1849 guidata dal triumvirato Mazzini, Armellini, Saffi. Quella diTosca è invece del 1797 quando le truppe francesi invadono la città, sopprimono il potere temporalepontificio, proclamano una repubblica ricalcata sul modello francese, papa Pio VI è trascinato in esilio, morirà in Francia.
Il potere esecutivo di quella repubblica viene affidato a cinque consoli che agiscono sotto controllo francese. Dopo varie vicissitudini un’armata napoletana (ma comandata da un generale austriaco, Karl von Mack) pone fine alla repubblica. È il 1799.Tosca comincia da lì, apre nella chiesa di Sant’Andrea della Valle, Cesare Angelotti, console della caduta Repubblica Romana, è riuscito a evadere dalla prigione di Castel Sant’Angelo; cerca un rifugio in quella chiesa dove sua sorella, marchesa Attavanti, ha una cappella. Nella stessa chiesa il pittore Mario Cavaradossi sta dipingendo una Maddalena. Sulla città s’è abbattuta la restaurazione pontificia incarnata dal barone Scarpia, capo della polizia, creatura abietta. Sappiamo la data, 17 giugno 1800, c’è appena stata la battaglia di Marengo che avrà un ruolo nel secondo atto. C’è chi sostiene, tra gli storici, che le cannonate di Marengo, cioè la vittoria del giovanissimo Napoleone, risvegliarono l’Italia, “terra di morti”, avviando il moto che sarebbe diventato il Risorgimento. In Tosca s’intrecciano due filoni, uno appena accennato di carattere epico patriottico, uno amoroso classico dove la passione tra il soprano (Tosca) e il tenore (Cavaradossi) è insidiato dal baritono (Scarpia).
Il successo dell’opera mai venuto meno dopo la prima a Roma (14 gennaio 1900, Teatro Costanzi) poggia sulla drammaticità degli eventi e sulle tre celebri romanze, strategicamente collocate una per atto,Recondita armonia, Vissi d’arte, E lucevan le stelle.Più un paio d’arie, un tenebroso leit-motiv, affidati al baritono. Tre anche gli scenari romani, la chiesa di Sant’Andrea della Valle, palazzo Farnese, Castel Sant’Angelo. Floria Tosca è una cantante di grido, una diva; ha nel secondo atto la famosa aria Vissi d’arte, una delle più felici creazioni pucciniane. Una specie di “a parte” nel concitato svolgersi degli eventi; la poveretta, sottoposta all’odioso ricatto di dover cedere alle voglie di Scarpia per ottenere la libertà del suo Mario, si chiede perché debba subire tali pene essendosi sempre comportata bene («Perché, perché, Signore? Perché me ne rimuneri così?»).
È un po’ la domanda di Giobbe qui portata a livello di una cantante ottocentesca. Nello stesso momento, in una stanza vicina, Mario Cavaradossi viene torturato perché riveli dove si è nascosto il fuggiasco ex console Angelotti. Arriva la notizia che a Marengo Napoleone ha sconfitto gli austriaci di von Melas. Stremato per le violenze subite, il pittore esce dalla stanzetta della tortura, più o meno coperto di sangue secondo le scelte registiche, intona a gran voce: «Vittoria! L’alba vindice appar che fa gli empi tremar! Libertà sorge, crollan tirannidi!». È il suo slancio epico, per il resto sono le pene d’amore ad affliggerlo come si vedrà nel terz’atto. Il secondo atto rappresenta anche l’acme drammatico dell’opera che culmina nell’uccisione del malvagio Scarpia da parte della donna mentre l’orchestra vira verso sonorità quasi espressioniste.
Avrò visto una decina di Toschesempre confermandomi nell’idea che in quelle stanze c’è un concentrato quasi eccessivo di drammaturgia di cui bisogna saper cogliere i riferimenti storici, compresi gli avvenimenti che si svolgono al piano di sotto, dove è in corso un ricevimento in onore niente meno che di Maria Carolina regina di Napoli, sorella di Maria Antonietta mandata al patibolo pochi anni prima a Parigi. Davvero un bel groviglio. Arriviamo alla conclusione; nonostante la sua coraggiosa uscita come “resistente”, si capisce che in realtà ciò che davvero caratterizza il pittore Cavaradossi non è la declamata invocazione libertaria ma l’aspetto amoroso espresso dalla magnifica romanza del terz’atto E lucevan le stelle.
Cavaradossi è stato condannato a morte per fucilazione; mentre attende il plotone d’esecuzione, rievoca i bei momenti passati con Floria nel suo rifugio subito fuori porta. Comincia (Andante lento, appassionato molto, annota l’autore in partitura) quasi con un sillabato: «Stridea l’uscio dell’orto/ E un passo sfiorava la rena/ Entrava ella, fragrante/ Mi cadea fra le braccia». Prorompe nella celebre melodia: «Oh! Dolci baci, oh languide carezze/ Mentr’io fremente le belle forme disciogliea dai veli!». Tra l’incanto della musica e la forma allusiva dei versetti, non tutti notano che il ricordo è qui fortemente sensuale, si potrebbe tradurre in italiano corrente: «Mentre io tra baci e carezze la spogliavo».
A me quei versetti sono sempre piaciuti fin dagli anni della prima giovinezza in cui fantasie del genere sono ricorrenti anche se per lo più teoriche. La stessa cosa del resto dev’essere accaduta a Lorenzo da Ponte, geniale librettista di Mozart, il cui Cherubino nelle Nozze di Figaro pensa alla Contessa e confida sospirando a Susanna: «Felice te che puoi/vederla quando vuoi/Che la vesti al mattino/ che la sera la spogli... Ah se in tuo loco...». Ah, se potessi esserci io al tuo posto. Fantasie, anche qui, condivise credo di poter dire da chissà quanti milioni di giovani uomin