Corriere della Sera, 20 ottobre 2024
Paradossi (e record) del lavoro
Non abbiamo mai avuto così tante persone con un’occupazione, più o meno stabile, più o meno gratificante. Oltre 24 milioni. Un record. Ma è anche vero che in Italia si lavora meno. Il tasso di occupazione è al 62,3 per cento. In altri Paesi la media è intorno all’80 per cento. Calano i disoccupati (al 6,2 per cento, mai così pochi dal 2009), crescono gli inattivi che un posto hanno smesso anche di cercarlo. Paradossalmente giovani e donne non hanno particolarmente beneficiato di questo boom dell’occupazione. Mai avremmo immaginato di veder crescere un mercato del lavoro nel quale non mancano solo i profili adeguati, e questo è notorio, ma in alcuni casi addirittura le persone fisiche, e questo nessuno lo aveva previsto. Il «nero», nel senso dell’assenza di contratti, domina alcuni settori, specialmente il lavoro casalingo. Quotidiana la denuncia di casi di sfruttamento indegni di un Paese civile. Secondo il recente Rapporto Istat sull’Economia non osservata (chiamarla così fa meno male) le unità di lavoro irregolari sono 2 milioni e 986 mila. Un esercito.
Gli imprenditori vorrebbero ancora più immigrati, salvo sostenere fuori dalla loro azienda che certo una società multietnica non è desiderabile. Le famiglie hanno bisogno di colf e badanti (che sono più del doppio dei dipendenti del Servizio sanitario nazionale) salvo nutrire gli stessi timori di cui sopra.
Parliamo tanto, e giustamente, di precarietà da combattere, ma ci troviamo a constatare un ulteriore paradosso. Sono le imprese oggi a voler fare più contratti a tempo indeterminato. Per non perdere i talenti. Mentre, al contrario, i giovani più preparati vogliono tenersi le mani libere. Non impegnarsi più di tanto e cogliere subito le migliori opportunità. Ciò suscita le fondate preoccupazioni dei datori di lavoro che lamentano la difficoltà di trasmettere i valori aziendali. Come si fa a difendere e creare una cultura d’impresa se non si lavora e si cresce insieme, facendo carriera e ottenendo risultati, per un periodo sufficientemente lungo?
Osservazioni di questo tipo sono frequenti. Provengono da imprenditori che richiedono a gran voce, e ottengono, sconti fiscali per assumere i giovani. E raramente si pongono la seguente domanda: «Un giovane è assunto perché vale o perché costa poco?» E se è scelto per la seconda opzione come si può pretendere che condivida e apprezzi la cultura di chi lo ha selezionato solo perché vi è una vantaggiosa decontribuzione? Alcuni manager si dolgono di questa flessibilità sentimentale, definiamola così, dei loro collaboratori. Senza notare un’altra contraddizione. Il nomadismo egoistico di molti manager non li rende assolutamente credibili nel professare le supposte virtù della fedeltà aziendale. L’effetto imitazione è irresistibile. Dobbiamo constatare poi che per molti giovani il lavoro non è più al centro delle loro vite. Forse per i loro genitori lo era stato troppo. Inutile giudicare, meglio comprendere, discutere, confrontarsi. Certo è difficile pensare, come ha affermato il presidente della Repubblica nei giorni scorsi, che il lavoro sia ancora, nella consapevolezza generale «il motore principale dello sviluppo del Paese e della crescita umana, civile, sociale e culturale». In molti colloqui di selezione sembra solo la prosecuzione della vita privata. Non si può pretendere che tutte le attività lavorative possano modellarsi sui percorsi personali. L’impegno è spesso sacrificio, ma non si può più dire.
Sergio Mattarella ha giustamente richiamato anche l’importanza del rispetto della dignità delle persone, l’osservanza della parità dei diritti. C’è ancora molto da fare se, in base all’indagine State of the global workplace di Gallup, il senso di estraneità dei dipendenti, che sfiora in alcuni casi il risentimento, è in Italia molto più alto che nella media degli altri Paesi industrializzati. Un quarto dei dipendenti si sentirebbe «attivamente disimpegnato». Ed è largamente più basso nel confronto internazionale il grado di coinvolgimento dei lavoratori italiani nelle scelte aziendali. La situazione è ovviamente molto diversa a seconda dei settori e della dimensione delle imprese. L’Italia è il Paese in cui le medie, spesso, non hanno alcun significato. Le eccellenze sono numerose. Straordinario lo sforzo costante di molti capi azienda nel prendersi cura dei propri dipendenti e delle loro famiglie. Il welfare aziendale contribuisce a rafforzare le nostre comunità. Un vantaggio competitivo made in Italy. Ma non va sottovalutata la frustrazione di chi ha visto falcidiato il potere d’acquisto di salari e stipendi e non ha potuto recuperarlo, mentre crescevano e di molto dividendi, bonus e stock option. Chi ha staccato cedole e ha ruoli apicali nelle aziende poi firma sdolcinati bilanci sociali in cui la sostenibilità sembra addirittura sacra.