La Stampa, 19 ottobre 2024
Dialogo tra Manconi e Maggiani sulla cecità
«Son cieco e mi vedete / devo chieder la carità / Ho quattro figli, piangono, / del pane non ho da dar / del pane non ho da dar». Un’ora e mezza dopo l’inizio di questa conversazione, Luigi Manconi e Maurizio Maggiani cantano insieme queste parole. È un canto popolare e politico di inizio Novecento e nelle prime due strofe contiene molto di quello che vogliono raccontare. C’è la perdita della vista (totale per Luigi Manconi ormai da qualche anno, parziale tendente al peggioramento per Maurizio Maggiani), c’è la politica, ci sono le rivendicazioni sociali, ci sono la famiglia e le relazioni personali, c’è – soprattutto – la lotta. Manconi e Maggiani sono fatti per la lotta e per la poesia, per il pane e le rose.La vita vi ha portati a perdere la vista, anche se in maniera diversa. Questa condizione comune ha alimentato il vostro rapporto?MAGGIANI: «Intanto questa condizione mi ha portato, pochi minuti fa, a schiacciare un calabrone con la mano sul mio tavolo. Devo averlo ammazzato, non l’ho visto e mi fa abbastanza male. Ma sì, c’è qualcosa di interessante nel fatto che simo tutti e due in modo molto diverso ciechi o comunque non disponibili a una normalizzazione dei punti di vista generali».MANCONI: «Maurizio ha ristabilito un ottimo punto di partenza. Siamo tutti e due ciechi nella vista, io i mondo irreparabile. Lui in modo ancora parziale».MAGGIANI: «Il nostro rapporto è iniziato sotto questi auspici. C’è qualcosa che mi turba nel nuovo libro di Manconi, La scomparsa dei colori. Mi turba l’idea di parlare di questa faccenda privata della cecità».Perché la turba?MAGGIANI: «Perché non so parlarne. Non so parlare di me, del mio caso. Io non sono cieco. Ho un difetto congenito della vista, vedo molto poco, non vedo un calabrone a venti centimetri. Ma vedo molte cose, non come i normodotati, non vedo i colori, ma con il tempo mi sono costruito un mio luogo dove con la mia poca vista posso stare bene. Ma quello che mi tormenta è perdere quel poco che vedo. Quella che ha scritto Luigi è una cosa talmente intima e interiore, un diario intimo che mi ha commosso e imbarazzato. Da quando avevo venti anni ho sempre vissuto insieme, anzi, ho proprio iniziato a lavorare nell’insegnamento con i non vedenti. Il primo lavoro di scuola l’ho fatto con L’Unione ciechi, lottando per l’inserimento dei bambini ciechi nelle scuole statali. Una battaglia che abbiamo vinto ed è stata una battaglia che mi ha segnato molto. Ora in tarda età sono tornato ad avere un compagno come Luigi, come li avevo a venti anni, che fa la sua battaglia per l’inserimento dei ciechi nella vita appagante e produttiva e magari anche felice».Manconi, come vive questa nuova lotta fatta di parole e testimonianza?MANCONI: «Ho cercato di evitare cadute narcisistiche. Parlare di sé, di una esperienza così intima, presentava senza dubbio questo rischio, una sorta di patetismo narcisistico al quale è difficile sottrarsi, perché ovviamente il tema è dolente e la tentazione della commiserazione era lì dietro l’angolo. A Maurizio voglio dire che c’è un lungo colloquio tra me e lui: non solo sfiora ma talvolta va a fondo nell’intimità di Maurizio rispetto alla condizione di persona che ha un problema acuto di vista. Mi viene da pensare che è certamente vera la ritrosia, ma che questa ritrosia sia caduta almeno una volta, quando ho proposto a lui una conversazione sulla sua condizione».MAGGIANI: «Quello che mi mette in imbarazzo è il fatto che ci sono anche io dentro questo nuovo libro. E lo sapevo che ci sarei finito. Rileggendomi mi sono accorto di aver parlato profondamente di me stesso, una cosa che, per quanto riguarda la vista, non avevo mai fatto».Come siete arrivati a trasformare in discorso pubblico una parte così intima delle vostre vite?MANCONI: «Quando abbiamo parlato delle rispettive viste danneggiate, si era creata la condizione per approfondire il tema. Ma soprattutto parlare di cecità e di paura della cecità. Parlare della vulnerabilità di se stessi. Il mio libro parla di Maurizio in quanto Maurizio parla di sé. Parlare della cecità come mia condizione attuale o come minaccia che produce paura, è parlare principalmente della propria vulnerabilità. Io penso che la maturazione individuale consenta di parlare della persona nella sua interezza, dunque della propria forza, delle proprie risorse, delle proprie debolezze e delle proprie penurie. Non posso parlare di me se non in una dimensione complessa, in cui ci sono le mie umiliazioni e le mie frustrazioni».MAGGIANI: «Questa è una storia adulta, scritta da un adulto, e io questa capacità francamente me la devo ancora costruire. Il modo di raccontare mi ricorda Pino, un compagno dell’Unione ciechi: non c’è mai stato in lui, in loro il macchiettismo, l’autocommiserazione, il pietismo. E questo è bello. Io non sono riuscito a essere come loro e come te. Questo mi commuove. Questo modo che hai di vivere, mi ha ricordato della mia vita di cinquant’anni fa con loro. Vivevano della contezza della loro condizione. Diversamente abili? Questo no, non c’è una diversa abilità. C’è una abilità. Un’abilità usata bene anche in assenza di altre abilità».L’uso delle proprie abilità per una battaglia sociale, per il bene delle persone, sa molto di politica.MANCONI: «Da due decenni ho seguito politicamente vicende di sofferenza, mi sono interessato di situazioni che vedevano familiari di vittime o vittime chiedere verità e giustizia e questa domanda ho voluto dal primo istante considerarla nella sua dimensione più politica. Il mio rapporto con le vittime e i loro familiari è maturato attorno a uno straordinario processo, quello di persone che rinunciavano a un pezzo della propria sofferenza, a una parte del proprio lutto (che sarebbe giusto poter vivere nella intimità più riservata) per farne questione pubblica. A partire dalla vicenda dell’associazione dei parenti delle vittime di Ustica e poi con Aldrovandi, Cucchi, Uva e molte altre, io ho conosciuto il dolore degli altri e il dolore di questi altri che diventava pubblico, attraverso questo processo che ha visto quelle persone fare della propria sofferenza un interesse collettivo».La perdita della riservatezza per il bene comune.MANCONI: «Sì, questo processo ha comportato necessariamente il superamento di una certa riservatezza che tutti riteniamo giusto debba accompagnare il dolore, ma che le circostanze imponevano di mettere da parte. Quel mettere da parte significava fare di quel dolore qualcosa non più ristretto nell’ambito dell’esperienza individuale. Insieme con Ilaria Cucchi decidemmo di rendere pubbliche le foto di suo fratello Stefano dopo la morte. Ecco, quella rinuncia alla riservatezza era certamente una sorta di privazione, una rinuncia alla dimensione tutta intima della sofferenza, ma ha permesso che quel dolore individuale diventasse tema di riflessione collettiva. È dentro questa dimensione, dentro un mio percorso politico che ho vissuto questi due decenni. E sono anche stati gli anni in cui ho perso la vista. Non mi sono posto la questione che prima evocavo della inverecondia di parlare di sé e del proprio danno, mentre dal punto di vista del contenuto mi sono sentito sollecitato a fare della mia esperienza personale un racconto pubblico. La cognizione del dolore interessa personalmente, ma chiama in campo la dimensione sociale. Voglio aggiungere una cosa per me importante. Per me ha un significato personale e politico riconoscere la dipendenza dagli altri: per un verso è stato un trauma, ma per un altro è stata l’inattesa scoperta del fatto che agli alti ci si possa affidare. E che nell’abbandonarsi agli alti c’è persino del piacere, una gratificazione. Un riconoscimento felice di un rapporto di reciprocità».Una perdita che è diventata anche l’avvicinamento a nuovi sentimenti?MAGGIANI: «Ho capito cosa vuole dire. Ovviamente in modo diverso, da qualche anno la Gloria, mia moglie, sta attenta quando siamo insieme, mi tiene il braccio. Io non gliel’ho mai chiesto. Io di questo sono orgoglioso, sono portato a inciampare, a cadere, a pestare un calabrone. Lei mi dice “vieni” e mi accompagna spontaneamente. È un gesto che mi fa bene, mi piace affidarmi. Ma ci ho messo molto tempo».MANCONI: «Io ho scoperto la dolcezza di affidarsi a più persone, i familiari, certo, ma anche la mia rete politico-culturale: vivo con loro, scrivo con loro. Può essere bello affidarsi e io mai patisco un’offesa alla mia fierezza. Credo di averlo superato da tempo».Cosa è cambiato, ancora, nelle relazioni?MAGGIANI: «Ho smesso di dire “Non ti vedo”. Quando qualcuno mi dice “Guarda” ho smesso presto di non ammettere che non vedo. Lo faccio per non stare a discutere, non per nascondere qualcosa, ma lo faccio anche perché io in qualche modo vedo cose che altri non vedono. Le distorsioni dei colori, fanno parte della mia letteratura. Ho uno sguardo particolare mentre scrivo. E secondo me viene anche da questo. Vedo con il naso. Ho una vista tattile. Se ho una vista particolare, ho anche una lingua particolare».MANCONI: «Certo, è cosi. Partendo dal fatto che la cecità è una tragedia, è vero che ti dà anche tantissimo. Non è possibile che lo scrittore non sia condizionato dalla sua vista. È ovvio che io da quindici anni scrivo diversamente, ho una diversa attenzione a suoni e parole, al sapore. Ho acquisito una disponibilità all’ascolto che non compensa e non risarcisce quel deficit terrificante, però fa scoprire risorse che in passato erano trascurate o non emergevano. Parlo di sensibilità maggiore: il processo di perdita ti induce a riflettere su di te e sugli altri. La cecità condiziona la relazione con il mondo intero e il tuo immediato prossimo. Questo handicap fisico si proietta sulla tua mente in maniera sicuramente intensa. Ma aggiungo una cosa. Nella conversazione con me Maurizio racconta come la sua macchina fotografica riprenda immagini che gli altri non vedono. Perché il modo in cui guarda il mondo condiziona le parole. Nel mio caso, lo dico con brutalità, certamente io non sono migliorato come carattere, ma ho acquisito una gentilezza che in passato non avevo, perché patire una perdita, subire una mancanza, ti pone in posizione più esposta e attenta agli altri, più sensibile nell’ascoltarli e nel relazionarsi. Sono una persona che sa di avere un brutto carattere, ma oggi indirizzo aggressività prevalentemente verso ingiustizie sociali collettive. Ma nelle relazioni sociali ho un atteggiamento di maggiore disponibilità».Qual è la cosa più intima che ha raccontato, quella più privata?MANCONI: «Il passaggio più intimo di questo mio ultimo libro è quando racconto una scena particolare, quando il povero cieco si trova ginocchioni per cercare qualcosa che è caduta per terra. Ora, sarà il fatto che l’uomo è homo erectus, ma quel doversi mettere in ginocchio per cercare sotto il letto la batteria della radio che è sfuggita o più semplicemente un calzino che sembra rifugiarsi tra le pieghe di un lenzuolo, questa ricerca che si accompagna al brancolare goffo allude a una condizione umiliante, mortificante, degradante. Questo è a mio avviso il passaggio più intimo e indecoroso, quando non solo la vista è caduta, ma anche ogni difesa».MAGGIANI: «La scena che mi imbarazza di più, perché mi parla. Io vivo in una casa con Gloria, i miei nipoti, mia cognata. Succede che io ho imparato a memoria dove sono le cose. Il problema è che le cose si spostano perché passa uno e prende la saliera e la mette da un’altra arte. La lotta è tra il loro ordine e il mio ordine. Basta che mi si sposti una cosa e io vado in panne. Perché non è lì? Dov’è?».La solitudine è diventata diversa con la cecità?MANCONI: «La solitudine fa parte delle due categorie della povertà della cecità: la perdita della bellezza e la perdita della libertà. Il fatto che non sono più libero rende la condizione di solitudine più faticosa. Quando si vive questa condizione, la solitudine, anche la più assoluta, esige riferimenti, strumenti, mezzi per essere vissuta. La solitudine non è precipitazione in un vuoto, quello è la desolazione, la fine di te. Una solitudine che non corrisponda a una condizione letale richiede la possibilità almeno come potenzialità dell’autonomia. Se la solitudine è risultato della tua impotenza, di relazione, di comunicazioni, è qualcosa di pesante. Ho trovato un surrogato di cui conosco tutta la precarietà: l’assistente artificiale Alexa. Permette una comunicazione che rende la solitudine più piena».MAGGIANI: «Io sono un solitario da sempre, mi piace starmene solo quando scelgo di stare solo. Continuo a passeggiare da solo, ad andare in bicicletta da solo, nei luoghi che conosco stabilmente. Casco diverse volte, ma il fatto che sono cascato in quel punto mi insegna a riconoscerlo. La mia vera solitudine è quando sono in mezzo alla gente in una stazione, in un aeroporto. Allora li mi sento perduto perché devo chiedere tutto. E non ci riesco a chiedere tutto e lì mi sento perso a tal punto che faccio un sogno ricorrente: non riuscire a tornare a casa».MANCONI: «I luoghi affollati sono nemici e ostili delle persone senza vista, rappresentano il nemico. Sono una insidia e una minaccia. Ma le dispiace se terminiamo con un sorriso? Possiamo cantare?»Cosa vorreste cantare?MANCONI: «Io e Maurizio abbiamo la nostra hit, la interpretammo per la prima volta a Cremona su un palco accanto al Duomo dove la intonammo appena conclusa la nostra conversazione pubblica. Maurizio sei pronto?».MAGGIANI: «Sì».«Son cieco e mi vedete / devo chieder la carità. / Noi anderemo a Roma / davanti al papa e al re. / Noi grideremo ai potenti / che la miseria c’è /che la miseria c’è»