La Stampa, 19 ottobre 2024
Analisi del maltempo
Se non ci lasciamo abbagliare dal solo Po che esonda in centro a Torino, e che ci sembra quasi famigliare, le immagini che provengono dalla Liguria destano incredulità anche negli osservatori più attenti. Ma, a guardare bene, si tratta sempre, e ancora una volta, della stessa identica modalità. Paesi e cittadini incastrati nei thalweg fluviali quasi interamente sommersi da una massa d’acqua marrone in costante flusso verso mare. Non importa se si tratti di Savona o Genova, di Sori o di Alassio, tutto finisce rapidamente sott’acqua. E non dovrebbero destare alcuna incredulità, perché tutto è, ed era, largamente prevedibile, a partire dalla situazione meteorologica. La “depressione del Golfo di Genova” si studia sui libri di scuola media superiore ed era, una volta, caratteristica di quella regione specifica e di quella stagione. Oggi è diventata più profonda, si genera a contatto di acque sempre più calde, dura più a lungo e investe aree sempre più vaste, fino alla Toscana e oltre. Portando peraltro con sé un corredo di fenomeni correlati che vanno dalle trombe marine ai veri e propri tornado nostrani, tanto che si parla ormai apertamente di Medicanes, uragani mediterranei.Perché le cose sono cambiate negli ultimi trent’anni, almeno a partire dall’alluvione di Serravezza (1996), forse la prima nostrana da ascrivere alle flash flood, le alluvioni improvvise, che costringono ad evacuare quantità impensabili di acqua in pochissimo tempo su aste fluviali relativamente corte. Senza per questo che siano scomparse le alluvioni “tradizionali” del Nord Italia, quelle che un tempo permettevano di aspettare in vigile attesa la piena dopo che il Po aveva caricato piogge, neve e acque di fusione dei ghiacciai dal Monviso a Pontelagoscuro: il fiume esondato a Torino ci rammenta che anche le grandi città corrono rischi, pure se ben munite di argini in pietra.Ma, stante la situazione meteorologica mutata, da noi la differenza la fa lo stato del territorio che in Liguria è agghiacciante: a fronte della struggente bellezza paesaggistica, la regione agonizza soffocata da un mare di cemento e asfalto che l’hanno resa impermeabile preda delle acque dilavanti. Non c’è quasi un borgo, una città o una singola abitazione che non sia costruita in aree di pericolosità idraulica o franosa: ci siamo illusi che i fiumi fossero limitati alle loro acque e non al complesso del loro vastissimo letto, abbiamo tombato interi corsi d’acqua sotto strade e palazzi, abbiamo privato le colline delle foreste di lecci, naturale difesa, e le abbiamo sostituite con uliveti e vigne che, però, abbiamo successivamente abbandonato, con il corredo degli straordinari muretti a secco oggi impossibilitati a contenere alcunché. E non è un problema di manutenzione, o pulizia degli argini, dragaggio degli alvei o nuove opere, tutte operazioni che servono solo per calmare la popolazione, non ottenendo alcun risultato ai fini della mitigazione del rischio e, anzi, spesso incrementandolo.Non è un fenomeno nuovo, se è vero, come è vero che già Italo Calvino scriveva della “rapallizzazione”, cioè dello “stravolgere a fini speculativi l’assetto edilizio e urbanistico dei piccoli centri urbani, in spregio a ogni criterio di pianificazione e alla tutela dei valori paesaggistici” (Treccani). Ma negli ultimi decenni ha conosciuto un nuovo vigore, che è arrivato perfino a leggi regionali che acconsentono le costruzioni a ridosso dei corsi d’acqua, in spregio a ogni normativa nazionale. Una bulimia costruttiva schiava del dio denaro che dimentica bellezza, qualità della vita e paesaggio.Ma quelle immagini debbono necessariamente essere lette assieme a quelle della stazione ferroviaria di Siena ridotta a un canale e a quelle analoghe che vengono dalla Francia meridionale, dove in 48 ore sono caduti fino a 870 mm di pioggia: la quantità che, in passato, cadeva in una decina di mesi. O a quelle provenienti da tutto l’emisfero boreale, dalla Biblioteca Nazionale di Spagna a Monterrey si va senza sosta sott’acqua e si muore: quasi duemila vittime per queste “nuove” inondazioni. Che andrebbero sommate a quelle delle regioni che sono, invece, tormentate dalla siccità, come la Sicilia, una siccità che, altrove, uccide. Perché si tratta delle due facce della stessa medaglia, quella della crisi climatica più acuta e più accelerata e globale che i sapiens abbiano mai subito. E dell’unica che hanno essi stessi creato, prelevando il carbonio sotterrato nei combustibili fossili, bruciandolo e spargendolo allegramente in atmosfera in aggiunta ai cicli naturali che, senza questo contributo, funzionavano egregiamente all’equilibrio.Ora, però, tutti i nodi stanno venendo rapidamente al pettine e, per citare due conseguenze a scala globale, le correnti oceaniche dell’Atlantico viaggiano verso il collasso, fenomeno che potrebbe portare, tra l’altro, a celle di tempesta anche fredde nell’emisfero boreale, come anni fa descritto da un film visionario (The Day after Tomorrow, di R.Emmerich 2004) e come paventato addirittura dal Pentagono già dall’inizio degli anni Duemila (Dough e Randall 2007). O come il fatto che i serbatori naturali di carbonio, che hanno assorbito CO2 in questi secoli e millenni (foreste e territori vergini) lo scorso anno non ne abbiano assorbita affatto, preludendo a un’accelerazione del riscaldamento globale fuori dalla nostra possibilità di previsione (il collasso dei serbatoi naturali di carbonio non veniva, in genere, messo nel conto della crisi climatica). In questa situazione ogni tentativo di adattamento (termine oggi molto alla moda per nascondere il fatto che non c’è alcuna volontà politica di intervenire) risulterà fatalmente inutile, se non verranno prese draconiane misure per azzerare le nostre emissioni clima alteranti, misure di cui non si vede alcun profilo all’orizzonte.