La Stampa, 19 ottobre 2024
Marino Sinibaldi sul declino della Rai
La slavina Rai non si arresta. L’ultimo tonfo in ordine di tempo data giovedì sera. Antonino Monteleone, ex Iena, salutato come portatore di novità e di ascolti, ha tracollato, un botto da 0,99 di share. Numeri da tv regionale che Telemeloni neppure immaginava. Nonostante esborsi altissimi di produzione per L’altra Italia che ora rischia la chiusura. Costi proibitivi con ingaggi faraonici pure per il ritorno tanto celebrato del figliol prodigo Massimo Giletti con Lo stato delle cose che su Rai3 si ferma a un tristissimo 4 per cento. Ma possibile che il servizio pubblico stia in piedi solo grazie ai pacchi e agli Affari tuoi di De Martino? E che tutto il resto sia in vero pacco ai danni del pubblico pagante? Una domanda girata a Marino Sinibaldi, giornalista e critico letterario, conduttore radiofonico e per 10 anni apprezzato direttore di Radio 3.Dunque, Sinibaldi oltre ai pacchi in Rai che cosa c’è?«Il nulla. Infatti il tracollo non mi stupisce, anzi, lo trovo prevedibile e perfettamente coerente con le azioni di chi non ha alcuna idea del Paese e alcuna passione per il servizio pubblico. Coerente con una cultura di destra indifferente ai bisogni e attenta solo ad alimentare paure».Ma i programmi così detti di approfondimento?«Ma che vuole approfondire in Rai? Il dibattito si cerca su La7, Mediaset. La credibilità Rai è stata distrutta da persone non qualificate eppure messe al comando, fedelissimi, inamovibili, in spregio del merito».Eppure si parlava di nuovo storytelling proprio da consegnare al Paese.«Anche qui è un fatto di coerenza. L’idea del servizio pubblico è quella di preparare e accompagnare il futuro. Un futuro di transizione digitale e di transizione ecologica. Due sfide ineludibili che richiedono azione e consapevolezza collettiva e che prescindono da sciocchi negazionismi. L’alfabetizzazione digitale per esempio riguarderà milioni di persone che saranno escluse dagli accessi, tagliate fuori dallo Spid. Ma sembra non sia una loro priorità».Perché secondo lei?«La cultura di destra non si confronta sulla contemporaneità. Meglio alimentare le paure; della fluidità sessuale, delle migrazioni. Con la paura si vincono le elezioni ma non si fa cultura, non si crea consapevolezza. Persino le loro figure di riferimento danno da pensare. Prendiamo Alessandro Giuli, al Maxxi aveva perso il 30 per cento dello sbigliettamento: premiato con la poltrona di ministro»L’impressione dei palinsesti Rai è quella di programmi messi su a casaccio.«Fatti male, senza idee e senza guida. Il servizio pubblico se non lo curi, muore. Il Paese va raccontato con il fine di portarlo avanti. Nel 1964 De Mauro scrisse che finalmente c’era l’italiano in tutta la penisola e la televisione in questo era stata fondamentale. Ora dove si va?».La radio regge?«Reggeva, per indifferenza. Adesso sono stati chiamati a condurre i pasdaran. Foa che non è mai stato un conduttore e Chirico. Lei è una pensatrice di destra e non può arbitrare un dibattito come invece fa. Immagini se prima di iniziare una partita, l’arbitro dicesse per quale delle due squadre in campo tifa. Il conduttore dovrebbe conservare la ritrosia ad esprimere opinioni. Qui vige la volontà d’imporre una narrazione e di occupare spazi. Ci vedo perfetta coerenza con l’esito scontato di un progetto che svuota la Rai».Non sarà anche colpa della soppressione delle reti a favore dei generi che appiattiscono l’offerta?«Vittima principe è stata Rai3 che ha perso la sua identità. All’epoca si peccò d’ingenuità, la gerenza d’allora ritenne superata la lottizzazione che invece in qualche modo, pur se in forma diabolica, aveva protetto il pluralismo. La riforma fu un disastro e non creò una struttura che fungesse da intercapedine tra politica e Rai. Il risultato è una pappa di prodotti brutti su Rai2, su Rai3 che ha ceduto il pubblico a La7 e su Rai1 che resiste solo grazie ai pacchi. Dunque si torna lì dove avevamo iniziato. Al nulla».