Corriere della Sera, 19 ottobre 2024
Intervista a Gabriele Muccino sul film Fino alla fine
Roma – Accade tutto nelle 24 ore prima di rientrare in California. Sophie è una brava ragazza americana (la sorprendente Elena Kampouris), che durante una vacanza a Palermo incontra Giulio (Saul Nanni) e i suoi amici siciliani. Una rapina a mano armata, e scopre l’«asprezza selvaggia della vita», che le era ignota. Gabriele Muccino affronta un thriller. Fino alla fine, dal 31 nelle sale, dove racconta la scelta di Sophie.
Muccino, sono quasi trent’anni di carriera.
«Io volevo fare il veterinario ma allo stesso tempo mi nutrivo di film nel cineclub sotto casa. Nell’adolescenza ero un disadattato, ho sofferto molto per non riuscire a essere ascoltato, vivevo in una calotta in cui lo sguardo degli altri mi diceva che non ce l’avrei fatta».
Quando cambiò la situazione?
«A 18 anni feci una recita scolastica e mi svegliai come i Blues Brothers quando vedono la luce: volevo fare cinema, comunicare attraverso gli attori. Fu il veicolo per liberarmi dell’80 per cento della balbuzie, legata alla scarsa stima che avevo di me stesso. Ma la svolta avvenne più tardi, col successo de L’ultimo bacio, anche se permanevano le critiche dell’establishment del cinema: mi dissero che ero un bluff, mi paragonarono addirittura a Castellano & Pipolo. Ma anche a casa, c’era chi si identificava coi miei personaggi e chi sosteneva che non esistessero nella realtà. Fu una sorta di tsunami. Avevo poco più di 30 anni, ero disorientato, non avevo il libretto di istruzioni su come imparare a gestire tutto questo».
Nei suoi primi film recitavano Veronica Gentili e suo fratello Silvio.
«Veronica, che oggi è un nome come giornalista in tv, era una ragazza di 15 anni che non sapeva cosa sarebbe stata nella vita, sai quando ci si mette in tasca tante verità pur non avendole; quanto a Silvio, sono 17 anni che dico la stessa cosa, ci ho provato tante volte a riaprire con lui e non è stato possibile».
Gli applausi del pubblico. Ma ha vinto appena due David, e uno dagli spettatori.
«La diffidenza dell’establishment era così forte che sono uscito dalla giuria dei David. Per i miei film ricordo solo candidature come miglior canzone. C’era qualcosa che dava fastidio. Quando andai in America tutti scommettevano sulla mia sconfitta, perché tutti avevano fallito. Invece La ricerca della felicità con Will Smith incassò 300 milioni di dollari e diventai un regista internazionale, amato, riconosciuto, inseguito dai grandi produttori».
Oggi in che fase è?
«Sono molto più sereno, tanto da osare in questo film, avventurandomi in un territorio ignoto, pur mantenendo il mio stile e la disfunzione dei personaggi, impreparati alla vita, con la loro incompiutezza, fragilità, voglia di vivere. Lo spettatore sarà con loro».
La protagonista, Sophie, si fa risucchiare dal fascino del pericolo.
«Sì, camminerà sull’orlo del baratro, si getterà in una vertigine pericolosa, trasformando una semplice avventura in una battaglia per la sopravvivenza che cambierà la sua vita per sempre. Lo spirito guida di Sophie è in una frase di Braveheart di Mel Gibson: tutti muoiono, non tutti vivono davvero. L’indole umana è sempre stata attratta dall’ignoto, dalle sfide, dalle imprese. Sarà così fino alla fine, fino all’ultimo bacio, l’ultima lacrima, l’ultima fuga».
Mai tentato di allontanarsi dall’adrenalina?
«È una storia d’amore e di suspence, una corsa contro il tempo. Sophie è affiancata da giovani malviventi improvvisati, e impara quanto sia difficile cadere e sbagliare. Fa una scelta rischiosa perché quello che le manca è la vita. Questo film non va visto ma vissuto, tratta di ciò di cui le nostre vite hanno bisogno, la spinta a superare le barriere, mentre tutto appare globalmente organizzato, gestito sopra le nostre teste, i viaggi ridotti a itinerari predefiniti low-cost da postare sui social. Eppure dentro di noi sopravvive una parte antica e ribelle».
Sophie vuole vivere quell’ultima notte d’amore...
«Nel modo più assoluto e definitivo. Ha vissuto i suoi primi 25 anni chiusa in un bozzolo, suonando il piano. Perde il padre, la sorella cerca di tirarla fuori dalla depressione. A Palermo realizza che si vuole liberare. Con Giulio, comincia tutto da un tuffo in mare. Lavorare con attori poco noti permette di entrare nella storia senza pregiudizi o aspettative legate a volti conosciuti».