Corriere della Sera, 19 ottobre 2024
Intervista a Walter Sabatini, dirigente calcistico
Walter Sabatini, il ricordo più forte della sua infanzia?
«La sensazione di abbandono nella colonia estiva a Marotta, nelle Marche».
Che infanzia ha avuto?
«Felice, ma mi porto dietro ancora oggi il senso di colpa per aver rifiutato davanti ai miei amici la merenda che mi offriva mio nonno».
I sensi di colpa la tormentano?
«L’immagine che racchiude tutto è quella di Aureliano Buendia in Cent’anni di solitudine, il mio libro preferito: il condannato e gli uomini del plotone d’esecuzione hanno la mia faccia».
Suo figlio Santiago ha un nome sudamericano per la passione per quel continente?
«Sì. Gli dico sempre che per essere un uomo libero deve conoscere le cose. Studia scienze politiche, vuole fare il direttore anche lui».
Una persona che ammira extra calcio?
«Fausto Bertinotti: sono sempre stato attratto dalla sua competenza, dalla sua cultura ed eleganza. Sono molto attratto anche dagli ebrei, ma con grande rammarico oggi sono costretto a dire che non ho più stima di Israele: Netanyahu si sta comportando come i peggiori nazisti».
Mai sentito prigioniero del personaggio?
«In qualche misura sì. Del resto in un calcio così omologato si fa presto a essere personaggi. Penso al mio amico Sinisa Mihajlovic: la morte dei più giovani mi addolora sempre di più e mi fa venire un senso di vergogna».
Lo stesso che ha provato alla morte di Curi?
«Sì. È così vivo che non riesco a superare indenne una giornata senza pensare a Renato. Aver perso la poesia che avevo scritto quella notte, ha aggiunto altro dolore. Per scriverla mi ero dovuto scolare una bottiglia di whisky. Parlava del fatto che il mondo doveva fermarsi per rispetto, invece andava avanti come nulla fosse».
Per lei il calcio è «pirandelliano»: è un modo letterario per ammantarne la cialtroneria?
«Sì, ma significa che il calcio è soprattutto una menzogna, un imbroglio: regala tanto a pochi e niente a tutti, per cinquanta fortunati ci sono cinque milioni di disperati. E non c’è niente di peggio che crescere nell’illusione di poter fare il calciatore».
Com’è il piacere di scoprire un campione?
«È un piacere intellettuale, lo sento come una bottiglia che si rompe dentro. Guardo una partita con la speranza di rimanere abbagliato dalla bellezza di una giocata, il calcio è vera arte».
Come procede la battaglia con il suo corpo?
«Sono un malato cronico ai polmoni e ai bronchi e ho due stent al cuore. Le mie giornate sono pigre, ritmi alti non ne posso tenere. Quando esco lo faccio con la sedia a rotelle, perché mi si è spostata una vertebra e dopo la cementificazione mi ero montato la testa e sono scivolato dal letto, fratturandomi il femore. Sono tutto rotto, ma il vero problema resta il respiro: per parlare senza affaticarmi devo usare l’ossigeno».
La morte l’ha vista in faccia.
«Sì, nel 2018. Ma quello che mi tormenta è il coma farmacologico di circa venti giorni: ho incontrato chiunque sotto gli effetti dei farmaci. Sembrava così reale che mi causa ancora dei tormenti. Ho incontrato anche Dio sotto mentite spoglie, ma è stato un po’ deludente perché mi ha trattato con molta sufficienza».
Crede nell’aldilà?
«Ci voglio credere. Stavo leggendo un trattato di teologia alla ricerca dell’anima: per capire se esiste, se deriva biologicamente dai genitori o se c’è un’anima universale di cui ognuno di noi prende una piccola quota. Ci devo credere».
Cosa le manca di più del suo lavoro?
«Il timore della sconfitta, che è un cattivo compagno di viaggio ma è il senso di chi fa questo mestiere. La gioia di una vittoria non avrà mai lo stesso peso del dolore per una sconfitta».
Pensa mai che potrebbe non tornare più?
«Mai. Non sono uno che si ritirerà: devo morire e non succederà neanche quello, non per ora. Il cervello non mi permetterebbe il ritiro. Aspetto ancora qualcosa dal calcio: devo prendere e dare. Anche se il calcio mi ha devastato».
Il «sesso fumando» fa molto Bukowski.
«Qualche cavolata l’ho detta, non lo nego. Ma erano sigarette celebrative. Altre sono consolatorie. Perché ogni sigaretta ha un senso».
I giocatori in attività fumano molto?
«Fumano in molti, più di quanto si creda».
Vivono in una bolla?
«Il mio amico Paolo Sollier diceva già negli anni Settanta che il calcio era un mondo in cui Zac era sempre e solo Zaccarelli e mai Zaccagnini. Dico spesso ai miei giocatori di andare in mezzo alla gente, per sentire gli umori, di andare al mercato: De Rossi l’ha fatto di sicuro».
Momenti assurdi con i suoi calciatori?
«Tanti. Ho preso una persona per recuperarne un paio alle 3 del mattino in giro per Roma: il mattino dopo, a Trigoria, lui doveva intercettarli, portarli in uno spogliatoio a parte, fargli fare una doccia e bere un caffè. Capitava sempre con Maicon e Nainggolan, forse il centrocampista più forte che ho avuto, però testa di c... notevole: aveva l’obbligo di chiamarmi all’una di notte, ma mi prendeva in giro alla grande. Però non ha mai saltato un allenamento o una partita».
Oggi per i calciatori le avventure sessuali sono più difficili di una volta?
«No, no. Le donne hanno un’attrazione fatale per la loro ricchezza e il loro fascino. E loro non si tirano indietro. Chi non ha il senso della misura, sbrocca. Ci sono donne meravigliose in giro ed è uno dei motivi per cui odio essere invecchiato: c’è troppa bellezza, è un dono per tutti».
Lei scrive che il fascino è diventato anche un parametro di selezione dei calciatori.
«La bellezza sfonda tutte le porte e non è una questione di omosessualità. Se uno è bravo ed è anche bello, lo spingi più facilmente, perché è più ammirato dalla gente, dalla stampa, dalle tv. Calafiori ne è un esempio eclatante».
È difficile essere un calciatore?
«Sono una categoria ad altissimo rischio, perché a venti anni può capitare loro di avere tutto quello che sogna un trentenne: bellezza, ricchezza, fama. Tanti si sono persi o hanno fatto molto meno di quello che avrebbero potuto: si imbolsiscono e si intristiscono. E puoi migliorare tutto nei calciatori, tranne l’indole».
È un riferimento autobiografico?
«Ero una testa di c...: un grande calciatore che non capiva il calcio o non voleva capirlo».
Ha litigato più con Lotito o con Zamparini?
«Con Lotito erano sempre questioni di soldi. Zamparini era meraviglioso ma mi ha spaccato la schiena, viveva un suo calcio tormentato. Quel Palermo giocava in modo sublime ma lui si lamentava di tutto, allora gli chiesi cosa gli mancasse per essere felice: “Mi manca che lei e l’allenatore vi leviate dalle scatole” rispose».
Con Zeman un giorno vi chiarirete?
«So che è stato male e gli mando un abbraccio. Però non c’è tanto da chiarire. È stata una delusione capire che avevo ragione: i suoi famosi silenzi sono dovuti al fatto che non ha molto da dire. Gli facevo domande sui carrarmati a Praga nel 1968 per capire lo stato d’animo di un Paese: zero. Ma come allenatore, alcune cose che gli ho visto fare sono di alto livello. I risultati con lui erano altalenanti ma si è visto il miglioramento netto di giovani che ha avuto il coraggio di far giocare, costruendo il presupposto per notevoli plusvalenze come Lamela e Marquinhos».
In Totti ha visto più solitudine o egoismo?
«In lui non poteva non esserci egoismo, perché la vita lo ha condotto su quel sentiero e ce lo ha lasciato. E lui non ha avuto la forza intellettuale di liberarsi da una certa condizione. Non è mai riuscito a ragionare con il “noi”, ma sempre con l’io. La verità è che non gli hanno permesso di vivere: a Roma è stato un prigioniero, già a 17 anni non poteva uscire di casa. Per tutta la vita è stato il Capitano, l’Intoccabile. L’isteria che ho visto verso di lui è irriferibile e lui l’ha pagata con la solitudine. Ancora oggi è un ragazzo solo, tant’è che le cose che ha cercato di fare non è riuscito a farle».
Quando lei dice che Totti deve rientrare nel calcio lo dice con convinzione?
«Sì, perché sono certo che abbia sensibilità e capacità di giudizio. Non gli posso riconoscere la cultura che serve per vivere nel branco, però penso che meriti di essere un dirigente della Roma, con un taglio tecnico, non amministrativo. E non quello che fa Ibrahimovic al Milan, che è una cosa troppo generica. Gli devono dare un ruolo di responsabile del comparto sportivo: i mestieri si imparano. Però questi americani della Roma sono dei cialtroni, gente che non ha capito la città e il senso del possesso che ha la gente verso la squadra: una tifoseria come quella della Roma la devi conoscere, non puoi fingere che non esista, perché il Romanismo è un sentimento troppo potente, è una malattia».
Ma se pensa a un rientro pensa alla Roma?
«No, non credo di meritarla più. Ho tenuto sempre la squadra a livello di grande competitività in un momento storico delicato. Ma oggi la Roma ha bisogno di una macchina perfetta, una Ferrari. Io sono una Due Cavalli tutta bozzata».
Secondo Allegri al nostro calcio mancano i grandi dirigenti. Che ne pensa?
«Penso che ce ne siano stati di grandissimi, da Allodi ad Arrica fino a Galliani: hanno avuto pochi eredi».
Non cita Marotta perché quel nome le ricorda la colonia al mare?
(ride) «No, io provo affetto per lui, perché quando giocavo a Varese era un ragazzino che si allenava con noi ed era bravo. Ma non sono un suo ammiratore: non sono come lui».
Intende che lui è di governo e lei di lotta?
«Sì, io sono un provocatore, litigioso. Lui aggiusta sempre tutto. Io mi sono dimesso circa venti volte dal mestiere che amo, Marotta non lo avrebbe mai fatto. Ma io sono vittima di me stesso, col mio cervello di sinistra e il mio corpo di destra».
Questa la ripete spesso, assieme alla manovra a coda di gatto maculato: che significa?
«Che se vogliamo uscire da una situazione difficile, dobbiamo inventarci qualcosa».