il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2024
Ricordo di Giorgio Bocca
Quando si parla dei più importanti protagonisti di quell’“arte minore” che è il giornalismo, che furono attivi in tempi relativamente recenti si ricorda spesso Indro Montanelli. Proprio sul Fatto nei giorni scorsi Nanni Delbecchi, la “firma” forse più fine e montanelliana del nostro giornale, ha fatto un gustoso ritratto del “fucecchiese di Su”. Si ricorda molto, anche troppo, Oriana Fallaci. Si ricorda molto meno Enzo Biagi. Giorgio Bocca sembra essere invece scomparso.
Nel giornalismo ho avuto solo due amici, Giorgio Bocca e Walter Tobagi. Ma quest’ultimo a soli 33 anni è stato assassinato da due ragazzi male educati.
Nei primi anni Ottanta Umberto Brunetti, direttore di Prima Comunicazione inaugurò una rubrica che aveva titolato “Dialoghi sull’informazione” e l’aveva affidata a Bocca, che era allora, con Montanelli e Biagi, uno di principi del giornalismo italiano. Ma occorreva uno sparring partner. Avevo conosciuto Bocca quando lavorai per un breve tempo nella redazione milanese di Repubblica e fra di noi, nonostante il quarto di secolo che ci separava, era nata un’istintiva simpatia. Così lui indicò me.
Arrivavo la mattina presto a casa di Bocca, in via Bagutta 12, e lo trovavo spesso tutto indaffarato a incollare dei ritagli pescati chissà dove. “Che fai, Giorgio?”. “Una voce per un’enciclopedia”. “Hai tempo da perdere con queste cose?”. “Ma, sai, mi danno centomila lire” e calcava la voce sul “centomila”. Quella cifra non era granché soprattutto per uno che prendeva uno stipendio da Repubblica e un altro dall’espresso. Nel frattempo i Dialoghi erano diventati anche una formula radiofonica. L’aveva ripresa il produttore Pier Quinto Cariaggi, peraltro più noto per essere il marito di Lara Saint Paul, in una di quelle piccole radio che allora stavano nascendo come funghi.
Quando uscivamo dagli studi della Rai, Bocca si infilava in una misteriosa porticina azzurra, io dovevo attenderlo fuori. Usciva dopo cinque minuti, risaliva in macchina e lo riportavo a casa. Un pomeriggio, mentre guidavo, non resistendo alla curiosità gli chiesi: “Che ci vai a fare in quel bugigattolo?”. “Prendo i soldi subito, cash, di quella gente non c’è mai da fidarsi”. Una sera ero a cena a casa sua. Giorgio sedeva a capotavola, io alla sua destra. Uno dei suoi figli si era sposato da poco, avvicinò il suo viso al mio e parlando a mezza bocca per non farsi sentire dalla moglie, Silvia Giacomoni, mi disse: “Sai, questo matrimonio mi è costato 10 milioni”.
E calcò la voce sui “milioni”. Più che a taccagneria o avidità, lo attribuirei a un sacro rispetto per il denaro, come forma di rassicurazione e di conferma concreta del suo successo. Bocca non ha mai dimenticato di essere il figlio della maestrina di Cuneo. E quando diceva quelle cifre, in fondo modeste, assumeva un’aria quasi birichina come se l’avesse fatta grossa a sua madre.
Questo rapporto con il denaro spiega anche, insieme a una buona dose di masochismo, la fascinazione che Bocca provava per i ricchi. Lo lusingava essere invitato a cena dai Pirelli, dai Brion, dalla Crespi. Ma si annoiava a morte. Anche perché la mensa dei ricchi, con la scusa della dieta, è assai parca mentre a lui, nel cui Dna albergavano antiche fami contadine, piaceva mangiare e bere. Il culmine del masochismo lo raggiungeva quando accettava l’invito che Giulia Maria Crespi faceva ad alcuni importanti personaggi nella tenuta della Zelata sul Ticino. La sadica zarina pretendeva dagli uomini quasi tutti in età una regata agonistica sul fiume. Lui ne tornava distrutto e furioso. “Perché ci vai Giorgio?”. “Ma, sai, la Crespi…”. “Ma tu sei molto più importante di qualsiasipirelli o Brion o Crespi”.
BOCCA NON HA MAI AVUTO
piena consapevolezza del ruolo che ha avuto per più di mezzo secolo nella vita intellettuale e culturale italiana. Psicologicamente era rimasto un provinciale, come ha scritto in uno dei suoi libri più belli: l’altro è la coraggiosa biografia di Palmiro
Togliatti dove smaschera le nefandezze de “il Migliore”, cosa per cui, lui socialista, fu sempre odiato dai comunisti.
Una volta gli chiesi cosa pensasse di Montanelli. “Siamo stati spesso accomunati, ma penso che non abbiamo nulla a che fare l’uno con l’altro, gli invidio la chiarezza della scrittura, l’eleganza di un giro di frase, la battuta, ma non credo fosse un uomo profondo”.
È questa profondità che distingue Bocca. Una profondità che gli ha permesso di fare inchieste memorabili. Ne cito solo una. Nei primi anni ’60 andò a Vigevano e si rese conto che l’industria delle calzature, quando in genere noi si aveva solo due paia di scarpe, uno per la settimana e uno per la domenica, andava fortissimo. Scoprì il “boom”, che noi stavamo vivendo senza essercene accorti.
Bocca era un uomo ruvido, spiccio, di poche parole, in questo un cuneese purosangue. Ma questa ruvidezza, come spesso avviene, mascherava una chiusa e scontrosa timidezza. Quella timidezza che gli ha impedito di essere un personaggio televisivo.
Ho sempre avuto con Giorgio un rapporto assolutamente alla pari. Lui non si poneva come fratello maggiore, i suoi insegnamenti, senza che intendesse fossero tali, me li dava col suo pragmatismo scevro di ogni sentimentalismo. Una volta mi disse: “Sai, ho capito che dopo una certa età se vuoi l’affetto devi pagartelo”. E intendeva proprio l’affetto, non il sesso, di cui mi aveva detto poco tempo prima: “A un certo punto la fatica è più grande del piacere e lasci perdere”. A me che stavo allora con una donna affascinante e innamorata (“l’amorona” come la chiamava lui affettuosamente) questa posizione sembrava troppo cinica. Quando ebbi l’età che lui aveva allora capii che aveva ragione.
Quando facevamo i “Dialoghi” Bocca si teneva coperto sui suoi giornali, la Repubblica e L’espresso. Ma una volta sbottò contro Zanetti, il direttore dell’espresso. Io registrai diligentemente e pubblicai. Una mattina alle sei squilla il telefono. Vado a rispondere tutto insonnolito. “Che cazzo hai scritto?”. “Ma quello che mi hai detto tu Giorgio, non mentre eravamo a pranzo o a cena, ma quando stavamo registrando i Dialoghi. E poi è la verità”. “Se tu, alla tua età, non hai ancora capito che non si può sempre dire la verità, sei un cretino”. Questa frase, detta da uno che passava (ed era) uno dei più coraggiosi giornalisti italiani, mi colpì. Ma anche questo in fondo era un insegnamento. Se l’avessi seguito, mi sarei evitato tanti odi e emarginazioni.
Negli ultimi anni della sua vita Bocca ebbe un’improvvisa decadenza fisica. Credo che non gli abbia giovato il trasloco dalla storica abitazione di via Bagutta a via De Grassi, un quartiere residenziale: per lui i negozi erano diventati inavvicinabili.
Credo di essere stato testimone di questo cambiamento. Un giorno quando stava ancora in via Bagutta andai a trovarlo con una bottiglia di rosso che ci scolammo di nascosto dalla Giacomoni (“sai, ho un po’ di diabete”). Mi mise le mani sulle spalle e disse “sei solido”, ma anche la sua presa era solida. Andando ad abitare in via De Grassi, Bocca era diventato un omarino che chiunque avrebbe potuto spazzare via con un soffio.
L’ultima volta che ho visto Bocca è stato nel giugno del 2011. Lui era vigile, attento, ma preferì che parlassimo Silvia e io. In quel pomeriggio luminoso, troppo luminoso, d’inizio d’estate, tutti e tre ci rendevamo conto, anche per quel sole spavaldo fatto per altre età, di essere dei sopravvissuti. Bocca si è alzato per congedarsi. Gli ho chiesto: “Giorgio, hai più di novant’anni, che cosa pensi della tua vita?”. “Penso che, tutto considerato, mi è andata bene”.
Il “Provinciale” Bocca non ha mai avuto piena consapevolezza del ruolo che ha avuto per decenni nella vita intellettuale e culturale del Paese.