La Stampa, 18 ottobre 2024
Intervista a Tullio Pericoli
Per mezzo secolo il tratto della sua matita ha accompagnato la quotidianità dei lettori. Gli sono state dedicate mostre e retrospettive, a giugno l’Accademia dei Lincei lo ha insignito del “Premio Internazionale Feltrinelli per le Arti”, ma se gli si chiede del suo primo disegno, Tullio Pericoli non lo ricorda. «Ricordo però il primo ritratto: a mio zio, un anarchico socialista – racconta alla Stampa nel suo studio pieno di libri, colori e cavalletti – Durante il fascismo piombava all’improvviso a casa nostra per fuggire o nascondersi. Fu lui a trasmettermi l’idea che si potesse vivere non per una carriera, ma per una passione».
La prima immagine dell’infanzia?
«Il paesaggio del mio paese, Colli del Tronto. Le mani nella terra, la polvere in bocca. E poi le grandi distese collinari, che ho sempre immaginato come luoghi su cui incidere qualcosa di me stesso».
Era un bravo studente?
«Fino alla terza media, poi cominciai a zoppicare, tranne che nel disegno. Al liceo preparai un orario di classe coi ritratti degli insegnanti. Il preside si complimentò ma spiegò che non si poteva tenere: “La scuola – disse – non solo deve essere, ma deve anche apparire seria”».
Dopo la maturità scelse Giurisprudenza, a Urbino.
«In realtà, scelse mio padre: non poteva mantenermi agli studi e Legge era l’unica facoltà che permetteva di dare gli esami senza dover frequentare».
A pochi mesi dalla tesi conobbe Cesare Zavattini.
«Enrico Marussig, figlio del pittore Piero, che lavorava all’Espresso, mi consigliò di scrivergli: “Ma mi raccomando – aggiunse – gli mandi anche un disegno sei per sei, colleziona solo quelli”. Così feci».
E lui?
«Rispose subito. Mi incontrò a Roma con affetto, come un vecchio zio. Guardò i disegni, poi esclamò: “Sei bravo, è quello che devi fare. Smetti di studiare, ma non venire qui. La tua città è Milano”».
Lo ascoltò.
«Partii in treno il primo maggio 1961. Arrivai la mattina del giorno dopo in una città gialla, con un cielo dal colore indefinito che faticava a distinguersi dagli edifici. Appena scesi la scalinata della stazione, mi venne incontro uno sconosciuto dai modi molto cortesi. Pensai: “I milanesi sono davvero gentili”. Solo dopo capii che tentava di procacciare stanze a chi arrivava con la valigia in mano».
Il primo incontro a Milano?
«Con Gian Carlo Fusco, una delle firme del Giorno, a cui diedi una lettera di Zavattini. Per un mese passammo le sere insieme, prima a cena alla trattoria “Bagutta”, poi al night “Sir Anthony”, oltre la ferrovia di Lambrate: il nido di Fusco, pieno di entraîneuse e malavitosi».
Si divertiva?
«Ero imbarazzatissimo, ma dovevo sfamarmi: così, mentre Fusco raccontava storie, mangiavo i biscottini offerti da queste signore un po’ discinte. Una notte, poco prima dell’una, Gian Carlo mi portò al Giorno. Cominciai a collaborare illustrando proprio le sue storie di Marsiglia».
E il sogno di diventare pittore?
«Continuava a essere un tarlo. Feci la prima mostra in una galleria, “La Muffola”, che apriva dopo cena. C’era anche un pianoforte, venivano a suonare e cantare Enzo Jannacci, Cochi e Renato».
Nel ’74 entrò in una delle gallerie più rinomate, quella di Giorgio Marconi.
«Mi chiese in esclusiva i miei lavori, spiegandomi che sarei stato libero di vendere anche ad altri a patto che gli dessi una percentuale. Quando accadde, prese il mio assegno ma mi avvertì: “Ricordati che vali solo se lo decidiamo in tre: io, un critico d’arte e un direttore di museo”».
Coi quotidiani era diverso?
«Lì avevo sempre un riscontro diretto e immediato con lettori e committenti. Per questo decisi che avrei fatto il pittore sui giornali».
Negli anni Settanta andò prima al Corriere, poi a Repubblica. Bocca lo conobbe in quegli anni?
«No, dieci anni prima, al Giorno. Nella vetrina di una libreria vidi il suo Miracolo all’italiana con un mio disegno in copertina. Non ne sapevo nulla, così gliene chiesi conto. Mi disse: “E non sei contento? Fino a poco tempo fa eri nelle Marche, adesso sei su un libro”».
Non un ottimo inizio.
«Ci restai male, ma capii che in fondo aveva ragione. Nacque una lunga amicizia, in cui ha contato anche la nostra origine provinciale, sorretta da uno spirito ingenuo ma al contempo intransigente».
È vero che cucinava bene?
«Ricordo ancora il suo risotto con le rane. Memorabile. Quando stava in via Bagutta, si serviva solo dei commercianti che conosceva: fruttivendoli, salumieri, pescivendoli».
A casa di Bocca conobbe Roberto Calasso.
«Era un conversatore affascinante: sempre un po’ chiuso, con un’ironia che sfiorava il sarcasmo».
Nessuna soggezione?
«Iniziai ad avvertirla solo anni dopo, quando diventai un suo autore in Adelphi. Continuammo a frequentarci, ma dietro il tavolo da editore aveva un atteggiamento austero con cui esercitava il suo potere intellettuale».
Fu sempre da Bocca che Garzanti le chiese una pittura murale per raccontare la storia della sua casa editrice?
«No, da Giorgio Livio vide un mio ritratto di Beckett. Il giorno dopo mi telefonò. Ci accordammo. Feci dei bozzetti, li rifiutò, ma non mi arresi: “Aspetti e giudichi alla fine”. E, alla fine, fu soddisfatto».
A quelle cene c’era anche Gae Aulenti.
«Un talento visivo straordinario. C’era anche lei durante i capodanni trascorsi nella casa di Umberto Eco a Monte Cerignone, dove una sera mettemmo in scena l’Amleto. Io mi occupavo delle scenografie, Gae pensava alle luci, industriandosi con delle lampadinette».
Ed Eco?
«Era l’anima di quelle sceneggiate».
Gli ha fatto tanti ritratti da farci una mostra. Che amicizia è stata?
«Era chiuso in una specie di roccia, non parlava mai di sentimenti. Un giorno provai a stanarlo: “Ma tu, quando scrivi, a chi ti rivolgi?”. Mi rispose che non aveva interlocutori, sentiva di parlare a qualcuno che sarebbe arrivato».
A proposito di ritratti: ne ha fatti migliaia. Qualcuno si è offeso?
«Rita Levi Montalcini. Dopo il Nobel, la ritrassi sulla copertina de L’Indice, con un grande fiocco sulla testa a forma di DNA. Protestò con una lettera durissima. Non era molto spiritosa».
Per molti anni ha disegnato anche per il New Yorker.
«Una volta mi chiesero il ritratto di un autore afroamericano: per esigenze stilistiche, la parte bassa del disegno era bianca. Mi dissero che non potevano accettarlo. Alla fine dovetti colorargli le mani».
Vive a Milano da più di sessant’anni: com’è cambiata?
«Era una città accogliente ed esigente. Ormai la scruto solo dalle finestre del mio studio, come fosse un acquario, ma da ciò che intuisco cerca meno il talento».
Cosa fa quando non dipinge?
«Leggo, per il resto poco altro. A 88 anni ho la fortuna di alzarmi dal letto con la stessa voglia di uscirne per venire in studio a dipingere».