La Stampa, 18 ottobre 2024
Il corpo del nemico
Morire è sempre una faccenda personale e intima. Anche quando avviene pubblicamente, esemplarmente, come castigo. Conosciamo o immaginiamo di saper tutto della morte dei santi e degli eroi, le morti memorabili, educative, imitabili… l’arte di ben morire per sopravvivere nella memoria. E i miracoli del dopo: i corpi intatti dei martiri, i profumi celestiali che scandiscono lo scoperchiare le tombe dei Giusti. E per gli altri, quelli che non fanno Storia, almeno la misteriosa umile tenerezza del buio e del silenzio.Ho visto molti morire anche al servizio di una causa impersonale. Era una sensazione assai strana, la costante vicinanza della morte gravava sulla loro esistenza e al tempo stesso la alleggeriva. Era l’atto del morire che faceva paura e in alcuni momenti era possibile anche vincere quella paura. In quei momenti quegli uomini erano liberi, uomini che avevano perduto la loro ombra, che avevano già detto addio alle schiere dei mortali. E forse è questa la maggiore esperienza di libertà che sia concessa all’uomo.Ma i cattivi, i colpevoli nei confronti della Storia, quelli che noi, che di quella storia conserviamo l’indice, abbiamo indicato come sconfitti meritatamente, puniti di delitti per cui sembra che dobbiamo saziarci della loro agonia? Vale per loro la stessa regola? Non v’è uomo tanto disperato nella colpa che non porti con sé il suo segreto, il segreto di un dolore che purifica. E ancora: non ci interroga, noi i giusti, e aspramente, il corpo inerte, avvilito, la spoglia mortale di quelli che vengono esposti non per ricevere l’unica pietà obbligatoria, ma bestemmie e maledizioni, per provare che sono davvero morti, per dimostrare nello strazio dei corpi che i conti sono stati saldati? La vendetta che ha lo strano vuoto senso del poi, l’oggi che strappa via inesorabile ieri.Gli ultimi cinque minuti di Gheddafi, Mussolini, Ceausescu, Bin Laden, Saddam, Sinwar per esempio, quando nulla per loro è rimasto indietro che non sia compiuto. Nessun desiderio più: non odio, non rimpianto. Davanti al patibolo o al mitra dei giustizieri ben poco di quello che sono stati, il trionfo il potere gli applausi i delitti la sconfitta, è ancora lì. Le ore e gli istanti della fine l’hanno divorato come lupi. La loro esistenza si fonde. I dittatori che stanno per morire hanno occhi vuoti come abissi: Saddam con la corda al collo e i boia incappucciati, i Ceausescu intontiti davanti ai loro giudici sbrigativi e senza appello...Ma è il dopo il vero mistero, quello che loro non immaginano. Che importa in fondo, altri sono diventati padroni della vita e della morte, spetta loro decidere che fare dei cadaveri. Che importa se gli è riservato un osceno privilegio, quello di dover morire di nuovo. Perché questi sconfitti devono rendere oscenamente testimonianza perfino di non esistere più, devono esibire perfino quando è stata pubblica la loro agonia e l’esecuzione, l’unica prova irreversibile della loro inesistenza, l’accozzaglia di materia vilipesa, umiliata, derisa. Achille non si limita a uccidere Ettore, l’assassino di Patroclo, lo trascina più volte aggiogato al suo carro attorno a Ilio perché tutti dalle mura ne vedano lo strazio, la decomposizione. Per questo Hitler nel suo programmato, pagano valhalla, si sottrasse ordinando di esser bruciato. Ai vincitori restò solo un mucchio, ambiguo di cenere.C’è nel come viene organizzato il dopo dei tiranni un isterismo di superstizione che dovrebbe far riflettere e che spesso prepara nuove tragedie, con riabilitazioni e nostalgie. Sì, perché l’uomo di cui tutto avevano paura da vivo, che li dominava dai balconi e dalle tribune, il cui nome era sillabato con prudenza o scandito nei peana di entusiasmo a comando, in realtà continua a fare paura, distende il cono d’ombra del suo tempo di potere e di violenza al di là del fatto della sua morte. Per questo dopo l’ultimo sussulto devono esser gettati ai piedi di chi ha loro obbedito come sacchi vuoti, devono far mostra di sé, perché non si dubiti.Guardarli morti in alcuni casi è privilegio dei potenti che li hanno sconfitti: Obama e i vertici americani che, in diretta, verificano il cadavere di Bin Laden ucciso a migliaia di chilometri di distanza. Prima di cancellarlo nel mistero di una tomba senza fondo.Nel tempo in cui la morte e il morire sono tenuti ben lontano dagli occhi, il corpo morto è sottoposto a un accurato rimedio cosmetico e la sepoltura e la cremazione si svolgono ai margini della comunità, sono cosa privata di chi li ha amati, questi cadaveri dannati devono raccontare se stessi minuziosamente, nel contrappasso delle piaghe, del collo spezzato dalla corda, delle stigmate della profanazione. Al popolo dei sudditi, ora liberi, viene ordinato di sfilare lentamente davanti ai cadaveri in un obitorio improvvisato come nel caso di Gheddafi, per annusare gli odori della decomposizione, perché verifichino che non risorgerà sotto forma di spirito maligno. Israele inchioda quanto resta del suo arci nemico Sinwar in un primo piano tra le macerie della sua tomba. Illudendosi che non diventerà semmai prova di martirio glorioso, e messaggio di vendetta.Quell’ora deve restare ferma sul quadrante del tempo, i fortunati che sono entrati nel mondo nuovo devono averlo sotto gli occhi, quasi sotto le dita, il mostro, il tiranno. La liberazione deve diventare una nuova unità di misura temporale, un nuovo “avanti” e “dopo”, come prima era la celebrazione dell’avvento del raiss, del conducator, dell’emiro. L’onnipotente di ieri deve essere mineralizzato, deve diventare un oggetto osceno come uno straccio o un rifiuto, deve finire in un sabba pieno di urla e di contorcimenti. Più ne riproduciamo il corpo vilipeso più ci dimentichiamo di lui, la sua agonia e la sua morte di uomo. Mussolini appeso per i piedi, a rovesciamento della immagine del ventennale trionfante dell’ordinare e dell’inveire, quella figura a mezz’aria, diventa quella definitiva dell’uomo.Ma questo prolungare la morte senza garbo né pietà, questo accettare che con essa non ogni cosa finisca, non è la confessione di un nuovo peccato?