la Repubblica, 18 ottobre 2024
Intervista a Francesco Di Leva, attore
Un padre e un figlio in viaggio dentro notti sempre uguali, quotidiane e misteriose, vite sospese che si muovono tra tenerezze e dolori nascosti, nel deserto umano della periferia. Il padre e il figlio sono Francesco e Mario Di Leva, il film Nottefonda – alla Festa di Roma sezione Freestyle – è il primo che nasce da Nest, il gruppo artistico teatrale che da una palestra occupata a San Giovanni a Teduccio, quartiere di Napoli, è diventato una realtà teatrale, non solo nazionale, importante. È prodotto dalla Mad Entertainment.«Il punto di partenza, molto libero, è il romanzo La strada degli indiani di Giuseppe Miale di Mauro, il regista del nostro gruppo del Nest», racconta l’attore dal salotto di casa.S’interrompe. «Basta, esci!», intima a qualcuno, poi spiega che si sta rivolgendo «al mio cane che tenta di sbranare i pupazzi dei miei figli. Un rottweiler di 50 chili, l’ho preso per metabolizzare il dolore per la morte, un anno fa, del cane precedente».Il film è una storia di dolore e rinascita. Quando ha capito che il figlio doveva essere il suo Mario?
«Il produttore Luciano Stella è venuto a presentare il suo libro di poesie al Nest, gli ho proposto un film dal libro di Giuseppe. Ha capito che il Nest poteva fare quel salto che avevano fatto i Teatri uniti con Martone, Sorrentino. Ha letto questa favola, è impazzito per la storia di Ciro e ha detto: “Ma lo fa tuo figlio?”».
E lei?
«Mi piace che mio figlio faccia il mio mestiere. Ero panettiere nel panificio di mamma, sono stato con mio padre camionista. Non ci trovo nulla di male se Mario intraprende questo gioco, anche se la priorità è lo studio. Sono ossessionato dall’idea di una pellicola che conservi una forma di me e mio figlio giovane, il cinema come album di famiglia, qualcosa che resta nel deserto digitale di foto mai stampate».
Tra i personaggi c’è un’intimità scherzosa che portate da casa.
«Quel padre e quel figlio siamo noi, i giochi sono i nostri. Le filastrocche su quanto ci amiamo significano tanto per me, anche se so che finiranno presto».
Com’è stato condividere il set?
«Abbiamo avuto un rapporto tra colleghi, per me Mario era troppo ingombrante da gestire, se ne occupa la mamma. Arrivavamo con auto separate, c’era la fatica delle riprese notturne. Ci godevamo le scene insieme, anche se ho sempre paura delle sue difficoltà, degli imbarazzi, soffro per lui. È stato un viaggio pazzesco che auguro a tutti i colleghi, anche quelli che fingono che i film coi figli non si debbano fare».
E vederlo sul palco di Sanremo con Amadeus?
«Ero dietro le quinte, avevo i brividi. Mi sono accorto a un certo punto che stava improvvisando ed è venuto fuori per quel che è, un bravissimo ragazzo, scugnizzo al punto giusto. Dopo gli ho detto: “Hai fatto bene a restare te stesso”».
Lei a 13 anni ha capito che amava recitare, ma la strada è stata dura.
«Ricordo un sogno nel cuore, un segreto irraccontabile, perché gli scugnizzi di Napoli mi ricordavano con simpatica ferocia che ero un illuso. A un certo punto ho pensato di esserlo. Non sapevo a chi rivolgermi. Ho iniziato a studiare. Lavoravo nel panificio di notte, seguivo corsi di teatro di giorno. Sono entrato nel mondo della conoscenza, della cultura. Un’apertura mentale diversa dalla mia».
Mario invece è un figlio d’arte: quali sono i vantaggi e i pericoli?
«Quando lo vedo sul set mi pare un alieno, per la consapevolezza tecnica del mezzo. Ha riferimenti cinematografici alti, parla le lingue. C’è l’Europa della serialità che ha bisogno di giovani. Ha girato una serie e ora gira un film con Fortunato Cerlino».
Il figlio di un pizzaiolo oggi ha le possibilità che ha avuto lei?
«Ai miei tempi c’erano lunghe gavette, il teatro, gli spettacoli, qualche casting. Oggi il sogno di fare l’attore a Napoli è come quello del calciatore. La possibilità del successo è dietro l’angolo ma può essere una disgrazia se non lo sai gestire. La fama da social è una condizione che non contempla la possibilità dell’errore. Troppe responsabilità addosso ai ragazzi. Ai nostri allievi – al Nest c’è una scuola di teatro e cinema – insegno che, per capire, devono sperare di sbagliare. Fare l’attore significa comprendere la condizione umana, inseguire la poesia e non i numeri dei follower, anche se questo fattore condiziona ormai il nostro lavoro in modo devastante».