la Repubblica, 18 ottobre 2024
Quando il corpo del nemico diventa un macabro trofeo
L’esibizione del corpo del nemico ucciso è una prova, è un trofeo, è la necessaria chiusura di un capitolo di storia, è una barbarie, è un messaggio al suo popolo, o del suo popolo, è un superfluo supplemento di pena, è un monito, un modo per testimoniare, per infierire. È tutto questo allo stesso tempo. È negli occhi di chi guarda. Viene misurato da un diverso termometro di sensibilità che va dal pudore dell’Europa, pettinata da decenni di pace, alla pratica indifferenza americana, alla fatalistica abitudine di parti del mondo dove la morte è un passante che incroci e con cui scambi uno sguardo neppure fuggevole.
Yahya Sinwar viveva entro quei confini e lì ha concluso la sua esistenza. La fotografia che lo ritrae cadavere è una comunicazione, nella sua forma più forte. Il corpo è disteso tra le macerie di un bombardamento, rovina umana tra rovine materiali. È inscritto nel perimetro di una fine, ha i colori della polvere, del pietrisco, della cenere. La sua bocca aperta, da cui aria non entra o esce più, è simmetrica rispetto allo squarcio in un mattone che gli sfiora il cranio. Il braccio è ripiegato e mostra un orologio in cui il tempo si è fermato. È già memoria per chi vorrà ricordare, niente di più. La diffusione di quell’immagine è una non troppo sottile minaccia agli avversari: la vostra ora non soltanto è scoccata, è già trascorsa, non siete più altro che una tessera nel mosaico del passato che nessuno verrà più a ricomporre. Non è esclusiva di una sola parte l’esibizione del corpo del nemico vinto: è universale, quasi un bisogno di fronte all’ipotesi di una resurrezione nella speranza malata di una teoria del complotto. La mancanza del corpo di Hitler ha suggestionato non soltanto gli sceneggiatori, ma orde di visionari che nel secolo scorso lo avrebbero localizzato in Sudamerica. Ceausescu è stato addirittura riesumato per le opportune verifiche. Osama bin Laden scaricato in mare ha lasciato che qualche dubbio affiorasse, al punto che del suo cadavere è stata diffusa una foto fasulla. Le immagini, prima dell’intervento del deep fake, chiudevano ogni dibattito. E aprivano quello sull’opportunità.
In Medio Oriente e nei Paesi arabi è quasi la regola. Nel 2003 i figli di Saddam Hussein, Uday e Qusay, vennero traditi dal proprietario della casa in cui erano rifugiati ed eliminati da un commando di paracadutisti americani. Le loro identità furono confermate dai calchi dentari. A Bagdad qualcuno festeggiò sparando in aria. Qualcun altro sostenne che si trattava di una messinscena: la Cia aveva esagerato facendo ritrovare anche pasticche di Viagra per denigrare i fratelli. Le fotografie furono giustificatecome un metodo per convincere la popolazione. In Occidente la decisione fece scandalo. In Italia la Federazione della stampa parlò di «violazione delle regole internazionali», «logica tribale e violenta», «situazione abnorme». All’epoca vivevo al Cairo: nessun egiziano ebbe il minimo fremito sfogliando i giornali. Robert Fisk scrisse sulla prima pagina dell’Indipendent un editoriale in cui cercava di spiegare ai lettori europei che soltanto per loro le immagini della morte erano tabù, qualcosa da rifuggire o esorcizzare. Come fosse possibile. La logica di chi vive in un appartamento riscaldato a Londra o Milano non può applicarsi a chi è nato in un campo profughi o alla periferia di Beirut. La soglia dell’orrore ha un limite ben diverso: i primi se lo procurano andando al cinema.
A Bagdad nel 1963 venne deposto il primo ministro Qasim. Lo trucidarono. Poi chiamarono le telecamere e mandarono in prima serata alla televisione di Stato un programma di 5 minuti dal titolo La fine dei criminali. Il cadavere di Qasim venne ripreso da varie angolazioni e, alla fine, coperto di sputi. Poi fu sepolto. L’indomani, non paghi, alcuni “rivoluzionari” lo disseppellirono, lo legarono a un camion, lo portarono in giro per le strade della città e infine lo squartarono e diedero in pasto ai cani. Saddam Hussein, successore in linea diretta, è stato mostrato mentre viene ripescato dalla buca in cui era nascosto. La sua impiccagione, resa asettica per quanto è possibile una cosa del genere, è stata trasmessa in diretta. Soltanto alla fine il suo corpo è stato oggetto di pietà e consegnato al destino rituale: lavato da un imam, avvolto nel sudario, deposto in una bara coperta dalla bandiera nazionale e sepolto accanto ai figli. Non così il rais libico Gheddafi. La crudeltà visiva della cronaca della sua morte è stata un crescendo: il volto insanguinato alla France Presse;il cadavere trascinato a torso nudo da un brando di festanti, facili vendicatori suAl Jazeera; infine la deposizione nella cella frigorifera di un centro commerciale, il Tunisian Shop di Misurata, con le file di ex sudditi obbedienti (diecimila ne contarono) venuti a scattarsi il selfie della rivalsa.
C’è anche un pizzico di viltà nella miscela che porta a questa esposizione. Appartiene all’azione; quanto alla reazione la misura del disgusto possiamo credere sia quella della civiltà, ma lo è soltanto in parte. È anche il portato di un’esperienza protetta e un po’ illusoria che ritiene le macerie e il sangue scongiurabili se non visibili.