la Repubblica, 18 ottobre 2024
Ritratto di Yahya Sinwar
L’inafferrabile è stato fermato. Yahya Sinwar, ricercato numero uno e leader supremo di Hamas, è morto come aveva promesso di morire: non consegnandosi agli israeliani. E rimanendo, fino all’ultimo respiro, nella Striscia di Gaza. Si chiude la parabola di un criminale politico, torturatore e stratega, che all’interno di Hamas è stato “il macellaio di Khan Yunis”, “il più rispettato di tutti”, “un capo anche quando non era capo”, “l’arciterrorista”, “il più iraniano dei palestinesi”. Inafferrabile per i 375 giorni in cui è rimasto sepolto nei tunnel, e inafferrabile da una vita intera, perché nessuno può dire di aver decifrato davvero la mente di colui che ha pensato l’indicibile.Yahya Sinwar, presunta data di nascita: 29 ottobre 1962, campo rifugiati di Khan Yunis. Data certa di morte: 16 ottobre 2024, Rafah. Nel mezzo, la semina dei germi di odio che hanno prodotto il 7 Ottobre.La sua famiglia arriva nella Striscia nel 1948 da Ashkelon, quando quella città si chiama ancora al-Majdal ed è palestinese, ma all’interno del neonato Stato di Israele. «Mia madre mi cuciva i vestiti con i sacchi di farina dell’Unrwa», racconterà Sinwar. Si laurea in Studi arabi all’Università islamica, è un bravo studente. Devoto dell’allora leader della Fratellanza Musulmana a Gaza, lo sceicco Ahmed Yassin, si inventa per lui un apparato di sicurezza per scoprire i collaborazionisti e i consumatori di alcol e droghe, i trasgressori della sharia. Chiama quel sistema di polizia politica, basato su interrogatori e torture, el Majd, la Gloria. A Yassin piace talmente da dargli una dispensa, una sorta di fatwa: Sinwar può uccidere chiunque, se lo ritiene necessario per la protezione degli islamisti.Con l’amico di infanzia Rawhi Mushtaha divide la Striscia di Gaza in due dipartimenti. «Tu devi uccidere i traditori a sud, io li ucciderò a nord», è il patto di sangue che stringono i due. Quando le autorità israeliane lo catturano nel 1988, Hamas è nata da un anno sull’onda della prima Intifada. «Ho torturato a morte dodici collaborazionisti tra cui due vostri soldati», confessa, guadagnandosi quattro ergastoli eun cumulo di 426 anni di prigione.Matricola 7333335, detenuto Yahya Sinwar, reo confesso e non pentito. Per quattro anni lo tengono in isolamento, poi gli concedono di condividere la cella con Mushtaha. Il futuro capo di Hamas ha il tempo di studiare l’ebraico, grazie al quale compone una lettera per Netanyahu. Si diletta a scrivere due romanzi, che, da carcerato, riesce lo stesso a esfiltrare foglio dopo foglio e a far pubblicare nel 2004 e nel 2010. Il primo si intitola La spina e il garofano, ed è probabilmente l’unica finestra affacciata sui meandri mentali dell’organizzatore del 7 Ottobre. Il libro parla di due ragazzi che crescono in una stessa casa, Ahmed, che vive la vita agra dei campi profughi e osserva gli adulti affannarsi, e Ibrahim, che, figlio di un padre ucciso, sceglie la lotta politica e la moschea. «Ibrahim è uno che si è fatto da sé», lo loda Ahmed. Ed è un concetto che nella dialettica infuocata di Sinwar, che si s ente contemporaneamente Ahmed e Ibrahim, ritorna.Gli israeliani nel 2011 fanno un errore esiziale e involontario. Lo liberano. È nell’elenco dei 1.026 detenuti palestinesi scarcerati per ottenere il rilascio di Gilad Shalit. Tre mesi dopo, a 49 anni, sposa Samar Abu Zamar, che di anni ne ha 31. Hanno due figli. Li vediamo insieme farsi inghiottire dall’oscurità di uno dei mille tunnel sotto Gaza nell’ultimo video disponibile durante la guerra, girato pochi giorni dopo il massacro di un anno fa.Sinwar sopravvive a diversi tentativi di assassinio e a un cancro al cervello. Nel 2017 viene scelto dal politburo e dal Consiglio della Shura per guidare Hamas nella Striscia al posto di Ismail Haniyeh, nel frattempo divenuto leader politico. Quelli come Haniyeh li disprezza, perché stanno a Doha e a Istanbul, negli hotel comodi e ai tavoli di ristoranti stellati, lui si sente meglio sulla sabbia. Il ruolo di re di Gaza è confermato nel 2021, quando il piano di assalto ai kibbutz è quasi pronto. Lo hanno progettato in tre: Yahya Sinwar, suo fratello Mohammad e Mohammed Deif, capo delle brigate al-Qassam, l’apparato paramilitare di Hamas. Solo a giochi fatti, avvertono il vertice a Doha. Il piano ritarda di un anno, perché Sinwar prova a convincere gli sciiti di Hezbollah e i pasdaran iraniani a prendere parte al pogrom. Non ci riesce, nell’immediato. Ma un anno dopo aver partorito la strage più infame, il Medio Oriente è in fiamme. La nomina a presidente politico di Hamas al posto di Haniyeh, nell’agosto scorso, non cambia nulla per lui. Era già lui, di fatto, il capo. Continua a dare ordini dai suoi rifugi, senza usare telefonini ma attraverso pizzini di carta su cui verga ordini indossando guanti per non lasciare le impronte, ordini che finiscono a Khalil al-Hayya, suo ventriloquo al tavolo delle trattative e ambasciatore delle sue volontà all’estero. Con Sinwar muore il più iraniano dei palestinesi, il leader sunnita che ha trovato la sponda con gli sciiti di Hezbollah e gli ayatollah di Teheran nel cosiddetto Asse della Resistenza. Da capo del movimento nella Striscia ottenne da Netanyahu il permesso a far entrare milioni di dollari del Qatar, che usò poi non per la popolazione, ma per ampliare i tunnell. Non ha mai riconosciuto il diritto di Israele a esistere ed è stato il più critico verso la mezza apertura che Khaled Meshal, il vecchio capo di Hamas, fa nel 2017 scrivendo il nuovo Statuto. Per Sinwar l’unico Stato possibile doveva comprendere tutta la Palestina, dal fiume al mare. E non c’era spazio per altro.