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 2024  ottobre 18 Venerdì calendario

La spesa per le pensioni mina il futuro dell’Italia

Noi italiani, gente più che altro interessata al passato, al massimo al presente, certo non al futuro. Magari fossimo un Paese per vecchi: di qui a qualche decennio rischiamo di divenire un Paese di morti. Un po’ per l’inverno demografico le cui nubi coprono oramai l’orizzonte dello Stivale. E un po’ perché, a questa andatura, i conti pubblici non riusciranno più a sostenere il combinato disposto fra la montante spesa sanitaria e l’insostenibile peso della componente previdenziale.
«È allarme rosso»: non ha utilizzato mezzi termini, martedì scorso a Roma, Valerio De Molli, ceo di The European House – Ambrosetti, introducendo i lavori dell’edizione 2024 di Welfare Italia Forum di Unipol moderati dall’editorialista del Corriere della Sera Antonio Polito. «Siamo in allarme rosso – ha detto De Molli – poiché, mentre ci concentriamo sul rapporto purtroppo crescente fra debito e Pil (nel 2023 eravamo al 134,6% contro l’88,7% dell’area euro, ndr), non ci stiamo accorgendo che stiamo spendendo l’80% delle risorse pubbliche a nostra disposizione sul passato, destinando solo il restante 20 per costruire un futuro sostenibile e di benessere per le generazioni a venire».
Fatti due conti (li ha fatti il Think Tank «Welfare Italia» e li ha infilati nel suo ultimo rapporto presentato proprio martedì a Roma), fra sanità, politiche sociali, previdenza e istruzione l’Italia nel 2022 (ultimo dato disponibile) ha speso 642,7 miliardi di euro di soldi pubblici, corrispondenti a ben il 58,9% della spesa dello Stato. E la brutta notizia è che, di questa mole di denaro, quasi la metà è stata assorbita dalla componente previdenziale (le pensioni, 18 milioni di assegni), un quinto (il 21,5%) dalla spesa sanitaria, solo il 17,3% da politiche sociali e un misero 12,3% dall’istruzione. «Il che significa – ha proseguito il manager – che il nostro Paese, in proporzione alla sua economia, mentre è primo per spesa previdenziale è abbondantemente ultimo dietro Spagna, Francia e Germania per investimenti in formazione, lavoro e medicina preventiva».
E non è tutto. Mentre infatti l’Europa post-Covid ha reintrodotto le vecchie regole fiscali, in particolare il patto di Stabilità che lega i cordoni della borsa riducendo gli spazi di manovra in Finanziaria, secondo quanto contenuto nel Piano strutturale di bilancio di medio termine 2025-2029 nei prossimi sette anni occorrerà reperire fino a 94,8 miliardi di euro di risorse aggiuntive per garantire la sostenibilità del sistema welfaristico nazionale. Una cifra che, considerando gli effetti derivanti dalla correzione di bilancio recentemente notificataci dalla Commissione europea, potrebbe lievitare sino a 176 miliardi di euro: nelle storiche Corsie dell’ospedale Santo Spirito in Sassia che hanno ospitato l’evento erano presenti anche il capo della segreteria tecnica del ministero dell’Economia Riccardo Ercoli e il sottosegretario al ministero del Lavoro Claudio Durigon, i quali hanno preso appunti.
La domanda, a questo punto, è: come reperire queste risorse aggiuntive considerando la più che ventennale staticità della produttività, il cuneo fiscale già alto e, soprattutto, le ripercussioni economiche dell’effetto denatalità (siamo ormai ben al di sotto della soglia psicologica dei 60 milioni di abitanti) che stiamo attraversando? Il presidente del gruppo Unipol, Carlo Cimbri, ha sottolineato l’importanza della formazione: «È un tema – ha detto – abbandonato nel dibattito pubblico degli ultimi vent’anni che deve tornare a essere centrale: dobbiamo puntare al massimo della qualità, dalle scuole primarie alle università, riqualificando per prima cosa il ruolo dell’insegnante». Ma c’è di più. «L’interazione tecnologica nell’offerta di welfare – ha suggerito Matteo Laterza, ad di UnipolSai – rappresenta certamente un elemento che può contribuire alla razionalizzazione e all’ottimizzazione dei servizi assistenziali già presenti sul territorio». Un processo di aggiornamento che dovrà poi essere accompagnato, secondo Laterza, a un approccio integrato nei sistemi di gestione demografica volto a invertire il calo della popolazione attraverso incentivi alla genitorialità e «selettive aperture» all’immigrazione.
Anche se, pare di capire, il vero game changer non potrà che essere una maggior integrazione fra pubblico e privato, il che si traduce in più spazio alla previdenza complementare, in Italia strumento ancora poco diffuso, essendo adottato dal 36,2% dei lavoratori (contro l’84% di Germania e il 93% nei Paesi Bassi) e con evidenti divari sia di genere (il tasso di partecipazione delle donne è pari al 30,9% contro il 37,5% degli uomini) che territoriali: basti pensare che il Trentino-Alto Adige presenta un tasso di partecipazione del 63%, 35 punti in più rispetto alla Campania). «In Italia – ha concluso Laterza – la spesa sanitaria intermediata da soggetti privati come i fondi previdenziali e le assicurazioni presenta ancora ampi margini di crescita, pesando solo per l’11,2% del totale contro il 41,3% della Francia, il 37,8% dei Paesi Bassi, il 26,1% della Spagna e il 18,4% della Germania».