Corriere della Sera, 18 ottobre 2024
Intervista alla figlia di Giorgio Guazzaloca
Grazia Guazzaloca, se dovesse scrivere un libro su suo padre, sarebbe un saggio politico o un romanzo?
«Un romanzo, e a suo modo avventuroso. Perché di vite mio padre ne ha vissute tante, oltre a quella nota ai più iniziata nel ’99».
Ventisette giugno 1999. Cosa ricorda di quella sera?
«Ero a casa, incollata alla tv. Guardavo la diretta da Palazzo d’Accursio. C’erano giornalisti arrivati da tutta Italia. Ma io seppi della vittoria dalla voce del cronista di una rete locale. E pensai che eravamo finiti tutti, tutti noi, in qualcosa di molto grande».
Eccome se lo era, qualcosa di grande. Una bomba, un terremoto e via così: nei giorni successivi si sprecarono i paroloni per descrivere ciò che era successo quella sera. Era successo che il candidato sindaco di centrodestra (erano gli anni di Berlusconi, del Popolo della Libertà) aveva vinto le Comunali. A Bologna. Per la prima (e unica) volta dal 1945. Artefice del ribaltone che spedì tutta la sinistra dritta in analisi, tale Giorgio Guazzaloca. Macellaio figlio di macellai bravo a tessere rapporti con i vescovi e con le fondazioni bancarie. Bolognese che più bolognese non si può. Sconosciuto ai più al di fuori delle mura cittadine, fino a quella sera.
Grazia, come festeggiò la vittoria?
«Non la festeggiai in realtà. In quel periodo i rapporti con mio padre erano freddi».
Ci racconti perché.
«Quando decise di separarsi da mia madre io ero adolescente e, come molti ragazzini a quell’età, non compresi e non accettai la sua scelta. Diversamente da mia sorella Giulia, che ha 9 anni più di me e che, infatti, quella sera festeggiò accanto a lui. Abbiamo impiegato un po’ di anni per ricucire, anche se i suoi rapporti con mia madre erano buoni». (Qui va fatta una precisazione: quella che Grazia chiama mamma non è la sua madre biologica, è la seconda moglie di Guazzaloca, Milena).
La sua famiglia. Suo padre e le sue tre mogli, lei e i suoi tre fratelli. Ci aiuti a comporre il puzzle.
«Papà è rimasto vedovo quando io avevo pochi mesi e Giulia 9 anni. Poco dopo, ha conosciuto una persona anche lei vedova, Milena, con due bambini piccoli, Fabio e Vanessa. E si sono sposati. Siamo cresciuti tutti insieme. Ed è stato bellissimo. Poi papà e Milena si sono lasciati, lui ha sposato un’altra donna, ma per me Milena è rimasta ed è ancora oggi la mia mamma e i suoi figli sono i miei fratelli. Mi dispiace solo che nelle occasioni pubbliche non siano riconosciuti come tali, perché nei fatti lo sono: fratelli miei e di Giulia e figli di Giorgio Guazzaloca, anche loro».
Quando si è riavvicinata a suo padre?
«Con la diagnosi della leucemia. Ci siamo ritrovati e da allora non l’ho più mollato. Sono stata accanto a lui fino a che non se n’è andato, il 26 aprile 2017. Gli tenevo la mano e gli facevo ascoltare le sue canzoni del cuore: Vecchio frack e, soprattutto, My Way. È l’ultimo ricordo che ho di lui, struggente e dolcissimo».
E il primo?
«Lui che torna a casa con la mazzetta dei giornali sotto il braccio. Tanti giornali! Papà era un accumulatore di fotografie e un lettore compulsivo di quotidiani. Indro Montanelli e Gianni Brera erano i suoi idoli».
Eppure, con i giornalisti non aveva un rapporto semplicissimo. Non gli piaceva essere criticato.
«È vero, non è stato un rapporto facile. Ma alla fine i giornalisti gli hanno voluto tutti bene».
Un momento che le piacerebbe rivivere con lui?
«Le cene insieme, noi bambini, nei suoi ristoranti del cuore, Biagi e il Diana, cucina super tradizionale».
Bolognesissimi. Quanto ha contato nella vittoria di Guazzaloca la sua bolognesità?
«Ha contato nella misura in cui era intesa come amore per la sua città. Attaccamento alla sua città, dalla quale non si è mai voluto separare. Anche quando gli hanno proposto di candidarsi in Parlamento. Ha sempre detto no. Proprio non gli interessava sconfinare».
Gli avversari politici lo chiamavano, con spregio, «il macellaio». Lui come la prendeva?
«Ci rideva su. L’atteggiamento snob degli avversari politici fu per lui un motivo in più per andare avanti. Diceva: questi non hanno capito dove va il mondo, adesso gli faccio vedere io. La storia gli ha dato ragione».
Oggi c’è una premier donna. A suo padre sarebbe piaciuta una presidente del consiglio? Com’era il suo rapporto con le donne sul lavoro? In giunta ne aveva solo una.
«Non ha mai amato il concetto di quote rosa, ma credeva che le donne dovessero avere più opportunità. Detto questo, scherzava con frasi che oggi non avrebbe mai potuto pronunciare, politicamente scorrette, ma lo faceva con le dirette interessate ridendoci su. E poi diceva: senza le donne questo sarebbe un mondo buio».
Cosa ha significato per lei avere un padre così ingombrante?
«Avere tanti occhi addosso».
Ha mai pensato di fare politica?
«Me l’hanno chiesto, specie dal centrosinistra, ma ho sempre rifiutato sapendo che la richiesta arrivava in virtù del mio cognome e che sarebbe stato difficile affermare la mia identità».
La sinistra, ecco. Ha riabilitato la figura di suo padre, a Bologna gli hanno anche intitolato una piazza. Trova che ci sia dell’ipocrisia?
«Non ne ho vista. Credo che il tempo smussi gli angoli. La sua vittoria è stata una cosa dirompente. La sinistra ha visto aprirsi un vulnus impensabile nella sua città simbolo. Insomma, trovo normale che i riconoscimenti siano arrivati molti anni dopo. E comunque vorrei togliermi un sassolino».
Prego.
«L’ipocrisia l’ho vista invece nell’altra parte politica, nel centrodestra. Quando è stato indagato, un periodo doloroso, è stato lasciato solo da molte persone che stavano con lui in Comune, alcune vicinissime. “Cambiano strada”, mi diceva in quei giorni tremendi. L’accusa di corruzione lo devastò, ma per fortuna alla fine venne archiviato. Le persone che allora cambiavano strada le ho viste ricomparire al suo funerale. Questa è l’ipocrisia. Naturalmente non vale per tutti, ci fu anche chi, come Pier Ferdinando Casini, gli restò sempre accanto».
Suo padre era un civico, ma si candidò sostenuto dal Popolo delle libertà. Però volle tenere i leader nazionali, in particolare Silvio Berlusconi, lontani dalla campagna elettorale. Si narra che quando il Cavaliere mandò a Bologna migliaia di manifesti di appoggio con la sua foto, suo padre li fece nascondere in cantina.
«Tutto vero. Lui non li volle perché pensava che accostare il suo nome a quello di Berlusconi non avrebbe giovato, avrebbe stravolto il messaggio. E Berlusconi, che era un uomo intelligente, capì. Ciò detto, si stavano reciprocamente simpatici, ma niente più. Berlusconi restò fuori anche da tutto il periodo in cui papà amministrò la città».
Ha ancora senso, oggi, parlare di «guazzalochismo»?
«Temo di no. Mio padre e il suo modo di fare politica sono stati figli di un altro tempo, un’altra Bologna, un’altra Italia».