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 2011  giugno 20 Lunedì calendario

Intervista all’onorevole La Ganga

Di questa intervista non conosco né l’autore né la fonte (gda)
INTERVISTA ON. GIUSEPPE LA GANGA − 20 GIUGNO 2011
 
Onorevole, quando si avvicina al Psi, quando si iscrive al Partito e come matura la sua formazione politica?
Mi iscrivo nel 1965, a 17 anni, dopo aver frequentato per quasi un anno la commissione scuola del Psi di Torino. Io ero presidente del circolo degli studenti del liceo D’Azeglio, il liceo della borghesia progressista torinese. Era frequentato dal figlio di Bobbio, dai figli dei capi della Resistenza, i figli di Giorgio Montalenti, di Plinio Pinna Pintor, di Primo Levi, di Pistoi, che erano tutti i miei compagni di scuola. All’epoca c’erano i primi movimenti, si parlava di riforma della scuola; si discuteva di un disegno di legge di riforma del ministro Gui, il 2.314. Dal 1964 frequentavo la commissione scuola del Psi.  Tristano Codignola era l’ispiratore nazionale, ma a Torino vi partecipavano altre persone di spicco, come Carlo Ottino, docente universitario, poi la sorella di Giorgio Bocca, Anna, che era professoressa, Clara Bovero, una vecchia dirigente comunista passata al Psi insieme a Giolitti, Graziella Nesi. Insomma c’era un bel gruppo, molto formativo. Mentre frequentavo il Psi ero corteggiato anche dai giovani repubblicani, il cui segretario nazionale avevo conosciuto durante gli incontri studenteschi nazionali a cui partecipavo. Avevo una grande stima e ho sempre mantenuto una grande ammirazione per Ugo La Malfa.
Un giorno un dirigente della federazione giovanile socialista mi incontra e mi sollecita a iscrivermi: «Abbiamo bisogno, c’è un congresso alle porte, iscriviti», e io mi trovai iscritto. Precisai: «Sì, ma guarda che io non sono così di sinistra come tanti di voi». Torino era stata fino al 1964 la roccaforte dei «carristi», che fondarono il Psiup, e fra i giovani i più moderati erano lombardiani. La tradizione riformista turatiana era finita con Saragat. Molti dei giovani che conobbi in quel periodo finirono rapidamente chi nel Psiup, chi nei movimenti nascenti. Io mi consideravo uno di sinistra democratica, per usare il linguaggio di allora, leggevo «Il Mondo», amavo Pannunzio, ammiravo Bobbio, insomma ero un socialista liberale, rosselliano. Turatiano lo diventai poi per influsso di Craxi. D’altra parte Torino non è mai stata una città turatiana, è sempre stata una città più comunista o azionista.
Comunque, mi iscrivo. L’esperienza comincia subito a interessarmi: allora le federazioni giovanili non erano né attivissime, né affollate, però quelle presenti erano tutte persone intelligenti, con cui si discuteva. Divento responsabile prima degli studenti medi, poi degli studenti universitari, infine divento segretario provinciale. Infine nel 1968, al congresso, entro nel Comitato centrale dei giovani socialisti in rappresentanza della corrente minoritaria di Giolitti, che – pensate un po’ – in un comitato centrale di un centinaio di persone aveva solo tre presenze: io per il Piemonte, Agostino Saccà per Roma, Beppe Scanni per la Calabria. Quello fu il mio primo incarico nazionale.
Poi nel 1970 succede quello che raccontato oggi appare fantascientifico: il segretario regionale del Psi di allora mi vuol parlare. Mi disse: «Sembri un ragazzo a posto, in gamba: abbiamo pensato di farti fare un’esperienza come consigliere comunale a Rivoli». Avevano immaginato che io potessi così farmi le ossa. Per cui a 21 anni fui messo in lista per il consiglio comunale di Rivoli, dove non avevo mai messo piede. In compenso in un mese di campagna elettorale recuperai, girai tutta la città, facendo condominio per condominio, e fui miracolosamente eletto. E lì iniziò un’esperienza non più solo di partito, ma un’esperienza amministrativa che considero molto formativa: perché misurarsi con la concretezza dei problemi obbliga soprattutto i giovani, che vivono di astrattezze, di ideologie, al confronto con la realtà. All’epoca c’era molta teoria, molta accademia, e invece tu ti trovi di colpo buttato in un posto che era uno degli epicentri delle contraddizioni e dell’esplosione industriale e demografica dell’area torinese. Rivoli all’epoca era un comune di 40 mila abitanti, e di questi 20 mila erano senza fognature nel senso letterale del termine, perché la città era cresciuta troppo in fretta. Insomma, un posto proprio di frontiera.
 
A Rivoli v’erano anche le «coree», quei conglomerati di case e baracche costruiti male e in fretta e furia?
No, non erano abusive, solo che non facevano in tempo a seguire la dinamica dello sviluppo, anche perché le finanze di quei comuni erano esplose. Se tu con un bilancio di un comune di 20 mila abitanti ne devi in realtà servire 40 mila, di cui 20 mila bisognosi di tutto, perché gli devi fare anche le fogne, è chiaro che ti salta qualsiasi programmazione. Quindi fu un’esperienza assolutamente formativa, che io considero tuttora uno degli snodi della mia vita politica. E lì feci il capo gruppo, bellissimo incarico che rifeci vent’anni dopo alla Camera. Poi a un certo punto mi fecero entrare in giunta, mi diedero l’incarico del Commercio e della Polizia urbana. Ottima esperienza quella dei vigili urbani. Dotammo il comune di moto Guzzi. Erano i primi vigili con questo modello nell’area torinese – parliamo degli anni Settanta.
In seguito feci l’assessore alle Finanze. A un certo punto, nel 1976, ci fu l’elezione al Parlamento del segretario provinciale di allora e si cercava un segretario di federazione. Le correnti prevalenti a Torino erano due: i demartiniani, all’interno dei quali c’erano anche i giolittiani, e i manciniani, che a Torino erano la formazione politica che rappresentava in parte l’immigrazione meridionale. Infine c’era la sinistra, che faceva capo ad un personaggio tuttora noto, Nerio Nesi, che ha fatto tutta la vita il banchiere, salvo, in tarda età, una breve esperienza parlamentare e di governo (con Rifondazione comunista!). Nel 1976 c’era difficoltà a trovare un segretario che andasse bene un po’ a tutti. Io ero l’unico membro giolittiano del direttivo di federazione (41 membri: allora non c’era ancora l’ipertrofia che poi caratterizzerà gli organi di partito nella loro fase di maggiore difficoltà). Ero giovane, ma avevo l’imponenza fisica e la barba che mi invecchiavano un po’, ero contrattista universitario e segretario del Club Turati. Avevo insomma una serie di caratteristiche che mi rendevano “papabile”. Per farla breve, un bel giorno vennero a dirmi: «Senti, avremmo pensato che tu potresti fare il segretario provinciale», e io nel luglio del 1976, quindici giorni prima del Midas, divento segretario provinciale del Psi, eletto all’unanimità.
 
Quindi gli equilibri interni non erano ancora cambiati a livello locale?
No. Ero della corrente demartiniana, e però gradito anche agli altri perché abbastanza neutrale. Poi succede il Midas. Lì andai anch’io, pur non essendo nel Comitato centrale (mi pare fossi supplente). Andai per curiosità, interesse, pubbliche relazioni, ed era la prima volta che partecipavo a riunioni di un così grande pathos.
 
 
Ne sono successe di cose in quell’occasione, no?
Ricordo la riunione della corrente demartiniana in cui i maggiorenti comunicano a De Martino che è il momento di farsi da parte. Non fu una riunioncina semplice, mi rimase impressa nella memoria; il più sorprendente fu Paolo Vittorelli, che era legatissimo a De Martino, e che per non pronunciarsi assunse la presidenza della riunione dando lui la parola ai vari capi. Quando alla fine l’esito apparve segnato, allora si pronunciò in conformità agli orientamenti della maggioranza. Piccolo espediente che un uomo di esperienza come lui aveva utilizzato e che poi nella vita mi servì in altre occasioni.
 
Passiamo a Craxi; quando lo aveva incontrato per la prima volta?
Lo avevo visto varie volte in riunioni di partito, ma non avevo alcun rapporto particolare con lui, e non ne ho nessuno fino all’autunno del 1976. Lui in quel periodo era appena arrivato alla segreteria e tutti gli pronosticavano vita breve, perché in sostanza era stato scelto per ragioni non dissimili da quelle per cui ero stato scelto io, cioè il segretario della corrente più piccola. Nel conflitto tra Manca, Signorile, i manciniani, lui era zona neutra. E invece, diventato segretario, il primo obiettivo che si pone è quello di radicare la corrente autonomista nel partito, e quindi intensifica i rapporti con la periferia. E un bel giorno mi sento chiamare al telefono da Enza, sua storica segretaria, quella di Piazza Duomo. «Bettino avrebbe piacere di incontrarti, vieni a trovarlo». E io vado in Piazza Duomo. Rimango colpito da questo ufficio pieno di cimeli, di cose molto eterogenee, frutto di viaggi vari, frutto di questa sua sterminata curiosità, e anche di una certa attitudine a raccattare di tutto. Trovava cose rare o curiose nelle bancarelle, le prendeva, le sistemava provvisoriamente. Tutto accatastato: cimeli, stampe, armi d’epoca, quadri, libri, busti in bronzo di Nenni, financo copie in gesso della mano di Garibaldi.
 
Cioè, una sorta di Wundercammer
Sì. Testimoniava su molti aspetti della sua personalità: la curiosità, la visione internazionale delle cose, molto diversa dal provincialismo dei leader socialisti dei vent’anni precedenti. Nasce fra noi una simpatia prima che politica, umana. Eravamo entrambi «terroni del nord», cioè entrambi figli di un siciliano e di una donna nordica – la madre di Bettino milanese, mia madre piemontese – nati lui a Milano, io a Torino. Radicati nel Nord, eppure con un forte legame con la terra di origine. Per di più venivamo da due comuni vicini sui Monti Nebrodi, a metà tra Palermo e Messina. Insomma questa comune origine e qualche ricordo condiviso creano una simpatia. Lui era timido, e il suo atteggiamento brusco era l’altra faccia della timidezza. Iniziamo una collaborazione che poi è durata vent’anni. Lui aveva un cattivo carattere non c’è dubbio, ma era anche affettuoso e delicato.
Cambia nel corso degli anni Ottanta il suo rapporto con Craxi?
A Craxi devo molto. Avevo una mia formazione politica, figlia delle tradizioni democratiche di Torino. Ma Turati e il riformismo padano li conosco e apprezzo grazie a lui. Da lui ho avuto un sostegno e un’amicizia che nel corso di tutta la carriera politica mi hanno spesso aiutato. Intendiamoci, lui aveva due categorie di dirigenti: quelli che avevano un ruolo nello staff e quelli che avevano un radicamento proprio, di cui lui prendeva atto. Io appartenevo alla seconda categoria. Per far degli esempi, De Michelis, io, Paris dell’Unto, Giulio Di Donato, Salvo Andò appartenevano a questo secondo gruppo; poi c’era lo staff: Martelli, Intini, Amato, Acquaviva, che non avevano radicamento periferico, ma funzioni importanti per le loro qualità, la loro preparazione. Lui riusciva a combinare bene le due forme di selezione dei dirigenti.
 
Dopo il Midas, negli anni Ottanta, a Torino, com’era la situazione delle correnti? Qual era la divisione?
La riorganizzazione fu accelerata dalla mia segreteria. Fra il 1976 e il 1979 (quando divenni deputato) gli equilibri interni cambiarono nettamente. La corrente autonomista, da esigua minoranza, divenne quella più forte e anche più giovane. Naturalmente a spese di altre realtà e annullando rendite di posizione che duravano da molto. Il vecchio capo dei pochi autonomisti si sentiva minacciato dal nuovo corso. Venne a Torino Formica (che in quel periodo si occupava di organizzazione di corrente) e riunì giovani e vecchi, dicendo che la strada del rinnovamento era quella che stavamo percorrendo. «Chi ci sta, ci sta. Chi non ci sta, non ci sta». Concluse con il suo inconfondibile linguaggio. All’inizio del 1979 ci fu una congiura di tutte le altre correnti contro la nostra, perché, partendo da 1 su 41, un congresso dopo l’altro stavamo avvicinandoci alla maggioranza assoluta. Poco prima delle elezioni politiche del 1979 tutte le correnti si coalizzarono per mettere in minoranza me e la corrente craxiana, che aveva la maggioranza relativa ma non quella assoluta. Provvidenzialmente ci fu lo scioglimento anticipato delle Camere, quindi io salutai la compagnia e andai a lavorare a Roma: avevo 31 anni. Allora non c’era la lista bloccata, ci volevano i voti, e io mi ricordo che feci una campagna elettorale molto difficile. Riuscii a essere il primo degli eletti perché l’elettorato socialista presumo avesse trovato in me un rappresentante del «nuovo corso». Da parlamentare continuo questa espansione della corrente autonomista.
 
Come è stato, invece, il rapporto con la giunta Novelli?
È stato buono fino al 1983. Nel 1975 Pci e Psi, dopo aver vinto in tutti i comuni della cintura nel 1970, si affermarono anche a Torino, in provincia e in regione. Il grande, impetuoso sviluppo aveva determinato profonde trasformazioni e tensioni sociali. Le giunte di sinistra si pongono il compito di dotare la città di infrastrutture adeguate e di ricucire il tessuto sociale della città, quella che Novelli chiamava «la aggregazione». Nascono allora una serie di progetti che ancora oggi sono vitali. Il nuovo piano dei trasporti punta a un sistema reticolare anziché a un sistema stellare, per distribuire i benefici del trasporto su tutto il territorio in modo equilibrato; si individuano linee di metropolitana diverse da quelle precedenti, così da dotare il territorio di infrastrutture e non da subirne le conseguenze a posteriori. Una grande espansione hanno i servizi sociali particolarmente di quartiere, e la riqualificazione delle periferie. Questo avviene per i primi 5-6 anni delle giunte di sinistra. Poi inizia una contraddizione politica e scoppia uno scandalo che, legati insieme, producono una deflagrazione. I dissensi politici riguardano il fatto che a un certo punto, la posizione dei socialisti diverge da quella dei comunisti sulle questioni dello sviluppo. Fronteggiata l’emergenza, creati i servizi sociali, gli asili, gli interventi per gli emarginati, la nostra tesi era che bisognava pensare allo sviluppo futuro della città: quindi grandi investimenti per le infrastrutture, una politica urbanistica meno rigidamente vincolistica, per attirare nuovi insediamenti, maggiore articolazione del tessuto produttivo, per non subire solo il condizionamento dell’industria dominante. Rispetto a questo non tanto Novelli in sé, ma Novelli come espressione di una vecchia cultura comunista resistono impavidamente. All’epoca si doveva fare l’autostrada della Val di Susa e loro erano critici, se non ostili; si dovevano fare altri raccordi autostradali, le tangenziali, e molto altro. Erano sempre contrari, critici, frenanti, ridimensionanti: se devi fare un tunnel, lo fai piccolo, anziché grosso, senza rendersi conto che se lo fai piccolo, è meglio non farlo, perché diventa una spesa semi inutile.
Insomma questa cultura si scontra con quella socialista che nel frattempo aveva avviato il percorso della modernizzazione, del rinnovamento, dell’apertura a ceti sociali diversi da quelli tradizionali, quindi il mix tra esigenze locali e cultura generale determinano un conflitto. Nel corso di questa dialettica, che non aveva ancora portato a nessuna rottura e che probabilmente non avrebbe determinato una rottura così drastica, scoppia il famoso caso Zampini[1] questo andrebbe studiato perché è il primo caso di scandalo politico in cui l’uso delle intercettazioni è determinante. Ore e ore, centinaia di ore di intercettazioni che finiscono sui giornali. Lo shock fu enorme, anche per il linguaggio goliardico di molti degli intercettati. Di fatti concretamente corruttivi, di denaro girato, alla fin fine sopravvisse poco.
 
Zampini aveva un’azienda vicina alla Fiat?
Era un giovane ambizioso, trafficava, aveva una piccola aziendina sua, faceva attività collaterali, era fornitore del comune e della regione. Diventa amico di un po’ di amministratori e si pone l’obiettivo di realizzare qualcosa di importante, magari in partnership con la Fiat (mito e speranza di tanti!). Questo coltivar relazioni per telefono, per di più con un linguaggio assai informale, potete immaginare che cosa provoca. Fatti veri e propri, pochi; intenzioni e progetti ambiziosi molti.
 
Quali partiti sono interessati? Tutti quelli nella giunta?
No, anche l’opposizione: vengono arrestati il capo gruppo del Pci, ma anche il capo gruppo della Dc e il suo vice, due ottime persone che hanno poi fatto una carriera brillantissima fuori dalla politica: perché uno è Claudio Artusi, attuale top manager di una società, e l’altro è Beppe Gatti, in seguito direttore dell’Energia del ministero dell’Industria, l’uomo più brillante della cordata di Donat-Cattin.
 
Ma coinvolge soprattutto il Partito socialista e il Partito comunista?
Coinvolge soprattutto il Partito socialista e il Partito comunista, ed è l’occasione per un regolamento di conti, perché dentro il Pci sono coinvolti soprattutto i miglioristi, cioè quelli che dialogavano con il Psi; e nel Psi è coinvolto il vicesindaco e alcuni assessori. Dopo un po’ coinvolgono, di striscio, anche me.
 
Prima però il partito manda lei, Amato e Mario Didò come commissari.
Esatto. Quindici giorni dopo io vengo tirato in ballo perché uno degli indagati dice: «Sì, è vero, io mi sono fatto dare un contributo, ma poi l’ho portato a…» Questa vicenda giudiziaria, in sé esile, si trascina per otto anni, dura dal 1983 al 1991; caratterizza e condiziona il mio lavoro di quegli anni. Ed è ciò che mi rende esperto dei meccanismi dello scontro politico attraverso le vicende giudiziarie, quando poi nel 1992 esplode tutto.
 
A Torino il Psi che rapporti aveva con la magistratura locale?
Né buoni, né cattivi. All’epoca non c’era questa esasperata attenzione mediatica e politica, i giudici erano persone che nessuno conosceva.
 
Violante e Caselli erano già attivi?
E lì c’è un capitolo che bisognerebbe approfondire. Tutto il gruppo di Magistratura democratica era molto attivo, in posizione però abbastanza eterodossa rispetto al Pci, tanto è vero che loro facevano le riunioni al Club Turati, di cui io ero segretario. Magistratura democratica allora aveva fra i suoi principali animatori personaggi di cultura e orientamento più socialista o azionista che comunista, perché c’era tutto il gruppo del «Ponte», gli allievi di Calamandrei, Marco Ramat, che era Pretore a Firenze. Io li conobbi tutti: Caselli, Violante, Livio Pepino, Maurizio Laudi, Generoso Petrella, Libero Mancuso. Questi e tanti altri frequentavano la sede del Turati di Piazza Carignano. Talora Magistratura democratica organizzava convegni e iniziative in collaborazione con noi, senza un rapporto istituzionale.
Molti anni dopo si scoprì che il Pci aveva scelto di «infiltrare» dentro alcuni corpi dello Stato – polizia, magistratura, carabinieri – persone vicine, che ne garantissero un uso non di parte, o un uso non autoritario. Non dimentichiamo che negli anni Cinquanta, la saldatura tra polizia, carabinieri, magistratura, determinava quello che veniva chiamato «blocco d’ordine». I socialisti sono sempre stati un po’ leggeri, superficiali, mentre il Pci, forte delle sue origini ideologiche, si è sempre dimostrato molto più attento a questi aspetti. Insomma sotto i nostri occhi Magistratura democratica, che era un’ organizzazione free della sinistra, fatta di liberi pensatori, gradualmente diventa organica o di fatto organica al Pci, e gli uomini che fanno questa operazione sono soprattutto Violante e Caselli. Ancor più Violante, perché Caselli sceglie di mantenere un profilo giudiziario, mentre Violante si dà rapidamente alla vita politica. E l’interlocutore del Pci è Pecchioli, un uomo di grande valore, legatissimo a Berlinguer, ma contemporaneamente figlio della Resistenza; era uomo di apparato, specialista in problemi «delicati». Persona che ho conosciuto, intelligente e anche amabile, ma con degli occhi azzurri glaciali, che erano leggermente inquietanti. Lui alleva questi giovani magistrati e Violante, di fatto, diventa poi il suo erede anche nella responsabilità dell’Ufficio problemi dello Stato, che era l’Ufficio che gestiva tutte le «materie delicate».
 
Ma quello scandalo del 1983, si può leggere come un’anticipazione del 1992? Ci fu accanimento in quel caso?
Fu una cosa anche quella molto mirata, molto spregiudicata. Spregiudicata apparve soprattutto per l’uso dei mass media, perché all’epoca si trattò di una novità assoluta.
 
C’era avversione per i socialisti autonomisti?
Certamente esisteva un odio per la modernizzazione che i socialisti cercavano di imporre alla sinistra. Non c’è alcun dubbio, tanto che in qualche modo si rivolgeva anche contro i «miglioristi», che nel Pci riconoscevano le nostre ragioni. Era l’embrione di una posizione che adesso definiremmo «giustizialista». Mi colpì l’uso dei media, che nel nome della verità e della giustizia ridavano voce all’antipolitica. C’era tutti i giorni su «Stampa Sera» – allora usciva ancora il quotidiano del pomeriggio – la trascrizione delle telefonate: potete immaginare la curiosità con cui tutti leggevano attratti dal gergo goliardico, dai soprannomi, da qualche aspetto pruriginoso. La componente penale era marginale rispetto a quella di costume. Ma il danno fu incalcolabile: la politica vista dal buco della serratura, la modernizzazione vista come corruzione. Fu allora che Fassino parlò di mutazione genetica, a proposito del nuovo corso socialista.
 
Novelli che ruolo ha e come gestisce la crisi?
Non lo ammetterà mai, neanche sotto tortura, ma commette un errore politico rilevante. Gli segnalano che ci sono cose poco chiare intorno a una vicenda amministrativa. In precedenza a Torino, come in molte altre città, situazioni simili venivano in genere risolte «in via breve»: il sindaco chiamava l’interessato e gli diceva: «Senti, c’è questa cosa che non va, ti consiglio di dimetterti, e il caso si chiude qua». Naturalmente questo non piace ai giustizialisti. E così Novelli, a fronte di questa segnalazione, dice: «Andate in Procura», e «l’andate in Procura» determina effetti incalcolabili. Se anche l’avesse detto per togliersi di torno un importuno e non per un preciso calcolo politico, in ogni caso rinunciando ad affrontare la questione innescò un terremoto.
 
Anche perché poi il Psi e il Pci alle amministrative del 1985 non vanno bene.
La situazione nel 1985 vede Pci e Psi già su fronti opposti, perché quando scoppia lo scandalo i socialisti decidono di mantenere il sostegno a Novelli, ma uscendo dalla giunta e dando un appoggio esterno. Fassino, che era segretario provinciale, ancora adesso imputa a una diabolica abilità nostra quel che successe dopo. In realtà noi sostenevamo la giunta dall’esterno, tenendoci implicitamente le mani libere. D’altra parte la tensione era alta e non si capiva fin dove sarebbero arrivate le inchieste. Quindi star fuori dalla giunta sembrava al momento la cosa più opportuna. Novelli e il Pci proseguono a governare in condizioni di crescente difficoltà, finché per ragioni diverse da quelle giudiziarie insorgono ulteriori contrasti sulla politica urbanistica che già da tempo covavano. Alla fine de 1984, un anno e mezzo dopo, Novelli finisce in minoranza anche per la defezione di due consiglieri Pci. Prima delle elezioni del 1985 nasce una nuova giunta, con un sindaco socialista, Giorgio Cardetti, una giunta laica, e l’appoggio esterno della Dc. La «giunta dei 100 giorni» avvia una serie di cose importanti, dando il segnale di voler rimettere in moto la città: nuovo piano regolatore, una serie di trasformazioni di aree industriali dismesse, la metropolitana automatica, il passante ferroviario. Sono l’embrione programmatico delle giunte di Chiamparino. Naturalmente anche questo non viene riconosciuto, ma è assolutamente e documentatamente vero, perché le giunte di pentapartito nate da quella svolta affidano a Cagnardi e a Gregotti il Piano regolatore attualmente vigente, deliberano con le ferrovie gli accordi per il passante ferroviario, che è ciò che ha trasformato la città e avviano il progetto di riutilizzo delle aree industriali dismesse. In sostanza le trasformazioni della Torino di oggi sono figlie di quelle decisioni che con il Pci di allora non si potevano assumere.
 
Lei si occupa in quegli anni della riforma degli Enti locali?
In quel periodo entro nella Direzione del Psi, e divento subito responsabile degli Enti locali sostituendo Aniasi e il suo braccio destro Bassanini.
 
Che significava occuparsi delle Autonomie locali?
Era essere una sorta di ministro dell’Interno del partito, perché il Psi, più del Pci, aveva il suo impianto organizzativo prevalentemente negli amministratori: quindi chi governava gli amministratori governava il partito. C’era anche un responsabile dell’Organizzazione, che faceva fatica ad esercitare un’influenza forte. Si occupava di tesseramento e poco più. Di fatto il governo dei quadri periferici del partito l’aveva il responsabile degli Enti locali. E Craxi lo sapeva benissimo, tant’è vero che mi utilizzava come «l’uomo delle crisi». Nell’arco di 10 anni sono andato a fare il commissario in Calabria, a Bari, a Roma, a Firenze, a Treviso, in Friuli, dovunque ci fosse una grana complicata, andavo e stavo il tempo necessario a sistemare le cose. Comunque, tornando a Torino, nel 1985 c’era già una giunta di pentapartito che durò fino al 1992.
 
Però in quegli anni il Psi cala dal 14 all’11%, e il PCI dal 39 al 35%.
È chiaro che lo scandalo costa, ma costa più o meno a tutti e tre i grandi partiti. Il Pri ha un boom elettorale, ma il pentapartito ha la maggioranza. Il Psi mantiene un numero di consiglieri tale da rimanere centrale e decisivo negli equilibri politici.
 
Perché lei, in quel periodo, nel progetto sulla riforma della autonomie vuole inserire anche una normativa legata agli appalti, alle forniture, come si legge nei suoi articoli?
Tenete conto che noi adesso parliamo after Christ, ma all’epoca non c’era la nuova legge sull’ordinamento degli Enti locali, né esisteva una separazione fra politica e amministrazione (pensate che le licenze edilizie le firmava l’assessore!). C’era assoluto bisogno di qualche meccanismo che mettesse al riparo la politica. Le procedure amministrative a volte mettevano a rischio la politica: non solo quando essa aveva colpa perché cadeva in tentazione, ma anche quando essa colpa non aveva ed esercitava soltanto una sacrosanta discrezionalità. Oggi è tutta roba superata, perché le innovazioni successive – a cominciare da quella basilare che il potere di firma passa dai politici ai funzionari – cambiano radicalmente lo scenario. Oggi gli appalti li assegnano commissioni tecniche, il politico non ha alcun ruolo se non quello della moral suasion. Una delle conseguenze, una delle tante, su cui varrebbe la pena di meditare, è che la discrezionalità politico-amministrativa pressoché scompare, e questo non è necessariamente un bene: perché è chiaro che la discrezionalità può essere usata a fin di male, ma questo è il classico caso in cui butti via insieme all’acqua sporca anche il bambino.
 
I comitati di affari diventano ancora più rilevanti quindi?
E soprattutto diventano ancora più irresponsabili, perché sono composti da persone che nessuno conosce, che nessuno elegge, nessuno vota.
 
Come reagite allo scandalo, dal punto di vista dell’organizzazione di partito?
All’epoca eravamo molto ben strutturati: avevamo 20 mila iscritti, un radicamento rilevante, la maggioranza della Uil, una quota della Cgil, eravamo presenti nella Cisl (all’epoca Torino era una città operaia ancora significativa, quindi quando parlo dei sindacati non mi riferisco a ciò che sono adesso, ma a quello che erano allora). Avevamo 200 sezioni in provincia di Torino, avevamo periodici, avevamo l’Aics che rappresentava il mondo dello sport e della cultura popolare, centinaia di circoli, bocciofile, polisportive, piccole iniziative teatrali. Era un mondo, e un mondo è in grado di fronteggiare anche una crisi. I partiti fragili e poco insediati, come quelli di oggi, con una tempesta di quel genere si sarebbero dissolti. Invece all’epoca tenemmo. Io stesso fui coinvolto nello scandalo, ma tutto sommato alle elezioni del 1983, due mesi dopo lo scandalo, prendo 500 voti in più di 4 anni prima: 24 mila voti nel 1979, quasi 25 mila nel 1983. Questo per dire che il danno c’è, ma non è rilevantissimo. Da lì purtroppo però inizia una via crucis, perché lo scandalo Zampini diventa il simbolo del malaffare, insieme al caso Teardo in Liguria. Inizia lì l’idea dei socialisti epicentro di tutte le attività corruttive. Deformazione della realtà certo, ma che si trascina per tutti gli anni Ottanta, fino a riesplodere nel 1992.
 
Ma il voto socialista cambia anche per questo scandalo? Cioè, quali consensi, quali ceti intercettate negli anni Ottanta, a Torino? Il Pci fa “il pieno” tra gli operai?
Il Psi aveva una composizione sociale non dissimile da quella della generalità della popolazione, cioè era il classico partito interclassista, rappresentativo della società ma senza insediamenti prevalenti. Non avevamo, come la Dc e il Pci, uno squilibrio di rappresentanza. Nella Dc lo squilibrio era a favore di donne, mondo agricolo, certi ambienti del terziario; nel Pci era la realtà della fabbrica. Il messaggio di modernizzazione che lanciammo («Meriti e bisogni», 1982) si rivolgeva a tutto il paese. E come tale fu recepito. In quegli anni chi voleva muovere qualcosa guardava a noi come quelli più dinamici, più aperti alle innovazioni; a Torino come dappertutto.
 
E la Fiat come guarda al Psi?
All’inizio con molta sufficienza, perché non avevamo abbastanza forza amministrativa per condizionare le decisioni locali, e non possedevamo abbastanza insediamento sociale per condizionare le vicende sindacali. Quindi la Fiat, per molto tempo, mantiene i rapporti principali con i due maggiori partiti. Non dimenticate che nel 1979 Umberto Agnelli si candida al Senato con la Dc, suo fratello coltiva Spadolini e il Pri, e per il resto l’azienda tiene i rapporti con i due maggiori partiti. Poi via via aumenta la curiosità dell’avvocato Agnelli verso Craxi, per varie ragioni, e quindi si aprono canali diversi. Ma non c’è mai stato comunque un rapporto troppo stretto. Io mi consideravo, insieme a uno molto più importante di me come Carlo Donat-Cattin, il politico torinese più indipendente dalla Fiat in tutta la storia di questo periodo. Questo nonostante che contribuissero finanziariamente alla nostra attività, perché poi solo una banale volgarizzazione stabilisce che se ti finanziano sei servo, se non ti finanziano sei indipendente. Magari fosse così semplice! Mentre invece talora, si può essere indipendenti, pur raccogliendo dei finanziamenti, o si può essere servi gratis.
 
Quindi ricevevate finanziamenti dalla Fiat?
Dalla Fiat e non solo dalla Fiat, naturalmente.
 
Anche da altre grandi aziende?
Sì. Il segreto per avere finanziamenti senza perdere l’indipendenza, è di averne tanti e non troppo grandi, perché così nessuno è in grado di essere decisivo.
 
Invece, quando si afferma Romiti all’interno dell’organigramma della Fiat, cambia qualcosa? Il rapporto con lui era più complicato?
Io con Romiti avevo un rapporto difficilissimo. Intanto Romiti rappresentava una novità nel mondo Fiat perché non proveniva dal gruppo ma da un management al confine tra pubblico e privato, quindi molto più bravo a trafficare con i ministeri, a ottenere contributi, a fare lobbing, piuttosto che non a produrre automobili. Romiti era l’uomo che gestiva tutte queste cose; non a caso poi si trovò in molti guai negli anni Novanta, proprio perché era un crocevia. E proprio per questo lui era molto più romano che torinese e amava avere una corte di persone abbastanza disponibili. Io non ne facevo parte, avevo buoni rapporti ma ero indipendente. Ci fu uno scontro che all’epoca fu significativo, la costruzione dello stadio delle Alpi per i mondiali di calcio del 1990, dove loro a tutti i costi, volevano che Fiat Engineering costruisse la struttura. Quando lo stadio fu assegnato a un’altra impresa ci fu una forte tensione. Erano gli anni 1987-1988. Praticamente la «Stampa» per due anni non parlò di me. Come dicono in Sicilia, «fatti la fama, e cùrcati»: siccome si diceva che io comandavo nel Partito socialista, si riteneva che qualunque cosa venisse decisa dal sottoscritto.
 
In effetti, non poteva non esserne al corrente.
Ricordo una lite telefonica con Carlo De Benedetti, quando il comune di Torino fa una gara d’appalto per il centralino del comune e viene aggiudicata all’Italtel di Marisa Bellisario, vicina al Partito socialista. De Benedetti, avendo anche lui un carattere tutt’altro che docile, era evidentemente inviperito o almeno così sembrava: «Ci avete fatto fuori!» Io caddi letteralmente dalle nuvole, perché ignoravo del tutto la questione. Però purtroppo all’epoca si riteneva che ci fosse una sorta di imbuto: cioè che i leader politici fossero occhiutamente presenti su ogni decisione. Questo è stato vero per qualcuno e non per nobili motivi, ma non valeva affatto per tutti.
 
Come giudica la gestione di Craxi del partito negli anni Ottanta?
Craxi ha sempre pensato che l’audacia e l’innovazione del contenuto politico e la brillantezza della strategia avrebbero trascinato l’intendenza. Cioè lui per molto tempo, ha considerato appunto la struttura periferica del Psi come una palla al piede. D’altra parte, pur nel rinnovamento, molto personale politico amministrativo era lo stesso del periodo precedente. Si era adeguato, anche perché la nuova vivacità della politica nazionale offriva maggiori opportunità anche in periferia. Non risulta certo da documenti o da discorsi, ma era evidente che per Craxi la periferia poteva solo affiancare o almeno non ostacolare il nuovo corso. E questo ha inciso non poco nella crisi finale del Psi, perché alcune forme degenerative della periferia hanno aggravato i problemi, e hanno reso più vulnerabile il partito nel momento decisivo.
 
Vorrei approfondire un aspetto che emerge da alcuni articoli dei giornali, sul rapporto con il Pri torinese: Biffi Gentili come arriva alla nomina di vice sindaco?
Biffi Gentili era repubblicano; per un lungo periodo rimane fuori dalla politica e ha simpatie più di destra che di centro. Poi aderisce al Partito repubblicano e per qualche anno è uno dei più stretti collaboratori di Giorgio La Malfa, anzi è il suo grande elettore alle elezioni politiche. Poi come spesso accade in quei piccoli partiti monocratici, scatta il conflitto tra i Biffi e La Malfa, e loro se ne vanno. Vengono nel Psi, che nel frattempo aveva già inserito nelle sue fila molti ex-repubblicani, a cominciare da Claudio Martelli. Quindi in sostanza era un afflusso di cultura laica non marxista che veniva dentro il Partito socialista.
 
Quindi si può dire che tra fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta esiste un’area laica con ampi vasi comunicanti e con flussi elettorali in movimento?
Come ho già accennato, a Torino dopo lo scandalo il Pri raddoppia i voti, che poi recuperiamo solo in parte. È la conferma di un elettorato contiguo. D’altra parte in tutta Italia la sinistra democratica e modernizzatrice e un elettorato di centro laico e riformista erano naturalmente attratti dal progetto di Craxi. Si parlava di Lib-Lab. Era inevitabile che il partito più grosso attraesse elettori.
 
Biffi Gentili diventa quindi vicesindaco.
Sì nel 1980. I primi anni con Novelli il vicesindaco lo fa un vecchio socialista, che era il mio maestro politico, Sergio Borgogno. Poi lui muore, c’è un breve interregno e nel 1980 con le elezioni amministrative diventa vicesindaco Biffi, che è quello che nel 1983 si dimette per effetto dello scandalo.
 
In definitiva il passaggio d’epoca si ha tra la fine degli anni Settanta e primi anni Ottanta?
Direi che il punto di svolta è all’inizio degli anni Ottanta, anche perché il primo periodo di Craxi è ancora molto incerto.
 
Contro Craxi a Torino c’era Froio, giusto?
Sì, a Torino c’era Froio, il capo della corrente manciniana, che per la verità non era contro Craxi; c’era anche Vittorelli che era l’esponente demartiniano. Come dicevo la conquista del partito avviene nel 1981 al Congresso di Palermo. Lì Craxi ottiene la maggioranza assoluta, e decide di cambiare il nome della corrente da «autonomista» in «riformista», con l’argomentazione che l’autonomia ormai è conquistata, quindi possiamo ritornare tranquillamente al nome di Turati.
 
Lei è anche un organizzatore del consenso sul territorio: le forme di reclutamento cambiano rispetto al passato? Alla metà degli anni Ottanta qual è la situazione?
Diciamo che un po’ si modernizza. Io mi trovo in un partito che passa da 3 mila a 15 mila iscritti; i 12 mila nuovi iscritti sono quasi tutti lavoratori immigrati organizzati dai loro corregionali. Io sono in qualche modo un immigrato, ma non di recente, perché nato a Torino; quindi rappresento un punto di equilibrio tra i vecchi socialisti piemontesi e gli immigrati, perché parlo il piemontese, il siciliano, capisco il calabrese, capisco la mentalità, e riesco nel piccolo capolavoro di trasformare la forza numerica rappresentata da questi nuovi afflussi in qualche cosa di più politico. Di conseguenza il Psi diventa un’organizzazione di massa, dove l’accumulo delle tessere è al servizio di un disegno. Riuscire in questa operazione di radicamento, dando al progetto riformista innovatore una base di massa, lo considero un fatto di un certo rilievo.
 
Mi colpisce, leggendo i suoi articoli, che sembra fiancheggiare i tentativi di autoriforma di Martelli; però allo stesso tempo è un grande organizzatore del consenso nel territorio con le tessere, con le forme tradizionali di fidelizzazione dell’elettorato; tutto questo non è una contraddizione?
Non ho mai creduto che il modello di partito che prospettava Martelli potesse funzionare senza il mantenimento di una rete organizzativa, sia pure ammodernata.
 
Cioè Martelli puntava a un partito autonomo  dal governo.
All’epoca Martelli era coordinatore della segreteria mentre Craxi era Primo ministro. Teorizzare l’autonomia dal governo era per lui un modo di rivendicare uno spazio politico. D’altra parte un partito strutturato, come sostenevo io, è naturaliter autonomo. Solo se sei un partito «leggero» dipendi in tutto da ciò che fai nelle istituzioni. Martelli aveva un’idea sicuramente modernizzante ma anche molto velleitaria dell’organizzazione politica, tutta fatta di comunicazione, di immagine, di apparenza, e poco strutturata. Io ho sempre ritenuto che il radicamento dei partiti nel sociale è condizione fondamentale della loro indipendenza. Se tu abbandoni questo, diventi un fuscello nelle mani delle mode, delle campagne di stampa, degli interessi; se sei radicato al contrario hai la possibilità di reggere un po’ di più. Storicamente è stato dimostrato che è così. Dopo il 1994 solo la Lega nord ha mantenuto e sviluppato un modello di partito radicato. Gli altri hanno tutti puntato in altre direzioni: partiti personali, partiti leggeri. Una delle ragioni del successo della Lega nord consiste proprio nel fatto che ha mantenuto un modello organizzativo tradizionale.
 
Che succede a Torino dal 1987 al 1992? Come cambia la generazione dei politici? Viene eletta una seconda generazione di calabresi?
Nel 1987 io sono sufficientemente forte da iniziare un progetto. Prima si doveva campare, poi, preso il controllo del partito, s’inizia a realizzare un progetto. E c’è un radicale cambiamento di personale politico: il segretario della federazione diventa un ragazzo di 32 anni, Cantore; il segretario regionale diventa Garesio, che ne aveva 34, ed era stato il terzo mio successore alla segreteria del Club Turati, che è sempre stata una fucina di formazione di quadri. Lanciamo donne che prima facevano fatica ad affermarsi: Franca Prest, Carla Spagnuolo, Elda Tessore, che sono poi per anni consigliere comunali e assessori; e cooptiamo alcuni personaggi dell’università e delle professioni. Nel 1985 eleggiamo in consiglio comunale il preside di Architettura, Lorenzo Matteoli, il quale fa prima il consigliere e poi l’assessore allo Sport per gestire i mondiali di calcio del 1990. Nel 1988 utilizziamo per primi in Italia la possibilità di inserire nelle giunte tecnici non eletti e mettiamo a fare l’assessore all’Edilizia l’ing. Vanni Bonadio. Ho già detto che gli amministratori erano l’ossatura del partito. Sostituivano i vecchi funzionari. Avevano tempo (spesso avevano il distacco dal loro lavoro), possedevano strumenti (segreterie, risorse), e il radicamento sociale. Erano i nostri rappresentanti sul territorio. Interpretavano il ruolo talora egregiamente (penso a Tognoli, che fu un valore aggiunto anche rispetto a Craxi), talaltra con eccessi di protagonismo o di disinvoltura. Correvamo il rischio di affidare un marchio in forte crescita ad una rete periferica che non sempre dava garanzie. In altre parole la linea di Craxi e del partito nazionale era gestita, interpretata, applicata in forme discutibili. Cercavamo di controllare e di intervenire. L’indipendenza e l’autonomia socialista, la collaborazione conflittuale con Dc e Pci, l’innovazione istituzionale e politica erano tutte cose decisive per il Psi, ma proprio per questo richiedevano rigore, serietà e coerenza. Io passavo il mio tempo qua e là per l’Italia per sedare liti temerarie, richieste inaccettabili, forzature, gestioni opportunistiche.
 
Era una sorta di supervisore organizzativo?
Craxi mi ha sempre lasciato fare, mi ha dato amplissima autonomia operativa. Se aveva qualcosa da dire, chiamava al telefono e me lo diceva.
 
Svolge un ruolo prefettizio, per certi aspetti.
Sì, naturalmente sempre rispettando le gerarchie. Comunque nel 95 per cento dei casi, o perché se ne infischiava – ma non credo, perché lui era molto attento − o perché evidentemente l’azzeccavo, non ho mai avuto da Craxi sollecitazioni particolari. E ripeto, ero costretto a intervenire proprio per le forme degenerative che assumeva la politica socialista a livello locale: perché quando in un comune di 30 mila abitanti tu riunisci in una stanza i comunisti, nell’altra i democristiani, e, trattando su due fronti dici: «Chi ci dà il sindaco, noi facciamo la maggioranza», quando tu traduci la politica socialista in questo modo, nel breve periodo porti a casa il sindaco, ma fai nascere un odio, un rancore, un’ostilità, che poi abbiamo pagato tutto insieme nel 1992-1994.
 
Avevate il polso che, all’interno del partito, la situazione talvolta stesse degenerando?
Attenzione, io ho fatto riferimento al come veniva interpretata la linea politica, non c’è alcun riferimento a questioni giudiziarie. Queste sono semmai conseguenza di un potere che viene esercitato in modo disinvolto. Io mi occupavo delle degenerazioni politiche, che tra l’altro alla fine degli anni Ottanta portarono a una conseguenza significativa: un numero rilevante di giunte Dc-Pci che nascevano proprio con il pretesto di frenare l’«arroganza» socialista. Ovviamente c’erano ragioni più profonde e strategiche e proprio per questo era inaccettabile che comportamenti periferici offrissero il fianco.
 
Aveva la consapevolezza di quanto accadeva? Aveva il controllo organizzativo? Non si è accorto che in alcune regioni, in alcune aree tracimasse la corruzione?
E come no: infatti passavamo il tempo a commissariare di qua, a intervenire di là. Non era una cosa semplice, perché a differenza di quello che avete sotto gli occhi oggi, cioè partiti di proprietà personale, un tempo anche i partiti con le leadership più forti erano partiti di diritto, con regole condivise e sostanzialmente rispettate. Il leader non cacciava nessuno. Adesso è così, quasi sempre il leader è proprietario del marchio, che concede in franchising a Tizio e glielo può togliere quando vuole.
 
A posteriori, ha mai maturato la consapevolezza che poteva essere fatto di più?
Di più si può sempre fare. Io francamente credo che di più di come si facesse allora per governare dal centro la periferia, nelle condizioni date non si potesse fare. Ripeto, i partiti erano strutturati diversamente. Così come il sistema elettorale. Prendete il caso dei deputati. Nel Psi anche nel momento di massima forza di Craxi, c’erano più di una ventina di deputati che erano della sinistra socialista; nel 1992 Forlani non viene eletto presidente della Repubblica esclusivamente perché i 27 di Signorile, d’accordo con Andreotti, non votano Forlani che infatti non passa per 4 voti. Questo all’apice del potere, quando c’era l’onnipotente Craxi. Pensate a oggi: ma quale leader ha 27 deputati della minoranza interna? Perché? Perché, allora, i partiti erano una cosa seria. Chi aveva radici sul territorio, poteva essere amico o nemico di Craxi, sempre radici aveva, e la sua constituency lo esprimeva e lo faceva eleggere. E questo implicava anche una bella differenza quando il centro interveniva in periferia. «Tu non vai più bene, adesso arriva lui» era una cosa che non potevi né dire, né fare. Bisognava persuadere o costruire maggioranze locali diverse. Insomma era una cosa complessa.
 
A livello di promozione di quadri locali, invece, Craxi riusciva ad avere voce in capitolo?
Ha fatto tanto all’inizio perché tutta la generazione, Salvo Andò, io, per dirne due, poi Canepa, che purtroppo è mancato qualche anno dopo, Paolo Babbini, Bassanini, Spini, Di Donato, è venuta su con lui. In ogni regione c’era qualche giovane su cui lui aveva puntato. Naturalmente poi questo lavoro lo ha lasciato ad altri. Nel 1992 eleggemmo in Parlamento una nuova generazione di giovani, aiutati da noi dirigenti centrali. Alcuni di loro danno vita a un’associazione che era border line tra Craxi e Martelli: lì c’era Garesio, Nencini e una serie di altri trentenni, che avevamo allevato e portato in Parlamento.
 
Come diventò nel 1992 capo gruppo? Chi l’appoggia? Come avviene la sua nomina?
Ecco il 1992 è interessante. Adesso la faccio sorridere: Craxi, aveva un modo di fare strano. I due capi gruppo vanno al governo [Andò e Fabbri] mentre Acquaviva e io, ognuno per i suoi canali, esprimiamo a Craxi il desiderio di fare questa esperienza. Ero stufo di stare agli Enti locali dopo dieci anni di lavoro, e Gennaro aveva anche lui lunghi anni di servizio alla segreteria organizzativa e politica del partito. Quindi, Craxi dice: «Bene», ma poi finisce lì, non è che c’è un’investitura particolarmente forte. E mentre nel Senato la fronda a Craxi non si era ancora organizzata, e quindi Acquaviva viene eletto all’unanimità anzi per acclamazione, alla Camera la fronda a Craxi iniziava a muoversi; Martelli, Signorile, Aniasi organizzano il dissenso, e l’elezione del nuovo capogruppo è una buona occasione per contarsi.
 
Lei che ruolo svolge nella rottura tra i craxiani?
Ma io veramente la subisco, perché essendo candidato a fare il capo gruppo, scopro che una parte del gruppo non mi vota. Sono eletto con il 60 per cento circa dei voti, mentre gli altri si coagulano intorno a un deputato siciliano di lungo corso: Nicola Capria. Anche lui era un craxiano, di origini demartiniane, ma quando gli dicono: «Noi voteremmo per te», lui si lascia votare, consentendo così al dissenso di coagularsi: è la prima volta che si manifesta un dissenso esplicito rispetto a Craxi.
 
Ma c’è un progetto politico in questa fronda o vuole solo sostituire il segretario?
C’è la sensazione che si stia preparando un nubifragio e quindi, come sempre avviene quando si prepara un nubifragio, ognuno cerca di trovarsi la posizione più riparata. Nell’estate del 1992 la crisi giudiziaria non è ancora al massimo, ma è evidente a tutti che la posizione di Craxi, che deve proporre Amato al governo in sua vece, si va indebolendo. Già nel 1991 c’era stata qualche avvisaglia in tal senso.
 
Al Congresso di Bari? Che succede lì? Come si schiera?
A Bari non ci fu una conta. Iniziò una discussione in cui Formica, che era critico ma leale, segnalò i rischi della prosecuzione del pentapartito (ridotto a 4) a guida andreottiana. C’era il problema di come gestire la crisi del Pci−Pds e parecchi speravano che si potesse costruire un’alternativa alla Dc. Discussioni, critiche, malumori, qualche ambizione. Ma nulla di manifestamente organizzato. L’organizzazione del dissenso vera inizia dopo le elezioni politiche del 1992, prima con il dissenso su Forlani presidente della Repubblica, poi con le tensioni per la scelta di Amato e non di Martelli a Primo ministro. L’elezione del nuovo capogruppo è l’occasione giusta per contarsi, per la prima volta in modo esplicito.
 
Perché diventa capo gruppo? Che strategia vi è dietro?
Forse perché in quel momento ero considerato affidabile da Craxi, ma avevo anche un lungo corso come membro della direzione e dell’esecutivo, e infine perché avevo moltissime relazioni: metà dei deputati erano stati prima sindaci, vice sindaci e assessori con cui avevo rapporti da molti anni.
 
Si può dire che lei fosse espressione del partito degli assessori?
Sì in quanto ero il loro interlocutore principale, ma anche no, perché come ho già raccontato ne combattevo gli aspetti degenerativi.
 
Fu un anno terribile? Come fu la gestione di tutti questi deputati, in quel periodo?
Tenga conto che erano tutti impauriti; quindi non è che ci fosse tutta questa vivacità. C’era un grande timore, estrema prudenza, profonda paura. Nel gruppo dirigente socialista, proprio perché avevo fatto l’esperienza del 1983, ero il più consapevole dei rischi che si stavano correndo e anche del modus operandi degli ambienti più politicizzati della magistratura. Molti altri erano completamente vergini a cominciare da Craxi, che aveva un’ingenuità rispetto alle vicende giudiziarie, assolutamente sorprendente. Può essere curioso dirlo, ma è proprio così. Io ricordo che quando nell’autunno si legge sui giornali che la Procura di Milano convoca Nesi e Mancini, tutti si chiedono: «Ma perché?». Vado da Craxi e gli dico: «Guarda Bettino, secondo me, stanno creando le premesse per mandarti un avviso di garanzia», lui si arrabbiò. Quindici–venti giorni, un mese dopo glielo mandano, perché? Perché loro sentivano una serie di dirigenti socialisti che dicevano quel che loro volevano sentirsi dire; cioè che nel Psi non si muoveva foglia che Craxi non volesse e che, quindi, si poteva determinare un passaggio oggettivo di responsabilità da Balzamo a Craxi, che è poi quello che fu asserito. Poi trovarono episodi in cui magari c’era una responsabilità di Craxi più diretta. E quando io dissi questo, Craxi mi guardò un po’ sorpreso, e mi rispose: «Guarda, tu sai bisogna essere personalmente responsabile, e l’unica cosa su cui mi possono colpire è il «Conto protezione», però lì ci sono dietro gli americani e quindi sono tranquillo». Quindici giorni dopo, viene fuori il «Conto protezione», perché non c’è dubbio che lui a un certo punto, fu scaricato dagli ambienti internazionali. Il «Conto protezione», come sapete, non era uno strumento per la politica interna italiana ma di politica internazionale, prevalentemente. Si diceva fossero risorse destinate a sostenere il dissenso all’Est (specie Polonia e Cecoslovacchia) e in generale i partiti socialisti e democratici più deboli nel mondo. Credo che Craxi lavorasse a rafforzare l’influenza e il prestigio internazionale del Psi.
 
Abbiamo parlato del Congresso di Bari. A Bari si parlò dell’accordo del CAF?
L’intervento più critico, come potete leggere negli atti, fu quello di Formica: era a casa sua, si sentiva anche ringalluzzito. Rino era in una fase dinamica, dopo esser stato per anni uno degli uomini d’ordine della corrente di Craxi. A un certo punto diventa invece un elemento di vivacizzazione del dibattito. Effettivamente la situazione del 1991 era molto ingarbugliata, perché la chiave del 1992 sta nel 1991. Il 1991 secondo me, è l’anno decisivo, perché quando cade il Governo Andreotti, Craxi ha in mente di andare alle elezioni; anche perché La Malfa si sottrae e quindi il governo avrebbe avuto la maggioranza risicata. Craxi all’epoca mi diede una sua spiegazione del prolungamento dell’accordo con Andreotti.
Premetto che pubblicamente ho sempre difeso Craxi, anche quando nella fase finale, io non condividevo la posizione che lui teneva. Ricordo che all’ultima Assemblea nazionale in cui si votò, io votai per lui; anche se proprio non ero d’accordo. Però mi sembrava ignobile che, avendo condiviso una parabola, l’ultimo atto, che era poi la scomparsa del Psi, lo facessi tradendo una lunga esperienza. Ma in privato ognuno diceva le sue cose, e io ricordo che appunto gli dissi: «Certo che forse ci converrebbe andare alle elezioni». Lui mi rispose: «Ma sai» – non so se me lo disse perché era tutta la verità o un pezzo della verità, o forse perché sapeva che io pencolavo un po’ per quella tendenza, ma in sostanza, mi disse − «sono venuti da me D’Alema e Veltroni a dirmi di non portarli alle elezioni adesso perché sono nella fase più delicata della loro trasformazione. Mi hanno fatto anche grandi promesse, vogliono entrare nell’Internazionale socialista, pensano che le cose in Italia si possono evolvere positivamente e io, ti devo dire la verità, non mi sono sentito di dirgli di no». Credo che questo sia stato un motivo, non l’unico, ma certo non trascurabile della decisione di non andare al voto.
A questo si aggiungono altri due fattori. Sicuramente l’abilità di Andreotti di coinvolgere, di creare comodità nella gestione dell’esistente. Nel Psi c’è sempre stata una tendenza «governativa», «ministeriale», al di là e prima di Craxi. Andreotti e la DC la sfruttarono. Ma secondo me pesò anche il fatto che Craxi non stava più bene di salute. Nella ricerca storica si tende a sottovalutare l’effetto del privato nel politico, mentre ha la sua importanza. Craxi dopo quell’attacco che ebbe durante le vacanze di Natale del 1990, aveva cominciato a non star bene, e aveva anche subìto una certa mutazione caratteriale; cioè se prima era spregiudicato, ora era diventato più prudente, quasi timoroso.
 
Forse aveva perso anche un po’ di lucidità?
Il diabete influisce sicuramente. Credo comunque che fosse una mutazione caratteriale, indotta anche da circostanze relative alla sua vita privata. Lui era un giocatore di poker, come atteggiamento, e non c’è niente di peggio di un giocatore di poker che ha paura; il giocatore di poker che ha paura perde tutte le mani. Il giocatore di poker, per definizione, vince solo se non ha paura di perdere. Da quando iniziò a star male divenne prudente; questo, insieme alla richiesta del Pds di non affondare il colpo subito, e a una certa comodità nel proseguire ancora per un anno portò alla decisione di temporeggiare…
 
L’intervento di Forlani, invece, che peso ha avuto?
Ma Forlani e Craxi avevano un rapporto solido e amichevole, sicuramente Forlani avrà spinto per la stabilità non c’è dubbio, però non lo considero decisivo.
 
C’era già un’idea di assetto per il sistema dopo il 1992?
Non lo si diceva, però era abbastanza pacifico che si ritenesse Forlani un candidato alla Presidenza della Repubblica, si sapeva già allora che il suo vero avversario sarebbe stato Andreotti, erano i due galli nel pollaio democristiano.
 
I posti erano due, e le persone erano tre, tra l’altro.
Esatto. Però vedere tutto solo in chiave di organigramma mi sembra riduttivo, certo conta ma non era l’unico aspetto. Quindi nel 1991 si decidono le sorti del sistema politico.
 
Craxi lancia ufficialmente l’unità socialista nell’ottobre del 1990.
La lancia in seguito agli eventi, caduta del Muro di Berlino, scioglimento del Partito comunista, e lo fa in accordo con un pezzo del Pci, o Pds.
 
Con chi?
Lui aveva la visita settimanale di Chiaromonte e di Napolitano; Formica teneva i rapporti con Macaluso e con Chiaromonte. Quel mondo a Craxi interessava molto. Una volta mi confidò: «Certo che se Occhetto e D’Alema non si decidono, questi verranno loro nel Psi». Lui, allora, coltivava questa idea, quando lanciò l’unità socialista disse: «o inglobiamo tutto o comunque inglobiamo un pezzo».
 
Quindi era un’idea un po’ annessionista? O era più federativa l’idea che Craxi nutriva dell’unità socialista?
Secondo me non aveva un’idea rigida, come sempre, era pragmatico. Qualcuno dice che aveva una strategia annessionistica. Io penso che se fosse stato possibile fare un accordo con tutto il Pds, lui lo avrebbe preferito e avrebbe potuto assumere una forma federativa; ovvio che in mancanza di questo e con un Pds ostile, gli sarebbe piaciuto annettersi un pezzo di Pds.
 
Aveva fiducia nel nuovo gruppo dirigente del Pds?
No. Io ho partecipato, in quanto all’epoca ero nella segreteria, agli incontri che si tennero con Occhetto, D’Alema e Veltroni. Se ne fecero due o tre in via del Corso. E lui diceva: «Achille è un bravo ragazzo, ma è un pasticcione». Ha sempre avuto per Occhetto un atteggiamento affettuoso, perché risale all’amicizia universitaria, ma l’ha sempre considerato un confusionario. Mentre al contrario considerava D’Alema e Veltroni dei nemici, non sbagliandosi, perché furono quelli che resero impossibile un’operazione che la vecchia guardia comunista tutto sommato stava favorendo. Napolitano e Chiaromonte erano sicuramente su quella linea. Il pensionamento di Natta aveva eliminato un ostacolo, c’era in corso un cantiere.
 
Ma quanto contavano, in definitiva, i miglioristi?
Ma sa i miglioristi avevano poche tessere ma molta autorità, perché erano tutte persone di livello, e poi non dimentichi che erano gli eredi di Amendola, il principale erede di Togliatti; se ci pensa un attimo Amendola coniugava un orientamento socialdemocratico ed una professione di stalinismo a tutta prova.
 
Si può parlare, a pieno titolo, di filosovietismo.
Filosovietismo, ma anche stalinismo in una lunga fase; e poi filosovietismo certo. Quindi era un filone minoritario, ma centrale nella storia del Pci. E sempre per tornare alla fase finale del 1991, c’è un episodio di cui sono testimone oculare che è l’ennesima visita di Chiaromonte a Craxi. Era novembre credo. Io aspettavo il mio turno nell’anticamera, vedo uscire Gerardo, ci salutiamo, due parole, poi io entro. Craxi era in piedi che camminava nervosamente, come spesso faceva in quella sua stanza. La sua grande scrivania era alta così perché c’era una catasta di carte, opuscoli, appunti, giornali, oggetti. Lui girava intorno, avanti e indietro, e mi dice: «Ma sai cosa mi ha detto Gerardo?» – «Cosa ti ha detto?» – «Che hanno fatto una riunione riservata al Pds e la loro linea di appeasement verso i socialisti è stata sconfitta perché è prevalsa la linea dell’opzione giudiziaria». Parliamo del novembre 1991, quando era già iniziata un’inchiesta giudiziaria a Milano quella che riguardava Pillitteri, un’inchiesta apparentemente secondaria. Ma era il primo segno di un’attività giudiziaria rivolta a Milano. Craxi mi disse: «Cosa avrà voluto dire Gerardo? Come fanno ad adottare un’opzione giudiziaria?» Solita ingenuità di Craxi. Gli dissi: «Guarda, se ti ha detto questo, io ti consiglierei di approfondire e di stare attento perché gli strumenti ci sono». La rete di pm che faceva in qualche modo capo a Violante non era un’invenzione. Tanto più che, in ordine al finanziamento illecito dei partiti, c’era solo l’imbarazzo della scelta. Un po’ come se si decidesse un’indagine a tappeto sull’evasione fiscale. Si potrebbe incriminare tutto il vertice della Confindustria. Se decidi a tavolino di incriminare e di fare fuori una classe dirigente imprenditoriale, scegli l’evasione fiscale, e prima o poi li becchi tutti. Dovendo fare fuori una classe dirigente politica, scegli la violazione della legge sul finanziamento dei partiti, opportunamente amnistiata fino al 1989, e in quei tre anni sei in grado di beccare tutti, tutti quelli verso cui dedichi attenzione. Quindi l’opzione giudiziaria aveva senso.
 
Nel novembre del 1991, leggendo la stampa, risulta che le polemiche tra Craxi e Occhetto si riaccendono; ci sarebbe pertanto una coincidenza con quanto ha appena affermato.
Sì esatto, l’autunno del 1991. C’è il rilancio dell’opzione giudiziaria come via d’uscita.
 
Eppure Craxi, di fronte all’uscita dei repubblicani e dinanzi a questi rapporti che si riaprono con i miglioristi e con il Pds, sostanzialmente rimane attendista.
Lui pensa che il tempo lavori in favore dei socialisti, e probabilmente i miglioristi lo illudono. Gli fanno vedere una cosa che non c’è. L’unità socialista, o almeno una convergenza parziale.
 
C’era un prototipo a Milano, un indirizzo, un’iniziativa politica che poteva valere come modello.
I miglioristi milanesi erano una cosa particolare. C’erano radici antiche. Alcuni erano amici personali di Craxi o di Tognoli. Altri addirittura, come Borghini, se ne uscirono dal Pds. In seguito entrarono addirittura in giunta con Formigoni.
 
La contestazione interna al Psi dopo il 1991, con Martelli che prende l’iniziativa, pesa nei rapporti del gruppo?
No, pochissimo. Martelli fa più una manovra di apparenza. Sulle radici del partito non influisce. Martelli diventa pericoloso nel 1992, e nel 1993 ancora di più.
 
Perché pericoloso?
Perché si mette a cavalcare una crisi politica, pensando di chiamarsi fuori da responsabilità che aveva anche lui, tanto è vero che quindici giorni dopo le dimissioni di Craxi, ci sono le sue.
 
Andiamo con ordine, però. Come reagisce Craxi alle dimissioni di Cossiga? Che rapporto c’era tra Craxi e Cossiga?
C’era un rapporto strano.
 
Le dimissioni di Cossiga complicano le cose?
Cossiga non ha mai semplificato le cose, nel senso che era assolutamente imprevedibile. O meglio dopo una prima fase di settennato, anodino, privo di qualsiasi particolare coloritura politica, nella seconda fase imperversa e, naturalmente, come il cappellaio matto, dice cose giuste ma magari le dice al momento sbagliato, non preoccupandosi delle conseguenze; e quindi tutta una serie di comportamenti aggravano la crisi, nel senso che la rendono difficilmente governabile.
 
Ma si dimette perché non vuole fare Craxi presidente?
Secondo me sì, lui non vuole trovarsi nel guaio di dover decidere chi fa il Primo ministro.
 
Vuole scaricare la “patata bollente” al suo successore?
Probabilmente. Siccome Cossiga era organicamente legato ai Servizi, ad ambienti di informazione non solo italiani ma anche internazionali, sapeva benissimo la piega che stavano prendendo gli eventi e quindi si chiama fuori.
 
Quindi l’elezione del successivo Presidente della Repubblica diventa fondamentale? Come è stata la trattativa?
Per quattro voti Forlani non passa. All’epoca si sapeva perfettamente che tutta la corrente lombardiana votava d’intesa con Andreotti contro Forlani, e nonostante il soccorso di alcuni singoli che avviene sempre nell’elezione del presidente della Repubblica e probabilmente, di qualcuno dalla destra, Forlani per quattro voti non ce la fa. A quel punto ci si trova di fronte ad una gatta da pelare, perché sono in lizza i presidenti delle due Camere, Scalfaro e Spadolini, con pari titoli. Spadolini spera che Craxi faccia un’opzione laica, confidando nella prassi dell’alternanza fra un cattolico e un laico. Craxi – che probabilmente lì già non era più lucido -, inopinatamente preferisce Scalfaro, che poi da Hammamet avrebbe inserito fra i «sepolcri imbiancati».
 
Il discorso che era stato il suo fedele ministro dell’Interno ebbe un certo peso, vero?
«Ma lui si è comportato sempre lealmente con me», disse anche a me. «Si è sempre comportato lealmente quando era ministro del mio governo, quindi penso che sarebbe altrettanto leale; mentre Giovanni è un amico, però è un vanitoso, è un esibizionista, poi, rispetto alle questioni giudiziarie, non avrebbe tenuta». Ora è probabile che Spadolini non avrebbe avuto tenuta, ma è altresì certo che Scalfaro non l’ha avuta. In realtà lì ci fu un errore di valutazione, tanto è vero che personalmente non fui convinto, e continuai a votare Leo Valiani, ovviamente come nome di bandiera.
 
E lì l’accordo con il Pds era impossibile? Perché non passano i candidati socialisti, tra cui Vassalli?
Ormai era prevalsa l’opzione giudiziaria, con la scelta conseguente di stare il più lontani possibile dai socialisti. Ci fu ancora un breve periodo in cui il Pds, o almeno qualcuno, faceva la corte ai socialisti per l’ingresso nell’Internazionale socialista, che era l’ultimo anello che mancava. E lì sguinzagliarono lo zelante Fassino che faceva pressing su Craxi, su di me, su altri per l’ingresso nell’Internazionale. Ma era l’ultimo elemento che teneva in piedi un dialogo. Io sono testimone di un’altra vicenda, che è parallela, piccola, ma significativa: a un certo punto nell’estate del 1992, cade la giunta comunale di Torino, perché si dimette il sindaco, che era diventato repubblicano per l’abbandono di Zanone, sindaco dal 1990. Alla prima occasione se ne va, e lascia la città in una situazione di grande difficoltà. Alla fine La Malfa ottiene con un atteggiamento quasi ricattatorio, facendo valere l’argomento che dopo due sindaci socialisti e un sindaco liberale, toccava ad un sindaco repubblicano. In realtà non aveva nessun candidato davvero autorevole: propone una signora della buona borghesia, della buona nobiltà torinese, Giovanna Incisa Cattaneo. Era una persona corretta e perbene, ma poco adatta a tempi così difficili. Viene eletta, ma l’amministrazione fa poca strada. Dopo pochi mesi si dimette e c’è il rischio dello scioglimento del consiglio. Nel primissimo autunno, tra settembre e ottobre, rendendomi conto che la situazione non reggeva più, per evitare lo scioglimento e anche per evitare un grave danno alla città che in quel momento aveva una serie di cose in ballo importanti, tento un’operazione disperata dato il clima politico generale; ma che aveva il suo senso, cioè una giunta di fine legislatura con la partecipazione sia della Dc, che del Pds, e con un sindaco che poteva essere socialista, ma che non vi erano pregiudizi a che fosse pidiessino. Si fa la riunione in casa di Violante. Ci riuniamo io, il segretario provinciale e il capo gruppo del Psi, Violante, Chiamparino, Carpanini. La Dc era tendenzialmente disponibile, ma ovviamente senza il Pds non si poteva procedere. Chiedemmo che cosa dovevamo dire alla Democrazia cristiana. Ma nonostante che Chiamparino e Carpanini, entrambi di orientamento migliorista e non ostili ai socialisti, fossero propensi all’operazione, Violante si oppone dicendo: «Non possiamo fare accordi con gente che fra qualche mese sarà in galera», il succo. Detto in forme garbate, ma inequivocabili. Siamo nell’autunno del 1992.
 
Ma come capogruppo aveva agevolato la nomina di Violante all’Antimafia?
Tutti danno a me la colpa ancora oggi, a vent’anni distanza; danno a me la colpa o il merito a seconda dei punti di vista.
 
Non c’era sul banco anche la riconferma di Chiaromonte uscente?
No, non era così, perché toccava una volta al Senato, una alla Camera; quindi lui era fuori [perché senatore]. Il punto era un altro: capo gruppo prima di me era Andò e le trattative le fecero Andò, Gerardo Bianco e D’Alema, i tre capigruppo, e raggiunsero l’intesa di massima sulla nomina di Violante all’Antimafia, oltre ad una serie di altre. Quando fui eletto io, Gerardo Bianco mi informò dello stato delle trattative, che Andò sostanzialmente confermò. Mi trovai in grande difficoltà, perché avrei dovuto riaprire la discussione, creando un incidente. Tentai di farlo, non ponendo un veto alla persona che tra l’altro sarebbe stata rifiutato dalla Democrazia cristiana, ma prendendola alla lontana: «Non possiamo avere delle presidenze di commissione che sono sempre assegnate allo stesso partito: stabiliamo un principio di rotazione, per cui, se il Pds ha espresso l’Antimafia l’altra volta, questa lo esprime la Dc o il Psi, e viceversa». C’era la bicamerale sul Mezzogiorno, la bicamerale sulle regioni, c’erano tre o quattro commissioni che potevano consentire questa rotazione. E tenni questa posizione per una quindicina di giorni, con pressioni sempre più insistenti di Violante e di D’Alema perché facessi cadere questa pregiudiziale. Andai a un certo punto da Bianco, e gli dissi: «Ma Gerardo, possibile che…». «Ah guarda, non si può, non farmi dire perché, ma non si può». Quando il capo gruppo del più grande partito ti dice questo, è presumibile che per ragioni che non mi ha spiegato, aveva già un accordo fatto. A quel punto mi trovai in una condizione molto difficile politicamente.
 
Bastavano i voti dei due partiti?
Ampiamente. Poi, non si dimentichi che lì siamo già in pieno 1992, scandali in corso, il Psi in stato d’assedio, giunte Dc-Pci dappertutto. Per quale ragione dovevo sottolineare una messa in minoranza del Psi su un argomento così significativo, a fronte di che cosa? Avrei potuto avviare una battaglia se ci fossero stati degli alleati, ma non ce n’erano.
 
Ha avuto la percezione che tale operazione facesse parte di uno scambio politico a più alto livello?
No, ebbi l’impressione del solito appeasement fra democristiani e comunisti, magari per ingraziarsi un uomo considerato temibile. Che Violante volesse farlo per avere uno strumento in più è evidente, ma che la Dc partecipasse a un disegno diabolico mi pare un po’ eccessivo. A volte queste cose avvengono per una logica molto banale: «Era del Pci, il Pci continua a chiedere di averla, perché dobbiamo dirgli di no?»
 
E sulla legge elettorale?
Sulla legge elettorale persi molto tempo ed era cosa che seguivo bene con Craxi, che dell’argomento, pur preso da tante cose, si occupava con attenzione.
Avevamo sul tappeto un progetto che era stato elaborato dal consigliere di De Mita in materia istituzionale − il senatore Ruffilli, un professore di Bologna, personaggio di notevole livello, ucciso poco tempo prima dalle BR − che prevedeva, in sostanza, l’attribuzione di un premio di maggioranza alla coalizione che raggiungeva il 40 o il 45% dei voti. Oggi può apparire una cosa quasi ovvia, o comunque certo da non provocare scandalo, ma all’epoca fu da noi accolta piuttosto male. La lettura che veniva data era: «Non intacca il proporzionale, ma crea una condizione di ininfluenza del Partito socialista, perché la Dc può organizzare un blocco moderato intorno a sé che legittimamente concorre al premio di maggioranza». Il Psi si trova stretto fra un accordo subalterno con la Democrazia cristiana o una politica neofrontista. Era esattamente quel che voleva De Mita. Era il modo attraverso il quale lui pensava di recuperare la centralità della Democrazia cristiana. Quindi noi eravamo obbligati a dire di no a quell’impianto. Il punto è che, per effetto del referendum sulla preferenza unica e del preannunciato referendum sulla legge elettorale, noi eravamo di fatto isolati nel difendere un principio proporzionale proponendo una correzione (sbarramento al 4/5 %) ma non lo stravolgimento della legge vigente. Eravamo isolati, perché il Pds ormai considerava il referendum uno strumento per rovesciare il regime e quindi sosteneva Segni e i referendari, qualunque novità purchessia. Secondo una tecnica che poi Intini ha definito efficacemente quella degli «invaders» [i «Visitors»]. Il Pds si faceva invadere ogni volta da qualcuno che gli dava i contenuti: c’è stato per lungo tempo il partito di «Repubblica», in quel periodo c’era il partito dei referendari che, di fatto, aveva occupato il Pds e dettava la linea. Quindi a sinistra, non avevamo interlocutori. La Democrazia cristiana, con la morte di Donat-Cattin, aveva perso l’uomo libero più forte ed energico, capace di creare un’area di resistenza a quella che era invece la posizione demitiana, fortemente ostile al Partito socialista.
 
La legge l’hanno concordata in commissione alla Camera?
No c’era la Bicamerale, e quindi si fa tutto in Bicamerale.
 
Però in commissione alla Camera grosso modo vengono indicate le premesse.
No, ripeto si preparava tutto in Bicamerale. La discussione e l’impostazione di massima era della Bicamerale, poi andava in commissione Affari costituzionali. Ma in ogni caso, era evidente che c’era già un accordo di massima, e noi abbiamo tentato in varie occasione di farlo saltare.
 
Craxi alza le barricate sulla legge Mattarella?
Ma, la legge Mattarella era il male minore, al punto in cui eravamo arrivati. Perché salvaguardava comunque un principio di rappresentanza proporzionale, sia pur ridimensionato, ma garantiva al contempo una certa indipendenza a tutti i partiti, tanto è vero che col «mattarellum», si andò a votare su tre schieramenti e non su due. Solo che il terzo polo non lo fecero i socialisti, ma i popolari. Soltanto dopo si andò a un’ulteriore semplificazione bipolarizzata al massimo, ma alle prime elezioni del 1994 i popolari non andarono né con la sinistra, né con Berlusconi. E sopravvissero seppur ridimensionati numericamente. Era una legge che in qualche modo consentiva la sopravvivenza dei terzi, quindi era il male minore in quelle condizioni.
 
Qualcuno di voi provò a far ragionare Craxi sul fatto che aveva imboccato un vicolo cieco, nell’opposizione frontale al referendum del 1991?
Quello del 1991 fu un errore collettivo: chi sostiene il contrario, dice una bugia.
 
Cioè non fu solo Craxi, sbagliaste in molti.
Per la semplice ragione che effettivamente con il senno di prima, appariva fantascientifico che a metà giugno la maggioranza degli italiani andasse a votare un referendum dal contenuto assolutamente tecnico. Infatti il numero di preferenze che si esprimono nel corso di una votazione è argomento di assoluta aridità, di completo disinteresse per l’opinione pubblica; e fu un errore collettivo di sottovalutazione anche perché era cresciuto impetuosamente, ma anche lentamente, questo malessere un po’ come adesso: per quel referendum, fino a due mesi prima, nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato sul raggiungimento del quorum. Sono quei sommovimenti di opinione pubblica che quando si manifestano, sono già irresistibili. E fu un errore collettivo, perché ripeto io non sentii nessuno dire: «Attenzione, perché il referendum è pericoloso».
 
Nemmeno Martelli, che era il più attento a questi temi referendari?
Io non lo ricordo; devo dire la verità, adesso può darsi che mi sbagli, ma non lo sentii neanche da lui.
 
Però in buona sostanza, nella primavera del 1992, lei si allontana un po’ dalle posizioni di Craxi; guardando il dibattito alla Camera, gli interventi che fa sulla legge elettorale e su altri aspetti non fa le barricate.
Ognuno di noi aveva la sua testa e quindi la pensava a suo modo. Io cerco disperatamente di costruire una mediazione fra De Mita e Craxi. Qualche tempo fa De Mita venne a un convegno a Torino, a parlare di riforma costituzionale e legge elettorale e io ero in platea. Lui iniziò dicendo: «Vedo qui un amico che ai tempi della Bicamerale, tentò disperatamente di far fare l’accordo tra me e Craxi e, purtroppo per lui e per tutti noi, non ci riuscì», questo disse De Mita. In effetti, io tentavo di fare questo, perché vedevo tutta la pericolosità di un isolamento totale dei socialisti, poiché l’isolamento politico aggrava l’attacco giudiziario. Uno dei due lo reggi, non tutt’e due insieme. A me questo appariva chiaro.
 
Quindi non ha apprezzato gli attacchi di Craxi sull’«Avanti!» dell’estate ‘92 nei confronti di Di Pietro e la magistratura? Non condivideva la linea difensiva del Psi?
Non mi convinceva perché non vedevo sostanza. Penso al famoso «poker d’assi» di cui parlava Formica, a proposito del quale Rino ha fatto poi numerose precisazioni. Però la percezione era di carte che sarebbero dovute venir fuori e che non sono mai venute fuori.
 
Sul voto segreto per l’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi, la Camera nega l’autorizzazione; perché? Ci fu un accordo?
No, assolutamente no.
 
Quindi ognuno votò liberamente?
Sì ma perché il sentimento diffuso della Camera, al di là, degli schieramenti, era di una classe parlamentare sotto assedio, per cui i parlamentari fecero quadrato. Non mi risulta alcun accordo, a parte il fatto che passò per pochi voti.
 
Fu la Lega, infine, a dare i voti necessari?
Questa è una chiacchiera che si dice, cioè che la Lega abbia votato apposta per negare l’autorizzazione a procedere, per innescare un’ulteriore escalation, ma io non ho elementi. Diciamo che Bossi ha la furbizia e la spregiudicatezza per poter fare una cosa di questo genere.
 
Ma dai movimenti in aula prima del voto cosa si notava?
C’era molta tensione, ma non posso dire che ci sia stato un qualcosa che mi abbia allora fatto pensare a quello, e non lo penso neppure oggi.
 
A un certo punto, scusi se torno indietro sulla legge elettorale, sul «mattarellum», mi sembra di ricordare sfogliando i giornali e le interviste, che ci fu un mezzo accordo sul doppio turno fra Labriola, Covatta e Barbera. Lei e Andò in quel momento vi arrabbiaste per questa iniziativa: come mai?
Perché la DC su quell’accordo non ci stava e non c’era margine, quindi, per approvarla. In materia elettorale devi per forza di cose procedere per larghe intese: qualunque sia il contenuto dell’accordo, lo devi negoziare con tutti quelli che sono determinanti, in particolare per noi che eravamo messi all’angolo. Infatti io ritengo che quell’accordo fu da parte del Pds usato per premere sulla Dc; cioè fu una questione tattica, come spesso avveniva in quei momenti. Poi si era un po’ perso il filo del ragionamento politico, era una fase ormai molto disordinata e non più governata. La fine del 1992 è stata una bufera.
 
Come ha vissuto quella stagione e, ripensandoci oggi, quali errori ha fatto nella gestione del partito, come capo gruppo?
Guardi gli eventi dettavano i comportamenti, perché si viveva alla giornata e ogni giorno c’era un evento che ti obbligava a occuparti di quello. Non era possibile pensare strategicamente: chiunque avesse fatto il capo gruppo, avrebbe avuto una situazione non dissimile alla mia. Non si dimentichi che a settembre si suicida Moroni, a ottobre muore Balzamo, a novembre o ai primi di dicembre mandano l’avviso di garanzia a Craxi. In quelle condizioni c’è poco da pianificare: vivi purtroppo alla giornata. Non credo si potesse fare molto. Ho un ricordo vivido di un giorno di fine novembre 1992. Mi telefona un direttore di un giornale nazionale, con cui avevo e ho buoni rapporti: «Ti devo parlare, vienimi a trovare». Quel giorno ero a Torino, e invece di partire per Roma, vado a Milano. Andiamo a mangiare vicino al giornale. Pranziamo, chiacchieriamo: lui in sostanza, apertamente mi dice: «Guarda che è partita un’operazione che distruggerà gli equilibri politici, vi farà tutti fuori». Questo nel novembre del 1992, quando Craxi non aveva ancora ricevuto il primo avviso di garanzia. Le considerazioni che fece erano tutt’altro che generiche e quando ci accomiatammo mi abbracciò. La cosa lì per lì mi colpì, ma non abbastanza. Ripensandoci successivamente, mi resi conto che mi aveva salutato con un’affettuosità particolare e con un abbraccio. Come si salutano quelli che vanno al fronte e che si sa che si prenderanno una pallottola in testa. Insomma: «Siccome sono tuo amico, ti ho in qualche modo avvertito. Adesso, addio». Da allora non ci siamo più visti, se non poi a distanza di anni, a cose finite e per rapporti soltanto amicali.
 
E qual è l’ipotesi, da quale canale poteva averlo saputo?
Tutti sapevano che cosa stava succedendo, almeno quelli che dovevano sapere. Le Procure già allora raccontavano, ma raccontavano solo a chi decidevano loro.
 
Per quanto riguarda il ruolo della grande industria, dei «poteri forti», qual era la posizione della Fiat verso Mani pulite, per esempio?
La Fiat scelse una strada semplicissima: dopo una prima fase di resistenza, optò per una stretta collaborazione in cambio di un defilarsi delle attenzioni su di loro e, alla fine, Romiti fu beccato più che da Milano, da Roma. Se si ricorda lui fu sottoposto a processo per la metropolitana di Roma. A Milano avevano arrestato Mattioli, il suo braccio destro che stette in galera per un po’. Però a un certo punto, la Fiat fece un memoriale in cui stilava l’elenco dei finanziamenti per le elezioni politiche del 1992, mettendo insieme un po’ di nomi; e guarda caso mancavano i nomi di quelli più vicini alla Fiat, perché per loro le modalità di finanziamento erano state diverse, più «protette». La Fiat dava fondi neri, nel senso soldi in contanti a qualcuno, mentre forniva soldi attraverso trasferimenti, bonifici bancari alla generalità. I secondi erano documentati ma non furono rintracciati poiché fu la Fiat stessa a fornire l’elenco – ed è così che venne fuori il «conto gabbietta» del Pci, e così che vennero fuori i finanziamenti al Pli di Altissimo e fu arrestato Bastianini. In questo modo fui incriminato per i contributi elettorali al Psi di Torino. Compilarono un elenco in cui non comparivano alcuni amici democristiani della Fiat, Giorgio La Malfa e il Partito repubblicano. E non credo perché non avessero ricevuto degli aiuti. In conclusione la Fiat ebbe un atteggiamento, dopo una fase di resistenza, fortemente collaborativo. Aveva capito di non essere il bersaglio.
 
E gli altri gruppi industriali? C’è anche la Confindustria a fare la sua parte.
Ma sa il sistema allora era tale che non si può neanche parlare di complicità. Con un labile pretesto ti prendevano, ti mettevano in galera, poi ti facevano la proroga di altri tre mesi finché tu non dicevi: «Sono pronto a scrivere un memoriale». Lo scrivevi e uscivi. Con questi sistemi, secondo me, non puoi fare la classifica dei buoni o dei cattivi, perché o sei un militante rivoluzionario come Primo Greganti, che dice: «Io non ho niente da dire, mandatemi pure a fare il bibliotecario di San Vittore, mi faccio tutti i mesi necessari e poi esco». Ma se tu non sei Primo Greganti o uno analogo, cioè, se non sei un militante rivoluzionario che serve una causa, chiunque altro prima o poi cede. Io ricordo il povero Lodigiani perseguitato, credo da una dozzina di ordini di cattura; a un certo punto scrisse un memoriale che, per disperazione, era onnicomprensivo di qualunque cosa di cui aveva avuto sentore o che aveva vissuto personalmente, tanto che comparivo anch’io e dovetti affrontare un’indagine a Castrovillari. Lui nel memoriale raccontava che era venuto da me a chiedermi di intervenire perché i lavori della diga di Castrovillari in Calabria, si erano inopinatamente fermati. Gli risposi che avrei fatto il possibile. Nel memoriale commenta: «Mi diede l’impressione che se fossi andato a trovare Balzamo, il suo impegno sarebbe stato maggiore». Io mi beccai un avviso di garanzia per concorso in concussione. Poi naturalmente la questione si concluse con un proscioglimento in istruttoria. Intanto però finivi sui giornali. La logica dei memoriali è quella che ha riguardato quasi tutto il sistema imprenditoriale italiano; quindi io onestamente non farei una classifica di buoni e cattivi.
 
C’è la teoria per cui i «poteri forti», a un certo punto, voltano le spalle alla classe dirigente della prima Repubblica e una delle ragioni sarebbe stata mettere fuori gioco il Psi per aprirsi una strada in discesa verso le privatizzazioni; la convince?Regge questa teoria?
Regge una considerazione che non riguarda però solo il Psi. Messo ko il sistema politico italiano nel suo insieme, la strada per le privatizzazioni è spianata, perché non hai più nessun interlocutore in grado di porre condizioni. Attribuire solo al Psi questo, mi sembra un eccesso di presunzione. Certamente noi eravamo parte ma non eravamo tutto. Era un ostacolo alle privatizzazioni anche Andreotti, non solo Craxi e i socialisti; anche la tradizionale Democrazia cristiana, persino un Pds non completamente devastato culturalmente e ideologicamente. Tutti in vario modo eravamo ostacoli a un certo modo di intendere le privatizzazioni. Quindi non lo ridurrei solo al Psi e non credo che il mondo imprenditoriale italiano abbia avuto un ruolo di particolare rilievo. Diverso è il caso degli interessi finanziari internazionali. È molto più probabile che essi abbiano avuto un ruolo.
 
Per esempio?
Si dice sempre Wall Street, Londra, il famoso incontro sul panfilo Britannia, degli investitori istituzionali anglosassoni.
 
Vi partecipa solo Occhetto?
Ma anche Draghi, dicono.
 
Occhetto sicuramente.
Sì. E probabilmente queste cose hanno avuto un peso, ma io non gliene darei uno decisivo; è uno dei tanti concorsi.
 
Tornando al 1992, alla sua azione come capo gruppo. Ha un ruolo decisivo perché a nome del partito deve turare una soluzione difficile: come si comporta? Che iniziative prende?
Che altro avrei potuto fare. Non potevi fare niente. Io capito proprio in un momento in cui non si può fare niente. In più c’è un gruppo parlamentare spaccato in due. Io vengo eletto con circa il 60% del gruppo, quindi tu hai già, oltre tutte le altre difficoltà, una fronda del 40%, fronda che come spesso accade certo non ti viene in aiuto.
 
Qualcuno potrebbe dire: viene mandato a fare il capo gruppo del partito, anche se solo con il 60%, però invece di tutelare dei punti cardini messi in chiaro da Craxi, come la legge elettorale e altri aspetti, a un certo punto si disimpegna dalla gestione?
No a un certo momento mi becco anch’io un avviso di garanzia e mi devo disimpegnare per forza, a febbraio del 1993, quindi in quel frangente io non posso più fare nulla.
 
Ma in quei primi mesi di legislatura ha paura di essere coinvolto?
Non più degli altri, anche perché vengo coinvolto in una vicenda insieme a Goria e a Bonsignore, per una cosa che non era poi neanche successa. Però all’epoca non contava niente questo; esisteva un clima per cui tutti i giorni c’era il mattinale.
 
Come quando Craxi disse: «Hanno creato un clima infame».
Eh bè, sì! anche perché poi c’era un equivoco in quel periodo; è una cosa che ci tenevo a chiarire. Craxi in più di un’occasione durante quel periodo, l’ho controllato guardando l’«Avanti!», diceva: «Se ci sono dei corrotti li cacceremo, prenderemo le distanze, bonifichiamo il partito», e non faceva solo un’affermazione strumentale in funzione della polemica. Il punto è che c’era un equivoco sul concetto: per Craxi i corrotti erano coloro che facevano una serie di pasticci in proprio, per arricchirsi, quindi intendeva «Cacceremo quelli». Ma nella sua testa il finanziamento irregolare ai partiti, come lo chiamava lui, era consustanziale alla Repubblica, perché lui era cresciuto dal 1945 in poi, con quella mentalità lì; non so se è chiaro.
 
Aveva sfidato Signorile sulla tangente Eni-Petromin.
Certo, la famosa Eni-Petromin.
 
Sulla questione dei finanziamenti, una cosa molto interessante la scrive Luciano Barca nei suoi diari. Per Barca, Craxi, di fronte alla sfida interna lanciata da altre aree del partito, per sanare una situazione di fragilità interna storica del Psi, sia organizzativa che economica, è l’unico segretario di partito che deve vedere i conti direttamente, che ha un rapporto diretto con l’investitore, con i sostenitori[2]. È stato così?
Sì, perché a differenza di partiti più strutturati, nel Psi il controllo delle risorse finanziarie era un elemento determinante per la gestione degli equilibri politici, come spiega bene la vicenda Eni-Petromin. Se Craxi avesse consentito a Signorile di dotarsi di tutte quelle risorse finanziarie, avrebbe perso il controllo del Psi. Cioè mentre nei partiti di tradizione comunista, c’era una separazione naturale fra l’amministrazione affidata a funzionari legati non a una persona ma a una struttura, nel Psi questo si era da tempo attenuato (ma già ai tempi di Nenni non è che fosse molto meglio); quindi era inevitabile un grado maggiore di esposizione. Stessa cosa per quanto riguarda me. Malgrado cercassi di stare lontano dai problemi del finanziamento (anche perché non ne ho tratto mai profitto personale e quindi non avevo un motivo personale) se non avessi governato quei processi, qualcun altro avrebbe acquisito più influenza, tanto è vero che durante le indagini io scoprii, cosa che mi era stata tenuta gelosamente nascosta, che la Fiat accanto a un finanziamento arrivato al Psi mio tramite, aveva dato un altro finanziamento a un collega parlamentare, avvenuto a mia insaputa e di tutto il partito. Serviva probabilmente a preparare una possibile leadership alternativa. Quindi erano dinamiche assolutamente obbligate.
 Comunque tornando al 1992, io credo che non si potesse in quel momento fare molto di più, né aveva senso lo smarcamento strumentale di qualcuno, perché la svolta politica o riusciva a darla Craxi insieme a tutti noi, o non avrebbe funzionato. Il fatto che qualcuno volesse darla al posto di Craxi era assolutamente non credibile, perché l’opposizione interna, guidata da Signorile, era un’opposizione che negli anni si era sostanzialmente omologata: la famosa battuta sulla «sinistra ferroviaria» non è stata inventata a caso; Martelli non era credibile come alternativa a Craxi, perché lui è stato sempre la versione calligrafica del craxismo, non rappresentava un’altra politica. Insomma non esisteva un leader alternativo sufficientemente autonomo dalla storia di quegli anni, per poter apparire credibile un ricambio. Non lo erano i sindacalisti, che si sono alternati alla segreteria dopo Craxi [Benvenuto e Del Turco], che del finanziamento illecito ai partiti avevano tratto ampio beneficio nel corso di quel quindicennio, sia l’uno che l’altro, ed erano perfettamente consapevoli del meccanismo.
 
Craxi smette di occuparsi del partito nel 1992 e si preoccupa più delle fronde interne: è vero che si chiude in una sorta di bunker?
Quando sei assediato diventa quasi inevitabile. E poi cominciava a stare peggio di salute. Inoltre non aveva una strategia, una linea di difesa precisa.
 
Di uscita?
All’epoca avevo pensato a una linea di difesa che, se messa in atto collettivamente, poteva avviare una controffensiva. Richiedeva un coraggio, una forza d’animo e una coesione politica che purtroppo non esistevano. La praticai dopo pochi mesi da solo, ovviamente senza effetti politici significativi.
 
Qual era questa strada?
La strada che io proposi sia a Craxi, sia a Del Turco, sia a Benvenuto era di capovolgere l’impostazione, passando dalla difesa all’attacco. Craxi aveva detto che i partiti, tutti quanti, si erano finanziati illecitamente: e aveva detto la pura verità. Partendo da quella premessa, proposi che tutti i parlamentari socialisti si recassero nella loro circoscrizione elettorale e andassero dal procuratore della Repubblica ad autodenunciare i finanziamenti di cui si erano avvalsi per le elezioni. Trasformando quindi la vicenda, da un fatto di malaffare singolo o episodico, in un fatto sistemico, avvalorando la tesi per l’appunto che la Repubblica non era criminale e che queste vicende quindi, non dovevano essere sanzionate come criminali, ma considerate un fatto politico. Quando io sostenni questa tesi, Signorile mi disse che ero un pazzo, che non avevo capito niente, perché lui stava già trafficando; perché tutti pensavano che i guai riguardassero il vicino. È il tipico meccanismo che capita nei corpi collettivi, quando sono alla vigilia del collasso: tutti pensano che la malattia attacchi un altro.
 
Per approfittarne o per quale altro motivo?
Intanto per salvare se stessi e poi eventualmente per approfittarne.
 
Quindi il gruppo dirigente è completamente spaccato nel tornante decisivo?
In quel momento è un gruppo dirigente che fallisce, perché non è in grado di accettare di sacrificare un po’ di sé per salvare il grosso del partito. Il sistema ormai era impazzito e non riuscivi più a fare un ragionamento e, soprattutto, a svilupparlo. La DC per parte sua pensava che, tagliata qualche testa, sarebbe riuscita a sopravvivere.
 
Si poteva evitare il crollo del Psi; quindi la risposta non fu adeguata?
No assolutamente, proprio per le ragioni che ho detto. Dare la colpa a Craxi, soltanto a Craxi, è un atto di ulteriore ingiustizia oltre a quelle che ha subito. Ha fatto gravi errori ma francamente lo spettacolo dei suoi amici, e qualche volta dei suoi famigli fu deprimente.
 
Ancora sul finanziamento illecito: voi ricevevate da parte della magistratura degli inviti a legiferare che poi si sono concretizzati?
Alla magistratura in quella fase non importava granché che legiferassimo o meno, anzi.
 
Il decreto Conso non nasceva da lì; Amato si difese dicendo: «Facciamo quello che ci stanno chiedendo i giudici, perché altrimenti…»
Bisognerebbe ricordarsi del famoso pronunciamento della Procura di Milano: i quattro che comparvero in televisione dicendo: «Questo decreto non s’ha da firmare». Lo ricordate?
 
La domenica succede questo, però il decreto viene mandato al Quirinale il sabato mattina.
Esatto, e però il pronunciamento fa sì che Scalfaro non lo firmi.
 
Secondo lei, Scalfaro aveva già informazioni al riguardo?
Sì Scalfaro ha fatto il furbo, perché conosco bene Conso che è un galantuomo; non avrebbe assolutamente fatto una cosa simile senza consultazioni preventive in alto loco. Tra l’altro non aveva alcun interesse personale. Conso era un uomo al di sopra di ogni sospetto. Lo aveva sicuramente fatto con il consenso anche di Scalfaro. Quando Scalfaro percepisce il rischio, (anche lui non era esente, come chiunque, dai problemi del finanziamento della politica) si ritrae impaurito. Scalfaro è un altro che non è il protagonista di un golpe o comunque di un’operazione politica, ma cavalca l’onda per opportunismo, senza esserne il cervello. E in effetti non c’è un cervello, c’è un concorso di attori. Devo dire, se bisogna proprio trovare un cervello, il più importante è quello di D’Ambrosio, che coniuga sapienza giuridica, esperienza, logica politica e capacità strategica. Di Pietro da parte sua era l’ultima ruota del carro; diventa eroe per caso. Comunque non credo che ci fosse una sorta di «direzione strategica» in grado di governare tutto. C’erano molte centrali interne e internazionali ognuna della quali dava il suo colpo di piccone per le sue brave ragioni.
 
Ha letto le ultime cose di Formica? È tornato sull’argomento anche qualche giorno fa, con una lettera a Ferrara, in cui fa un evidente parallelo tra oggi, il ruolo di Bisignani e la P2 nel 1981[3]. Secondo lei, per quanto riguarda la fine della prima Repubblica, dal punto di vista di strategie segrete, grandi complotti, cosa è vero, cosa verosimile e cosa inventato?
Rino è uno specialista di scenari complottistici, ma lui lo ha fatto sempre. Nelle riunioni della Direzione si sorrideva quasi, perché lui diceva: «Oscure nubi si addensano all’orizzonte, e inquietano…» Lui ha un po’ questo vezzo. Naturalmente, come si dice, a pensar male qualche volta si azzecca. Io adesso avverto un clima non dissimile dal 1992, cioè è in preparazione una spallata che, come nel 1992, secondo me è frutto di un concorso.
 
Che si prepara, dunque, prima delle elezioni del Capo dello Stato?
Si prepara prima delle elezioni politiche, insomma nei prossimi mesi, e che corre in parallelo con il collasso finanziario simile a quello del 1992-1994.
 
Ci sarebbero, quindi, delle analogie?
Ci sono delle sicure analogie. Non escludo che questi anni siano in qualche modo, la riproposizione della destabilizzazione di quelli, con una situazione molto più indebolita del sistema politico e con una realtà del Paese probabilmente ancora più fragile.
 
Mi sembra di capire che sposa la tesi non del complotto giudiziario ma dell’accanimento?
Esatto, e poi dell’affermazione del potere di un ordine su un altro.
 
Perché leggendo i suoi articoli, per esempio sull’«Avanti!» nel 1992, ho visto che affronta spesso questo tema, per cui scrive: «La questione morale era una questione politica – all’epoca – e quindi non riconducibile agli aspetti giudiziari».
Ma questo è verissimo, tutt’ora sono convinto di questo. Ci sono comportamenti giuridicamente non rilevanti, ma che moralmente lo sono. Per l’appunto, l’episodio che raccontavo prima di quelli che riuniscono in una stanza gli uni e in una stanza gli altri, quello penalmente è irrilevante, ma moralmente e politicamente corrisponde a un problema serio.
 
A prescindere dal discorso che abbiamo fatto prima sull’appoggio a Violante in commissione Antimafia, c’era anche un’idea di come poter preservare la situazione, disinnescandola?
Sì c’era l’idea di gestire la crisi, minimizzando il danno. Quando io proposi appunto quell’iniziativa verso le Procure, pensavo di minimizzare il danno. Naturalmente il danno ci sarebbe stato, perché ognuno di noi avrebbe pagato le conseguenze, ma probabilmente l’effetto finale sarebbe stato quello della sopravvivenza del Partito socialista, magari con persone diverse. A ciò si aggiunge il fatto che l’uomo che avrebbe potuto aiutarci a gestire quel passaggio, cioè Amato, si sottrasse per varie ragioni: indole, scarsa attitudine alla leadership in prima persona, paura. Probabilmente anche paura, perché Amato non era vissuto in Paradiso, ma in mezzo a noi e conosceva le cose.
Il risultato finale fu che non riuscimmo a organizzare una reazione, se non quella del tutto inefficace di dire: «I magistrati ci perseguitano». In quei momenti, che sia vero o non vero, è assolutamente inefficace. O si riesce ad avere un’iniziativa forte che agli occhi dell’opinione pubblica rovesci il giudizio, oppure anche se hai ragione, vieni travolto lo stesso. Tanto è vero che in molte di quelle vicende giudiziarie, confrontando il clamore mediatico e l’esito penale, scopri che c’è un abisso; però non importa, l’effetto politico l’hai già raggiunto. In gran parte dei casi l’ottieni subito, e il resto si leggerà nelle cronache molto tempo dopo.
 
Mi ha colpito il volume di memorie e di riflessioni sugli anni Ottanta e Novanta di Petruccioli; in particolare un passaggio relativo alla fine del 1992, inizio del 1993, quando il gruppo vicino al segretario ragiona sull’opportunità o meno di stringere rapporti con Martelli e sulla campagna elettorale amministrativa successiva. Dal racconto di Petruccioli si vede come una parte del gruppo dirigente post comunista fosse interessato a dialogare con Martelli ma che avessero anche qualche dubbio: «Ma Martelli – cito a senso l’interrogativo di Petruccioli, -, è una figura che non verrà coinvolta?» [4]. Poco dopo, tuttavia, arriva l’avviso per il «Conto Protezione» sia a Craxi che a Martelli. Allora, insomma, la situazione non è riconducibile all’intero Pds, cioè, c’è solo una parte all’interno del Pds che ha un disegno politico antisocialista. Qui c’è uno snodo, mi pare. È d’accordo?
Probabilmente sì. Ciò che nel 1991 è visto da gran parte del gruppo dirigente Pds come una via d’uscita, in una situazione altrimenti senza sbocchi, un anno dopo per alcuni è sufficiente; nel senso che ormai la destabilizzazione è avvenuta e si può ricostruire qualche cosa, per altri invece l’operazione continua. D’altra parte a un magistrato a cui offri argomenti per indagini, non puoi dare il contr’ordine. Lui va avanti finché ha materia.
 
Nel 1992 che rapporti aveva con Violante? Erano buoni, dialogavate?
Io con Violante avevo rapporti formali; nel 1992 ne avevo leggermente migliori con Fassino, ma non erano più quelli di qualche anno prima. I dirigenti del Pds non parlavano quasi più con noi. Molti di loro ormai ci consideravano degli appestati. C’era chi sapeva e chi immaginava. Ma la situazione era ormai quasi di isolamento fisico, che è uno degli elementi che contribuiva a creare il panico nelle nostre file, e che decretava la nostra debolezza. Per questo ci sarebbe voluto un colpo d’ala, clamoroso.
 
Tornando un attimo indietro, di fronte ai vincoli esterni legati a Maastricht, di fronte ad un debito pubblico che assume quelle dimensioni che sappiamo, dinanzi al fatto che i Governi Andreotti, sostanzialmente si limitassero alla pura gestione dell’esistente, con un deficit di iniziativa politica del Psi tra il 1987 e il 1992, non vi siete posti il problema che prima o poi l’intera impalcatura della prima Repubblica potesse cadere e crollarvi addosso, a prescindere dal Muro e dal fatto che eravate i vincitori del duello a sinistra?
Con il senno di poi è facile dirlo ma all’epoca la situazione non sembrava così drammatica. Diventa preoccupante nel 1991, ed è il momento in cui iniziano le discussioni nel gruppo dirigente. Fino al 1991 – se si leggono i discorsi di Formica, di Martelli, di chiunque – non c’è questa percezione. Nel 1991 sì, quando si sfila La Malfa; lì si apre la discussione, ed è il famoso anno che ha deciso le sorti della prima Repubblica. Fino ad allora concordo sul fatto che si fosse fatto pochino. Si fece solo la riforma degli Enti locali, che fu però una cosa molto importante.
 
Qualcosa per quanto riguarda il voto segreto, ma anche lì nulla di fondamentale.
C’era una questione importante che non si riusciva ad affrontare. Una delle non ultime ragioni per cui la prima Repubblica crollò fu l’incapacità di privatizzare con giudizio, gli ampi settori di economia pubblica che non si giustificavano più. Si parlava di un progetto per ridurre lo stock del debito attraverso le privatizzazioni, con l’emissione di prestiti obbligazionari convertibili. Questo avrebbe portato a «public companies» governate da manager, contribuendo contemporaneamente a ridurre il debito. Ma contrastava con gli interessi di chi voleva le privatizzazioni a favore dei soliti noti. Così iniziò a farsi strada la teoria del «nocciolo duro», ricordate? E le privatizzazioni imboccarono un’altra strada, quella che poi portò ai «capitani coraggiosi», senza soldi ma in grado di indebitarsi. Il debito pubblico non fu ridimensionato, mentre il patrimonio pubblico si ridimensionò. Ci sarebbe voluta una politica forte, che non c’era più. Né più ci sarà.
A proposito di quel periodo non bisogna mai sottovalutare poi gli effetti devastanti del contrasto fra De Mita e Craxi, che si detestavano e quindi non riuscivi a metterli d’accordo su niente.
 
Quando nel 1987 Craxi cede a De Mita, dopo quattro anni di buongoverno riconosciuto un po’ da tutti, molti di voi sostengono che lì compie un primo grosso errore. Nel senso che Craxi, in quel momento, non doveva cedere al patto della «staffetta», ma andare avanti; doveva far valere in Parlamento, nelle piazze, nel Paese, la validità delle proposte socialiste. Invece vi fu un imprevisto ripiegamento. Quanto meno si poteva tentare di andare alle elezioni ancora da capo del Governo, e farsi anche sfiduciare ma sempre da capo del governo.
Ma quello non glielo consentirono; il presidente della Repubblica era della Democrazia cristiana. Non glielo avrebbero consentito, non dimentichiamolo. Con Pertini avrebbe potuto farlo, con Cossiga no, tanto è vero che ne inventarono di tutti i colori: alla fine Cossiga diede l’incarico a Fanfani e la Dc gli votò contro, pur di andare alle elezioni con un presidente diverso da Craxi. Non glielo potevi impedire, perché Costituzione alla mano, il presidente del Consiglio dopo che si dimette, passa la palla al presidente della Repubblica, ed è quest’ultimo che decide.
 
Poteva non dimettersi.
Se ti sfiduciano, sei obbligato alle dimissioni e nel momento che ti dimetti costituzionalmente la palla passa al presidente della Repubblica. È lui che decide se mandare alle elezioni il Paese, confermando te per il disbrigo degli affari correnti o se affida l’incarico a un altro. Con Pertini saremmo andati alle elezioni con Craxi presidente, con Cossiga no.
 
C’è un passaggio nel diario di Sangiorgi che racconta un po’ la crisi del febbraio-marzo 1987 e con preoccupazione registra: «Craxi [a Mixer] ha sparato a zero sulla staffetta di governo, ha detto che un patto del genere non è mai esistito»[5]; sembra, per un attimo che Craxi voglia tentare un’operazione di tipo plebiscitario contro De Mita, alla De Gaulle per intendersi?Ma era possibile?
Questo lo dice Covatta, che non so per quale ragione sostiene tale tesi. In ogni caso questa strada non sarebbe stata vittoriosa, e avrebbe accentuato alcuni caratteri del tardo craxismo che personalmente condivido poco; cioè appunto un richiamo populistico, tribunizio, eccetera, che non ho mai considerato la parte migliore del craxismo. Io penso che Craxi alla fine abbia rispettato il fondo della sua cultura; cioè lui era un riformista nell’ambito delle istituzioni, non un eversore.
 
Come era possibile, in alternativa, dare vita a un’operazione di tipo mitterandiano o modificare il sistema bloccato dentro quella gabbia, così come si era andata consolidando in quarant’anni?
Questa è la tragedia dei socialisti e dei riformisti italiani, che non sono mai riusciti né ad avere la piena lealtà della Democrazia cristiana, né ad avere il sostegno convinto del Partito comunista. Una delle due cose dovevi averla. Se non hai nessuna delle due, sei obbligato a lottare ogni giorno per la sopravvivenza. Solo nel periodo del «preambolo», quando il cervello della Democrazia cristiana era Donat-Cattin, ci fu una fase felice e solida in cui la Democrazia cristiana sposò il disegno innovatore che Craxi e i socialisti sostenevano. La scommessa di vincere insieme la sfida contro il Partito comunista, quella Dc l’aveva fatta. Poi Donat-Cattin morì. Prima fu indebolito dalla vicenda del figlio, dopo morì.
 
Tuttavia, nel tempo raffreddò anche i rapporti con Craxi.
Sì ma i due avevano un’idea non dissimile degli sviluppi della situazione politica. Pur se, avendo due caratteracci, potevano anche bisticciare.
 
Esisteva un’evoluzione possibile del sistema in quegli anni Ottanta? C’era una possibilità? Era possibile mettere in moto un tentativo di autoriforma interna, che determinasse una logica diversa?
Certo che era possibile. E perché no?
 
Qual era la strada? Perché la Grande riforma l’avete lanciata, ma poi non l’avete portata avanti?
Il punto qual è? Il problema è che non puoi avere un progetto riformatore senza le alleanze per portarlo a termine, altrimenti quel progetto è propaganda. E la Grande riforma di Craxi divenne rapidamente propaganda, cioè era un mantra che veniva riproposto, ma che non aveva nessuna possibilità politica di realizzarsi per la mancanza di uno schieramento politico a sostegno. Il progetto riformista e modernizzatore, che avrebbe salvato l’Italia dai disastri che si stavano preparando, avrebbe avuto bisogno dell’apporto degli ex-comunisti che scelsero un’altra strada.
 
Un’Assemblea costituente non era possibile, uno sfondamento nemmeno, quindi l’unica cosa era tirare a campare, vivere alla giornata?
Non c’era accordo su niente. Si era in attesa di qualche evento, infatti Martelli dice: «Allora scegliamo la via referendaria».
 
Un po’ la tesi di Ernesto Galli Della Loggia: «L’Italia vive i mutamenti solo attraverso perturbazioni esterne»[6].
In qualche modo sì, io sono abbastanza d’accordo con Galli Della Loggia su questo punto; non riusciamo a riformare autonomamente, dall’interno il sistema.
 
Quindi bisogna aspettare un terremoto, aspettare un evento destabilizzante.
Esatto secondo me adesso ci sarà un crack finanziario o qualche difficoltà simile, perché se allentano la diga di Tremonti può succedere qualunque cosa, perché la speculazione finanziaria non guarda mica in faccia nessuno.
 
È d’accordo sul fatto che in realtà, fallita l’unità socialista, fallita l’ipotesi di un dialogo intelligente tra il 1989 e il 1991, la sinistra sostanzialmente è svanita?
Da allora sì. Vede, è l’ultimo punto che mi sono annotato?
 
Lei è del Partito democratico oggi?
Sì ma lo sono sostenendo queste cose. Le faccio notare che Craxi ha tentato un progetto d’innovazione istituzionale, in cui certo c’era una suggestione mitterrandiana (Craxi «Mitterand italiano») ma c’era soprattutto un tentativo di risposta a una crisi istituzionale e politica incipiente. Ma Craxi l’ha sempre concepita entro la cornice della democrazia repubblicana e sempre entro il sistema dei partiti. Infatti nel momento in cui scatta un’operazione contro il sistema dei partiti, lui che è stato per vent’anni quello che il sistema dei partiti voleva ammodernare, appare invece come la vestale che difende i peggiori difetti della partitocrazia. È un curioso paradosso; dipende dal fatto che in realtà non voleva minimamente introdurre modifiche che determinassero la crisi del primato della politica, la crisi del ruolo dei partiti, quelli che erano i pilastri della democrazia repubblicana post CLN. Questo elemento, che è un elemento del Craxi di sinistra, è stato fortemente sottovalutato nell’analisi politica e anche nell’analisi storica. Io combatto da tempo una battaglia per una lettura di Craxi di sinistra, al netto naturalmente di tutti i rilievi critici che si possono fare su questo o su quel punto, ma questo è stato pochissimo sottolineato. Craxi paga anche per questo: non fa l’appello al Paese, non si mette a fare il Bossi, a fare il Berlusconi, cosa che in un certo periodo avrebbe anche potuto fare.
 
Anche perché i sondaggi gli davano dati confortanti.
Certo, anche perché esisteva un’opinione pubblica che in quel momento lo incoraggiava. Lui non ha mai scelto questa strada.
 
È d’accordo che l’errore di Nenni fu l’alleanza del Fronte popolare e quello di Craxi la mancata unità socialista?
Lui doveva cambiare cavallo nel 1991; doveva mandare l’Italia alle elezioni dicendo: «Basta, con questo quadro politico non si fa più niente».
 
Quanto pesò «Repubblica» e in generale la stampa ostile, nel descrivere Craxi come uomo di destra e non uomo di sinistra?
Non c’è dubbio che ha pesato tantissimo, ma questo vale per tutti: io secondo certa stampa sono una sorta di delinquente.
 
Sottovalutavate la formazione dell’opinione pubblica attraverso i media negli anni Ottanta?
No anzi siamo i primi a essere attenti a questo aspetto. Il problema è che ne siamo stati vittime in seguito.
 
Vi è scappata di mano questa vicenda?
Ci è scappata di mano? Il problema è anche che ci sono interessi superiori e soldi maggiori. Bisogna analizzare le cose con precisione e obiettività.
 
Eravate consapevoli che certi comportamenti individuali, certi atteggiamenti di alcuni dirigenti del Psi colpivano negativamente l’opinione pubblica?
Guardi, io sono uno che non faceva vita mondana ma lavorava 20 ore al giorno; non mi sono arricchito, non ho cambiato né macchina, né casa, non avevo la barca. Ero, per così dire, un monaco della politica, eppure mi hanno trattato come un gangster. Quindi alla fine meno male che qualcun altro si godeva la vita, almeno si è divertito. Capisce? Non è che se tu ti comporti in un modo o in un altro cambia il giudizio. Anzi sei persino più pericoloso, perché meno ricattabile. Sono uno di quelli che è circondato dall’odio più radicato di una parte, anche se del tutto irrazionalmente.
 
Si riferisce alle vignette di Forattini in cui era raffigurato da malavitoso?
Ma non solo quello; ancora adesso, a vent’anni di distanza, mi sono candidato e in prima pagina della «Stampa», Gramellini mi ha dedicato un corsivo intitolato: «La Casta e La Ganga»[7], un atteggiamento assolutamente sproporzionato rispetto al ruolo che io ho, e al significato che ha avuto il mio impegno.
 
Come giustifica questo fuoco micidiale, almeno dei principali organi di stampa e anche dei canali televisivi; perché lì anche le televisioni di Berlusconi giocano un ruolo pesante. Rimanete spiazzati dal fatto che anche le sue reti vi attaccassero?
Ma certo: qui si vede l’ingenuità di Craxi, perché pensava che Berlusconi fosse un suo famiglio; mentre lui si faceva i fatti suoi. D’altra parte è un’ingenuità che i politici italiani hanno perché D’Alema qualche anno dopo commette lo stesso errore di Craxi. Tutti e due alla ricerca di un mondo imprenditoriale diverso da quello legato all’establishment. Cercano interlocutori nuovi, prima quelli della moda, della pubblicità e della televisione, poi i capitani coraggiosi. Tutti e due si bruciano, in modo diverso, perché le condizioni sono diverse ma entrambi si illudono.
 
Però dietro i mass media, sia la stampa sia la televisione, c’era solo un motivo volgare di bottega: della serie «così vendiamo più copie» o «facciamo più audience», o anche altro?
Secondo me c’era anche altro. È una questione complessa e bisognerebbe avere degli elementi di fatto che non ho. Non posso dire se c’era chi faceva la regia e agitava le acque per un preciso disegno. Certo c’era un clima culturale che stava cambiando. Erano in molti ad avere interesse che la democrazia incentrata sui partiti finisse, per sostituirla con una democrazia fondata sul nulla, cioè una democrazia leggera, che consentisse il primato della cosiddetta società civile, che poi sappiamo che cosa significa. C’era chi pensava fosse moderno il ritorno all’Italietta delle oligarchie e delle conventicole. Finiti i partiti lì si sarebbe arrivati. Il neoliberismo trionfante, divenuto pensiero unico, non aveva bisogno di una classe politica forte e indipendente, ma di uomini di spettacolo, buoni per litigare in televisione. Fu una tragica illusione, che ci ha portato alla crisi di oggi.
 
Però, nel caso specifico di Scalfari, entrando più nel dettaglio, come si giustifica una simile ostilità verso Craxi e il Psi?
Scalfari è Scalfari; è portatore, intanto di una cultura politica e poi di un sistema d’interessi. Quel gruppo era mortalmente rivale di quello di Berlusconi. Se uno stava da una parte, l’altro stava dall’altra. Entrambi organizzavano i propri interessi: c’era il partito degli uni e il partito degli altri. Craxi pensò di usare il sistema di potere berlusconiano che per un certo periodo gli servì e poi gli si ritorse contro; gli altri hanno usato il sistema di potere di De Benedetti, che in qualche modo si è anch’esso ritorto contro, perché l’ideologia della distruzione dei partiti, dell’abolizione dei politici di professione, sostituiti da soggetti improvvisati, dominati dai media, è un’idea che ha imperversato a sinistra e che ha portato al disastro in cui siamo. Quindi gli uni in modo più netto e brutale, gli altri in modo più subdolo, ma hanno fatto tutti e due lo stesso mestiere.
 
Perché c’è anche chi pensa al complotto internazionale; ad esempio il ruolo dei Servizi segreti americani, del Mossad; è fantapolitica?
A mio avviso c’è del vero. Qualcuno di questi in qualche caso ha dato una mano. Io non credo per esempio che il Mossad non fosse al corrente dei finanziamenti che tramite il Psi erano finiti ad Arafat. Qualche manina magari l’ha messa. Qualcun altro forse sapeva che i finanziamenti del Conto protezione servivano alla politica estera dei socialisti, al sostegno al dissenso nell’Est. Gli americani sicuramente si ricordarono di Sigonella. Il mutamento di clima culturale, politico ed economico, insieme a piccoli e grandi interessi di lobbies, aggiunto al conflitto fra magistratura e politica, unito all’illusione dei post comunisti di ereditare il potere, tutto concorse alla slavina che travolse ogni cosa.
 
Quindi, non c’è un regista unico, ma ognuno porta il suo contributo?
Ognuno è mosso da un interesse egoistico. Il Pds ha pensato: «Così ereditiamo la sinistra, facciamo fuori il nostro concorrente, prendiamo la guida del Paese». Berlusconi scende in campo pensando: «Io devo salvare i miei interessi, quindi cavalco anch’io l’ondata, anziché mettermi contro; e poi devo impegnarmi direttamente, altrimenti non sono tutelato», e secondo l’eterogenesi dei fini, una mossa per lui difensiva diventa una offensiva e vince in modo inatteso le elezioni. Il mondo economico e finanziario pensa che con la destabilizzazione avrà le mani più libere. La magistratura diventa un soggetto politico e cerca popolarità. Intellettuali e giornalisti, secondo una consolidata tradizione italiana, cavalcano e amplificano l’onda. La gente comune, delusa e indignata, si illude che finalmente tutto cambierà in meglio. Insomma, ogni cosa è figlia di tante altre.
 
Dopo il 1992-93 che fa?
Sto fermo per un po’. Poi partecipo ai vari tentativi di ricostituire un soggetto socialista. Con De Michelis diamo vita ad un soggetto non legato all’inizio né al centro-destra, né al centro-sinistra. Poi prevale l’avvicinamento al centrodestra che a me piace poco, per via degli ex fascisti ma soprattutto per via della Lega. Frequento le riunioni di Formica con la Uil. Il suo progetto si fondava sul presupposto che la Uil, essendo l’unico movimento organizzato di ispirazione socialista, potesse diventare l’embrione di un nuovo soggetto attorno al quale riorganizzare i socialisti. Mi rendo conto dopo un po’ tuttavia della sterilità e dell’inconcludenza di tutto questo.
 
Quando Benvenuto diventa segretario, lei lo appoggia?
Sì ma con scarsi risultati, perché lui in realtà si rivela assolutamente inadatto al compito, date le difficoltà del momento. Probabilmente un sindacalista fatica a diventare uomo politico a tutto tondo: anche Del Turco d’altra parte non fece granché meglio.
 
Perché lo votate?
Non c’è nessuno che lo vuole fare. Non è che puoi prendere un passante: l’alternativa era lui o Spini, e non è che fosse un’alternativa entusiasmante.
 
E quindi complessivamente, che giudizio dà delle ultime due segreterie di Benvenuto e Del Turco?
Modesto, politicamente molto modesto.
 
Nel 2000, invece, lei intraprende un nuovo percorso politico.
Da tempo mi andavo convincendo che la cosa migliore fosse, pur mantenendo la fedeltà alle proprie idee e alla propria storia, accettare ciò che i fatti avevano determinato, cioè un sistema politico diverso da quello che noi avevamo conosciuto. Non è un caso che non esista più nessuno dei partiti della prima Repubblica, nemmeno nel nome: la riproposizione nostalgica di una cosa che non c’è più è assolutamente sterile. E quindi m’imbarco in questa avventura, d’accordo con Carpanini che, dopo un originaria militanza nel Psiup era diventato un dirigente del Pci di orientamento riformista. Ma purtroppo muore prematuramente. Appoggio il suo successore Chiamparino, riformista e filosocialista da sempre, il quale mi consiglia di non perder tempo con i Ds, perché non ne vale la pena. Aderisco quindi alla Margherita, che aveva un carattere fortemente innovativo, in cui c’erano cattolici e laici. Ho una grande delusione da Rutelli, che parte come il corno laico della Margherita per finire con l’essere il protettore dei Teodem. Comunque l’approdo è nel Partito democratico, dove oggi mi muovo e lavoro. Naturalmente speravo che altri socialisti di rilievo si muovessero in questa direzione per fare un po’ di massa critica. Invece il Partito democratico è pieno di socialisti, pienissimo, ma tutti con funzioni ancillari, perché non ci sono leaders significativi. La battaglia che combatto oggi è proprio per dare visibilità alla nostra cultura politica. È molto difficile ma, come dicono i preti, oportet ut scandala eveniant.
Nel vecchio Partito comunista mi avrebbero fatto fare il giro d’Italia, sarei stata la Madonna pellegrina, sarei andato a tutte le Feste dell’Unità come testimonianza del fatto che ci sono anche i craxiani «buoni». Poi avrei dovuto valutare se era giusto o opportuno farlo, ma loro me lo avrebbero proposto. Nel Partito democratico si vergognano della mia presenza, o almeno non sanno che farsene di me. Ma non me ne importa: io svolgo un ruolo di battaglia politica e di testimonianza. Faccio le mie cose, parlo con i giornali, sostengo le mie battaglie, scrivo, in attesa che succeda qualche cosa. Siccome prima o poi il sistema politico esploderà di nuovo, meglio essere vivi, attivi e presenti, che non occuparsi solo di libri o di storie del passato.
 
Stavo pensando, proprio sulla base di quell’articolo di Gramellini sulla «Stampa», come si può giustificare a vent’anni di distanza, un odio ancora così forte, viscerale; ci deve essere una ragione, o più ragioni?
Ce ne sono tante, conoscendo Torino, ce ne sono tante.
 
No io mi riferisco in generale, in Italia?
Se mi fossi candidato a Roma, non gliene sarebbe importato niente a nessuno e a Milano anche. Torino è una città castale. Io non sono mai stato della casta, nemmeno quando ero potente; sono sempre contro questa borghesia progressista opportunista, che a Torino campa bene da anni, sotto l’ombrello della sinistra e che detesta tutti quelli che hanno un’idea di primato della politica proprio perché loro campano in quanto la politica non ha nessun primato. E Gramellini è la sintesi superficiale di questi mondi. Poi si aggiunga il brutto cognome, le ostilità che ci sono sempre quando c’è una campagna elettorale e quindi tu devi attaccare il tuo avversario sul punto in cui è più vulnerabile, si consideri che io sono di origine meridionale, e Torino non ha mai eletto nessun sindaco meridionale. Nonostante che i «terroni del nord» siano la maggioranza in città.
 
Glielo domando perché la sensazione è che all’epoca davate, Craxi in primis, l’impressione di una classe politica piuttosto dura, chiusa in se stessa, arrogante; però, dato per scontato questo, non è sufficiente a spiegare, non dico la contrapposizione politica che ci può stare, ma il vero e proprio odio.
È così, eravamo proprio odiati e indiscriminatamente; non contava lo stile. A me alla Camera avevano affibbiato un soprannome. I giornalisti comunisti dal momento che ero socievole con tutti, non alzavo mai la voce, non insultavo nessuno, mi chiamavano «Il craxiano dal volto umano». Questo non mi è servito naturalmente a niente, anzi sono più pericoloso.
 
Un giudizio sul Governo Amato?
Amato ha fatto, probabilmente, quel che poteva fare in quelle condizioni, rivelando naturalmente pur essendo una grande personalità, una personalità con un profilo più tecnico e di governo che non politico. In quel momento serviva un leader politico, che chiamasse il Paese a raccolta, che desse delle prospettive, delle risposte. Cioè serviva un Craxi senza la zavorra giudiziaria. Craxi lo definì una volta maliziosamente: «Un professionista a contratto». Ora, al netto della cattiveria della definizione, effettivamente Amato è sempre stato l’espressione colta, efficiente, tecnocratica di un indirizzo politico che qualcun altro costruiva, non è mai stato il protagonista di un’iniziativa politica. Questo in tempi normali si vede e non si vede, in tempi tragici si vede e come.
 
Che cos’era questa idea di Pannella, nel 1993, di fare delle riunioni fuori dal Parlamento?
La pannellata sì; quello era il raduno dei disperati.
 
Un’idea un po’ strampalata?
No Pannella ha fiuto. Io non sono mai andato, mi sembrava proprio il deposito salme, cioè man mano che uno veniva fatto fuori, passava dalle riunioni ufficiali a quella riunione lì. E lui raccoglieva tutti questi disgraziati alla vigilia della decapitazione. Non mi ha mai interessato. Pannella sollevava però un problema politico giusto, mettendo in evidenza come non si potesse sciogliere un Parlamento che continuava a esprimere una maggioranza e a sostenere un governo. E in effetti nessuno ha mai investigato fino in fondo sui profili di costituzionalità del comportamento di Scalfaro. Scalfaro concorre a una violazione della Costituzione, nel momento in cui scioglie le Camere in assenza di una sfiducia al governo.
 
Nel 1992 il voto aveva dato comunque una maggioranza a Dc, Psi, Psdi e Pli.
Perché il 1992 aveva dato una maggioranza, il governo procedeva, non c’era una ragione ordinaria costituzionale; l’argomento era che il Parlamento era delegittimato perché indebolito da troppi avvisi di garanzia.
 
Perché Craxi non insiste con Scalfaro e passa subito alla individuazione dei tre nomi, Amato, De Michelis, Martelli? Di quei giorni cosa ricorda?
Mi ricordo che lui insiste, insiste; insiste, alla fine Formica, credo, soprattutto Formica gli dice: «Guarda che se tu lo obblighi, Scalfaro dà l’incarico a un altro. Se vuoi l’incarico a un socialista, non devi essere tu».
 
Ma filtra questa notizia di Mario Chiesa e, anche se poi molte cose risultano infondate, arrivano comunque all’orecchio di Scalfaro. Poi c’è il coinvolgimento di alcuni membri della famiglia Craxi, di Bobo, nelle indagini su Chiesa; ma non è un po’ poco?
E certo se Scalfaro avesse deciso di non dare l’incarico a Craxi sulla base di ciò che emergeva dalle indagini, evidentemente è insufficiente. In realtà vale quel che ho raccontato sul mio incontro con il direttore di giornale nel novembre del 1992, cioè c’era un discorso molto avviato di liquidazione generale del sistema in particolare del Psi. Questo spiega perché Scalfaro si sottrae.
 
Anche lei, scusi se glielo chiedo un’altra volta, davanti a queste anticipazioni, ha subìto un po’ il condizionamento nel suo ruolo di guida alla Camera o no?
Bè certo era una situazione in cui non ne eri immune.
 
Perché dentro la ricostruzione sulle ragioni del crollo vorrei capire se La Ganga ha fatto tutto il possibile per preservare il partito nel 1992.
Io ho fatto tutto quello che in coscienza potevo fare per cercare di minimizzare il danno e gestire politicamente l’evento. Il problema è che una parte aveva sottovalutato la gravità della situazione, e un’altra parte del partito si era illusa di poterla volgere a proprio beneficio. Ergo, di fronte a questo ci voleva un miracolo. In più si aggiungeva che nelle condizioni date ogni giorno dovevi improvvisare, cioè mancava il tempo di costruire un’iniziativa politica. Magari tu costruivi un’alleanza con un Tizio, il giorno dopo leggevi che quel Tizio aveva avuto l’avviso di garanzia e quindi era irreperibile, e allora ricominciavi. Era una situazione assolutamente ingestibile.
 
Formica ha detto che tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 partono – lo dice forse ironicamente – una serie di trattative individuali per una fuoriuscita sicura dalla prima Repubblica, in riferimento al comportamento di un po’ tutti voi, cioè al tentativo che fate di smarcarvi da Craxi.
Rino si è smarcato non per ragioni ignobili, ma perché lui effettivamente non condivideva. Io non credo di essermi smarcato: ho cercato di fare le cose che pensavo e che ho detto, in un rapporto di estrema lealtà a Craxi. Ho sempre votato con Craxi, fino all’ultimo giorno, anche quando ripeto la pensavo diversamente, forse per quell’idea di cui sono un antiquato sostenitore, che i gruppi dirigenti in qualche modo devono mantenere la loro coesione sia nei momenti buoni che nei momenti cattivi.
 
Ma ha detto che non votò Forlani?
No Forlani lo votai; non ho votato Scalfaro. Non c’era bisogno di votarlo, comunque non lo votai. Io non sono uno di quelli che idolatrano la disciplina di partito. Ma la solidarietà politica di fondo ci deve essere. Ed è quella che nella crisi mancò al gruppo dirigente socialista, su questo non c’è dubbio.
 
C’è un altro passaggio molto delicato che emerge dalle varie ricostruzioni. Bruno Pellegrino, nel suo libro «L’eresia riformista»[8], racconta che Scalfaro, prima della formazione del nuovo governo, vede Scotti e Martelli; ed è da quel momento che Martelli comincia a seguire un suo percorso individuale, autonomo, e Craxi, una volta che viene a sapere dell’incontro, va su tutte le furie, perché si sente tradito anche a livello amicale, immagino, e affettivo.
Fu un fatto molto grave.
 
La rottura tra Craxi e Martelli può giustificare l’esito di una parte della storia finale?
Non c’è dubbio che la rottura fra i due aggrava la crisi, perché lascia intendere agli avversari che si può agire non solo «contro», ma anche «dentro» il Psi.
 
Quando avviene la rottura?
Avviene prima, ma l’atto formale è questo; quando Martelli e Scotti si fanno sotto con Scalfaro per avere l’incarico di Primo Ministro e di vice presidente.
 
Craxi si sente tradito in quel momento?
Chi non si sarebbe sentito tradito? E poi c’era un giudizio di Craxi d’idoneità all’incarico. Martelli era un uomo brillante, ma non assiduo sul lavoro né costante. Non aveva le fisique du role. Ottimo ministro della Cultura, ma si immagina in quella crisi lì? Almeno Amato poteva esibire il look del grand commis d’Etat, del grande giurista, ma lui neanche quello.
Quell’episodio rappresenta sicuramente il punto massimo di rottura psicologica tra i due, e la rottura fra i due aggrava la situazione, perché è chiaro che Martelli alimenta il dissenso di tanti peones in tutta Italia. A Torino, per esempio, Martelli cerca e incoraggia tutti quelli che possono mettersi contro di me, seguendo lui. È normale in tempi normali, ma è letale in tempi come quelli. Per fortuna io avevo una solida maggioranza, ma non potei impedire che si alimentasse una faida interna. Figurarsi in provincie meno solide.
 
Tra le ragioni della crisi, della ingovernabilità, rientra anche questa frattura, questo dissidio?
Sicuramente. Il Psi era stato un partito molto compatto, almeno al centro e sulle questioni strategiche. La divisione del gruppo dirigente diventa quindi un fattore di ulteriore debolezza.
 
Che esplode nel 1992…
Non c’è dubbio che c’era già. Embrionalmente almeno c’era già, perché Martelli aveva da qualche tempo cominciato a costruirsi canali autonomi di rapporti politici e finanziari. Per capire le dinamiche un marxista direbbe «seguite il denaro».
 
Aveva avuto qualche sentore al riguardo? Come guardava a questo dissidio?
Era noto per esempio il rapporto con il gruppo Ferruzzi.
 
Come viveva il dissidio, che appunto risale a prima del 1992?
Fra Martelli e Craxi non ho mai avuto dubbi, io ho sempre sostenuto Craxi: mi rendevo conto che era in una fase di stanca, ma non c’erano alternative. Martelli era poco affidabile come leader.
 
Già prima, nel 1987-1988, qualcuno comincia a pensare che Craxi può essere sostituito?
No nel 1987 no, perché era un eroe nazionale.
 
Ma tra il 1988 e il 1990, in quegli anni a seguire?
Guardi il declino di Craxi è visibile negli ultimi due anni.
 
Mi domando se da parte vostra c’è stato un momento in cui vi siete detti: «Qualcuno lo sostituirà? Prima o poi?»; pensavate al dopo Craxi, insomma?
Ognuno lo pensava pro domo sua, non c’era una riflessione collettiva, anche perché Craxi fino al 1990 era fuori discussione.
 
Lei si vedeva nei panni del possibile sostituto?
No, mi vedevo nei panni del regista. Ero uno nella condizione di concorrere alla scelta del successore. Per il ruolo che svolgevo nel partito, ero uno il cui appoggio era assai utile: avevo rapporti, influenza e non la esercitavo a fini strettamente personali.
 
Dopo il 1987 alcune sue ambizioni personali vengono frustrate da Craxi?
No, io non le ho mai espresse, anche perché non si dimentichi che dal 1983 ero fermo alle vicende giudiziarie di Torino. Ho attraversato tutto questo periodo con una trafila processuale che si chiude solo nel 1991. Non avevo alcuna particolare ambizione: stavo al mio posto e lavoravo «per la ditta».
 
Nel 1992 fa una richiesta?
Nel 1992 infatti gli chiedo di fare il capo gruppo. Avevo 43 anni, allora; ero un ragazzino per i tempi di oggi. Giovane, ma in una condizione fortunata, perché avevo una lunga esperienza e un grande radicamento.
 
I dissidi con Amato risalgono a prima, però?
Di Amato mi dava solo fastidio il fatto che avesse questo atteggiamento di ostentato distacco verso le miserie della vita politica, di cui naturalmente qualcun altro doveva farsi carico al suo posto. Non avevo dissensi di cultura politica, perché anzi lo stimavo e lo stimo molto.
 
Un atteggiamento umano?
Sì un atteggiamento umano poco solidale.
 
La domanda precedente serviva a capire se Craxi riesce a gestire bene la fase in cui il Psi non guida il governo; com’è la X legislatura dal punto di vista delle dinamiche interne al partito?
L’ultima legislatura è difficilissima, anche dal punto di vista psicologico, per Craxi, perché non riesce a ritrovare un ruolo soddisfacente. Cerca un ruolo internazionale, e riesce ad avere un incarico dall’ONU che svolge benissimo. Eppure dà l’impressione di essere un’anima in pena.
 
Anche voi sembrate delle anime in pena, però?
E ne subiamo le conseguenze. La personalità di Craxi era talmente forte che non era ancor nato il bisogno di costruire il successore. Né credo lui ci pensasse davvero, anche se aveva una moltitudine di potenziali successori. Lui era nella condizione, come fece nel 1992, di arbitrare fra Martelli, Amato e De Michelis.
 
In buona sostanza voi sapevate che nel 1992, l’accordo prevedeva Craxi presidente del Consiglio, Forlani Presidente della Repubblica, e via di questo passo.
A me quello andava bene perché Craxi, secondo me, come uomo di governo poteva ancora dare molto, molto di più che come uomo di partito, dove aveva un po’ esaurito la sua funzione. Ma come uomo di governo aveva sicuramente la credibilità internazionale e interna per fare bene, sicuramente meglio di molti di quelli che lo hanno fatto dopo di lui. Poi purtroppo fu zavorrato da questioni non politiche, ma lui un’altra legislatura avrebbe potuto farla benissimo.
 
Soprattutto aveva creato le condizioni perché tutti voi aspettaste quella condizione per tornare al governo.
Tra l’altro il fatto che lui tornasse al governo andava bene a tutti. Si sarebbe aperta la gara per la successione alla guida del partito e molti sarebbero andati al governo con lui.
 
Serviva una seconda fase.
Non c’erano ragioni per impedire questo disegno.
 
Dopo questi quattro anni complessivamente positivi alla guida del governo, Craxi ha vissuto ovviamente come una retrocessione tornare alle beghe di partito, è per questo che non vi si è dedicato al meglio?
Non c’è dubbio che è così. Infatti in quest’ultimo quinquennio ho più mano libera nelle cose di partito rispetto a prima: mi lascia fare di più non solo perché si fida, ma anche perché tutto sommato de minimis non curat pretor.
 
Il passaggio dai dialoghi con Reagan e con la Thatcher, a quello col segretario di una federazione locale deve averlo vissuto male.
E sì, litigare con il segretario della federazione di Brindisi; questo in democrazia devi metterlo nel conto. Dalle stelle alle stalle, vale per tutti.
 
Leggendo gli articoli, mi aveva colpito come nel luglio del 1988, c’è un’Assemblea nazionale in cui lei fa un intervento; in esso insiste sulla necessità di rinnovare la struttura e la mentalità dei partiti, incluso il Psi. Si sentiva un anticipatore di alcuni temi?
Ero già molto infastidito all’epoca perché proprio in quel periodo cominciavano a manifestarsi gestioni periferiche molto disinvolte. Mi davano fastidio, devo dire, sia da un punto di vista caratteriale perché io non ho mai amato gli eccessi di spregiudicatezza, sia dal punto di vista politico per i rischi di isolamento che determinavano. Non sono una viola mammola, ma ci sono delle regole che bisognerebbe rispettare.
 
Lei era un duro dentro il partito, nel senso che Craxi la mandava in giro a spegnere gli incendi; è così?
Un conto è essere un duro, un conto è essere uno disinvolto. Sono due faccende molto diverse. Ho sempre cercato di essere affidabile e serio.
 
Era un decisionista?
Certo, lo sono e lo rivendico: non ho mai apprezzato quelli che facevano questi pasticci periferici e poi non li risolvevano mai.
 
Quindi si sentiva la “puzza di bruciato” già da prima?
Si sentiva già allora, il rischio di un sovraccarico di ostilità verso la periferia socialista. Quando tu sei un Craxi in sedicesimo, i difetti tendono a prevalere rispetto alle qualità. Cioè Craxi può anche apparire arrogante: glielo perdoni perché ha mille altre qualità. Un piccolo notabile di Abbiategrasso, se è arrogante è solo arrogante. E altri mille suoi concittadini lo detestano. E quando l’ostilità, anche per effetto dei media, diventa largamente diffusa, ti trovi un popolo che odia un partito. Le condizioni ideali entro cui si può sviluppare un «complotto», una sinergia di forze ostili.
 
L’avversione forse nasce più in periferia e poi si trasmette al centro?
Secondo me sì, e l’epicentro è la Lombardia, dove c’era il craxismo più arrogante.
 
Non nel Mezzogiorno?
Nel sud sono purtroppo abituati da 2000 anni a certe modalità nell’esercizio del potere. Non era lì l’epicentro dell’ostilità.
 
Leggendo il libro di Lelio Lagorio, «L’esplosione», mi ha colpito un punto in cui lui riporta una segreteria [dell’11 ottobre 1990], in cui Martelli interviene dicendo: «Scateneranno [i comunisti] una campagna scandalistica contro di noi» – siamo dunque ben prima del 1992 – e Craxi risponde: «Dove a Viareggio?»; «No, a Milano!», fa Martelli[9].
Quello è il 1990-91, quando c’è l’inchiesta su Pillitteri; la cosiddetta «Duomo connection», dove mette lo zampino Ombretta Fumagalli[10].
 
Martelli aveva le antenne meglio posizionate di Craxi per leggere certi segnali?
Probabilmente qualcuno lo aveva informato; poi sa lui già allora studiava per la successione.
 
Craxi non aveva nessun sentore?
Craxi rispetto alle questioni giudiziarie era un naif; perché aveva una cultura tutta politica, in cui il diritto lo fa la forza. Le sembrerà paradossale, ma è così: lui stentava a capire certi meccanismi.
 
Passo a due suoi articoli sull’«Avanti!» del maggio del 1991. Certo ragiono a vent’anni di distanza ed è molto più semplice con il senno del poi, però mi hanno colpito i suoi apprezzamenti per l’esito delle amministrative del maggio del 1991 in cui, per esempio in Friuli, il Psi aveva avuto un exploit.
Ma sì siamo sempre andati bene alle elezioni, fino allo scoppio del caso Chiesa.
 
Qualcuno ha detto che il Psi viene colpito, non nel momento del suo decadimento elettorale, ma in una fase di grossa tenuta.
Infatti così avviene nel 1991; gli scricchiolii erano propri di un sistema politico o di una percezione politica. Non si trattava di semplici scricchiolii elettorali.
 
Quindi a distanza di vent’anni, riflettendoci, lei non pensa che ci potessero essere delle avvisaglie di questa fragilità?
Se lei guarda i risultati elettorali no. Pensi a Torino, per esempio. Il miglior risultato elettorale dalla Liberazione lo raggiungiamo proprio nel 1992.
 
Quanto prendete?
Prendiamo il 15,3%.
 
Quindi, in piena bagarre il partito tiene.
Il massimo storico dal 1948, e per di più nel 1992! Mentre Milano inizia a calare, Torino raggiunge in quel momento l’apice. Quindi la crisi era tutta in incubazione, ma non ancora emersa. Infatti la Lega intaccava soprattutto l’elettorato della Democrazia cristiana.
 
Ancora non aveva rosicchiato l’opposizione. L’episodio di Mantova arriva nel novembre ‘92?
Sì Mantova arriva a “golpe” avviato, con la famosa manifestazione Occhetto-Martelli.
 
Ma quindi è una semplice battuta la definizione di «golpe» o c’è del vero?
No è una battuta; io lo definisco tra virgolette. Non credo al «golpe», ma a tanti piccoli «golpe», ognuno ha fatto il suo.
 
Comunque un’altra tesi è l’implosione, cioè il partito implode in se stesso. È credibile?
Sicuro il partito implode per il concorso di una serie di fattori, e per la mancanza di un leader in grado di raccogliere il testimone, né per via consensuale, né per via conflittuale. Perché tu puoi raccogliere l’eredità anche per via conflittuale. Chi voleva raccoglierlo per via conflittuale non aveva i titoli né politici, né morali, chi lo voleva raccogliere in modo consensuale non ne ha avuto la capacità. È impressionante come Benvenuto e Del Turco rivelino la loro fragilità, non so se per limiti soggettivi o per ragioni oggettive dovute alle particolari circostanze.
 
Le circostanze pesavano sicuramente. Erano difficili quei momenti?
Sì però anche gli aspetti soggettivi in genere hanno il loro peso.
 
La scelta di Benvenuto non poteva anche significare che dietro ci fosse l’idea di mettere una figura debole per controllarla meglio? Ha pesato questo?
No la ragione per cui Craxi, cedendo alle pressioni di Formica, quindi non a uno dei suoi giannizzeri, mette Benvenuto è semplice. Chiedo a Craxi: «Ma dobbiamo davvero sostenere Benvenuto?» E lui mi risponde: «Guarda, purtroppo è quello che è, ma è l’unico che ha esperienza di governo di un corpo collettivo complesso». È vero dei socialisti a piede libero, lui e Amato erano gli unici papabili.
 
Benvenuto dopo il primo incontro con Craxi, quando quest’ultimo gli presenta la situazione del partito, il giorno seguente prende l’aereo e va a Milano a parlare con i giudici. Come mai?
Benvenuto rivela in quell’occasione una certa fragilità caratteriale che Craxi aveva sottovalutato; anche perché Formica si era fatto garante. Tenete presente che Craxi in quel momento non era lucidissimo. Formica, suo vecchio compagno d’armi, gli dice: «Mettiamo Benvenuto». Lui si convince, dicendo che non c’era molto altro. Cosa altro poteva fare?
 
L’impressione è che i voti dei craxiani confluiscano su Benvenuto anche perché lo consideravate un carattere mite, malleabile, e, quindi, in qualche modo controllabile.
Ma no, qual era l’alternativa? Spini? Lì si votava o per Spini o per Benvenuto.
 
Perché Amato invece, che era stato candidato da Craxi come delfino, non si propone?
Amato avrebbe dovuto fare il segretario.
 
Ma aveva già detto di no.
Appunto, è stato il grande tradimento di Amato in quel momento. Perché Amato era l’unico che aveva il profilo per poter tentare una gestione alla Martinazzoli, per tenere comunque viva una presenza politica. Sottraendosi lui, si deve ripiegare su Benvenuto.
 
Alcuni giudicano Formica come uno che in qualche modo ha tradito Craxi; altri sostengono di no, che era una delle poche persone che aveva il coraggio di dire a Craxi come la pensava in piena sincerità. Che ne pensa?
Io sono per la seconda tesi. Rino è un vecchio compagno d’armi di Craxi, ha un aspetto caratteriale che lo contraddistingue: ha un’intelligenza mefistofelica, quindi possiede il gusto per le battute corrosive, per la critica, per gli scenari. A volte eccede, però non darei un giudizio negativo o severo. Rino è un magnifico uomo di squadra. Un uomo come lui ci vuole, perché dice le cose, perché è combattivo, fargli guidare la macchina poi…non so. Secondo me lui è un eccellente membro di un gruppo ristretto.
 
Non era il pilota, ma uno necessario per un team?
Esatto. Ma guardi che nella gran parte dei casi gli uomini intorno a Craxi avevano proprio queste caratteristiche, di essere eccellenti membri di un team, ma non necessariamente con il bastone di maresciallo nello zaino. Forse li sceglieva apposta o forse erano le circostanze che li formavano in quel modo lì.
 

[1] Lo scandalo scoppia nella primavera del 1983 e vede anche coinvolto il vicesindaco socialista Biffi Gentile.
[2] Luciano Barca, Cronache dall’interno del vertice del Pci, 3 volumi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 1121-25.
[3] Lettera di Rino Formica al «Foglio», 18/06/2011, p. 2.
[4] Claudio Petruccioli, Rendi conto, Il Saggiatore, Milano 2001, pp. 108-9.
[5] Giuseppe Sangiorgi, Piazza del Gesù. La Democrazia cristiana negli anni Ottanta: un diario politico, Mondadori, Milano 2005, pp. 349-50.
[6] Ernesto Galli della Loggia, Tre giorni nella storia d’Italia, il Mulino, Bologna 2010.
[7] Massimo Gramellini, La Casta e La Ganga, «La Stampa», 15/04/2011, p. p.   
[8] Bruno Pellegrino, L’eresia riformista. La cultura socialista ai tempi di Craxi, Guerini e Associati, Milano 2010, pp. 214-5.
[9] Lelio Lagorio, L’esplosione. Storia della disgregazione del Psi, Polistampa, Firenze, 2004, pp. 42-45.
[10] La «Duomo Connection» fu un’inchiesta aperta dalla Procura di Milano nel 1989. Furono indagati per corruzione, in merito ad alcune concessioni edilizie, il sindaco socialista Paolo Pillitteri e l’assessore all’urbanistica, Attilio Schemmari. L’inchiesta era, però, inizialmente partita da indagini sul traffico di droga a Milano. La posizione di Pillitteri fu archiviata al termine delle indagini preliminari.
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