Libero, 17 ottobre 2024
Intervista a Giorgio Vallortigara, neuroscienziato
Era un bambino, Giorgio Vallortigara, professione neuroscienziato, quando capì che il cervello era un labirinto in cui si trovava benissimo. Già direttore del Centre for Mind-Brain Sciences dell’Università di Trento, dove oggi insegna, è Adjunct Professor alla School of Biological, Biomedical and Molecular Sciences dell’Università del New England (Australia) e Fellow della Royal Society of Biology. È tra i pochi scienziati europei ad avere ottenuto per due volte il prestigioso Erc Advanced Grant, è stato insignito del premio internazionale Geoffroy Saint Hilaire per l’etologia e di una laurea ad honorem dall’Università della Ruhr.
Ad aver instillato in un ragazzino l’ossessione per circuiti e reti neurali è stato un esserino spietato, il formicaleone, il brutto anatroccolo della libellula. Allo stadio larvale, scava un cono nella sabbia e lì, sul fondo, aspetta la preda. L’instabilità del terreno e l’inclinazione delle pareti rendono la buca la trappola perfetta: quando un insetto cade, la larva lancia altra sabbia sulla preda e il resto fanno le mandibole. «Venni incuriosito da questa capacità geometrica e atroce. Cominciai a chiedermi come facesse un sistema nervoso così piccolo a fare cose tanto complicate» – racconta – «Questa passione mi perseguita ancora oggi: spesso studiamo gli elaborati processi del nostro cervello, ma in realtà ci è già difficile capire ciò che fa una formica».
Per dichiarare di essere più intelligenti degli altri animali ci vuole, cioè, una ragguardevole dose di autostima perché il cervello umano non ha nulla di diverso da quello dagli altri: gli elementi costituenti, i neuroni, sono gli stessi e le funzioni, pure. Come noi, le creature sono più o meno capaci di risolvere problemi, fare inferenze, intuire le numerosità, che si tratti di oggetti inerti o animati. I pulcini, per esempio, sanno compiere operazioni aritmetiche senza che nessuno gliele abbia insegnate (Vallortigara lo spiega nel saggio Il pulcino di Kant, Adelphi, pp. 171, 20 euro), i corvi hanno abilità ricorsive, sono in grado di ragionare per incisi o parentesi, le api possono distinguere un Picasso da un Monet. Il neuroscienziato è stato ospite del podcast Il disordine delle cose per parlare di fantasia.
Come funziona la rete neurale grazie alla quale siamo in grado di creare immagini, di trascendere, pianificare, organizzare il futuro o contemplare alternative?
«Quando parliamo di fantasia dobbiamo fare riferimento a facoltà di tipo visivo. È una capacità che viene svolta nella corteccia visiva: quando immaginiamo una mucca rosa si attivano le stesse zone del cervello che si attivano quando vediamo una mucca».
È emerso recentemente che non è una capacità universale…
«Ci sono persone che dichiarano di non essere in grado di creare immagini visive e quindi di avere sempre inteso i riferimenti alle immagini mentali – “contare le pecore”, per esempio – come generici processi di pensiero. Questa condizione è stata chiamata “afantasia”».
Come è stata scoperta?
«Il neurologo inglese Adam Zeman aveva un paziente che, dopo aver subìto un’operazione al cervello, dichiarò di aver perso la capacità di formare immagini mentali, come se l’occhio della mente fosse cieco. Zeman scoprì che una ridotta percentuale di persone, fin dalla nascita, non possiede questa facoltà. Ovviamente, è una capacità distribuita come un continuum: ci sono persone con “afantasia”, altre che hanno una fantasia estremamente vivace».
Quanto conta la memoria?
«Moltissimo, le immagini mentali sono una combinazione di ricordi. Probabilmente nessuno ha mai visto una mucca rosa ma ricombiniamo la memoria del colore rosa con quella di una mucca».
Come si comporta quindi il cervello dei soggetti con “afantasia”?
«Il cervello non immagina unicamente attraverso le immagini mentali. Prendiamo il gioco del tetris, per esempio: per coloro che manifestano “afantasia” dovrebbe essere irrisolvibile perché si tratta di ruotare mentalmente dei blocchetti. Eppure, riescono a completare il gioco. Il che suggerisce che costoro sembrano non avere esperienza dell’immagine mentale, ma hanno la capacità interna di operare sull’equivalente dell’immagine».
Come se svolgessero un’operazione matematica: non sono in grado di rappresentarla ma riescono ad arrivare comunque alla soluzione…
«Sì, ci fu il famoso caso molto famoso del matematico indiano, Srinivasa Ramanujan, che visse a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, il quale non ebbe mai un’istruzione regolare, aveva solo una vaga idea di ciò che costituisse una dimostrazione matematica, ma visualizzava letteralmente i teoremi. È un’intuizione silente, inconscia, che è stata descritta per molti processi creativi».
Come i soggetti che dichiarano di percepire ogni suono con una sensazione colorata. Per alcuni è questione di tonalità, per altri il
timbro: c’è chi associa i suoni acuti con colori più chiari, chi i suoni gravi con colori scuri.
«È un fenomeno che viene chiamato sinestesia, è un’associazione stretta e precisa tra modalità sensoriali diverse. Capita anche a molti matematici: i numeri corrispondono a colori o a suoni diversi».
Quanto della nostra facoltà di immaginare condividiamo con le altre specie viventi?
«Abbiamo il problema dell’impenetrabilità delle esperienze vissute in prima persona: possiamo solo inferire ciò che altri pensano sulla base del loro comportamento e, in parte, tramite l’osservazione di ciò che accade nel cervello. Ma ciò che provano un pipistrello, una rana o mia moglie lo sanno solo loro. Però ci sono molte prove del fatto che altri animali hanno esperienze che possiamo considerare equivalenti all’immaginazione».
Ci fa qualche esempio?
«Gli animali sanno risolvere compiti di aggiramento, che è il paradigma del comportamento intelligente: quando, cioè, la preda da raggiungere ha una barriera davanti. Per concludere il compito è necessario allontanarsi temporaneamente, perdere di vista l’obiettivo ma tenerlo a mente. Ci sono poi dimostrazioni dirette dell’immaginazione visiva: le scimmie ruotano le immagini, come noi. E i piccioni sono straordinari: riconoscono la variazione angolare di un oggetto indipendentemente dalla quantità o dalla distanza. L’ape, infine, sa categorizzare in maniera astratta degli stimoli come «eguali» o «diversi», indipendentemente dalla natura e dalle caratteristiche degli stimoli stessi».
Novecentosessantamila neuroni, quelli dell’ape, contro ottantasei miliardi, i nostri. Se pensate che siano un irrilevante surplus, leggete Vallortigara.