La Stampa, 17 ottobre 2024
Intervista ad Alessandro Barbero, che va in pensione
Vercelli – Scatoloni pronti per essere imballati, libri accatastati e, sulla scrivania, tre tesi di laurea, discusse poche ore prima. Il professor Alessandro Barbero sta per traslocare dal secondo piano di Palazzo Tartara, espansione ottocentesca dell’Ospedale di Vercelli fondato nel 1224 dal cardinal Guala Bicchieri.Va in pensione lo storico che ha rovesciato il paradigma del Medioevo come epoca buia e che, su YouTube, ha ottenuto due milioni di visualizzazioni con una lezione su Cavour. A Vercelli, Barbero è arrivato nel 1998, l’anno di fondazione dell’Università del Piemonte Orientale, come docente di Storia Medievale.Perché va in pensione?«Il destino mi ha riservato la fortuna di trovare attività gratificanti anche al di fuori dell’Università. E, dopo 40 anni nei quali ho orgogliosamente insegnato Storia medievale, mi sono accorto che il lavoro di docente è diventato inutilmente più gravoso. La burocratizzazione del nostro mestiere, il tempo passato a svolgere attività che un amministrativo farebbe molto meglio, la pretesa di trasformare studiosi e ricercatori in capi ufficio ha reso stressante un lavoro bellissimo. Non voglio provare l’ansia di sprecare il mio tempo in attività che non sono quelle per le quali mi sono formato e siccome sono sufficientemente vecchio per ricordare un periodo in cui le cose funzionavano in modo diverso, credo sia il momento di lasciare».I suoi superiori come l’hanno presa?«Nell’Università non ci sono superiori, al di là di una gerarchia per molti aspetti iniqua tra professori ordinari, associati e ricercatori. Chi assume funzioni dirigenziali è un tuo pari che hai votato e che, dopo qualche anno, tornerà al suo posto. L’attuale società, però, incentiva una certa deriva verso le gerarchie, anche nelle scuole e questo, secondo me, è uno dei mali del sistema. O magari sono io che, a 65 anni, tendo a vedere gli aspetti negativi piuttosto che i lati positivi del presente».Ventisei anni nello stesso ateneo...«Quando sono arrivato, questa Università era stata la seconda facoltà dell’Università di Torino, cresciuta grazie a studiosi di grandissimo valore, docenti che magari non si sono fermati a Vercelli per l’intera carriera ma hanno dato il proprio contributo a far nascere il progetto. E la città ha risposto fin da subito molto bene».Non ha mai pensato di trasferirsi in un ateneo più grande o più conosciuto?«Le grandi università offrono maggiori opportunità per chi voglia spendersi a livello organizzativo, curare progetti e cercare finanziamenti e agli studenti garantiscono un ventaglio di corsi maggiori. A me, però, interessa fare ricerca e insegnare. E un ateneo di medie dimensioni è decisamente la situazione ottimale. Sfianca meno per la quantità di esami da fare e di tesi da seguire e consente un rapporto più diretto con i ragazzi».Ne sono passati tanti dalle sue lezioni?«Dalle aule tantissimi: faccio tra i 200 e i 250 esami l’anno, niente rispetto ai numeri dei colleghi delle grandi Università, ovviamente. Ma abbastanza per poter dire che la qualità dei giovani, negli anni, non è cambiata. La quantità di teste, di gente appassionata è sempre la stessa. Certo, ogni generazione ha caratteristiche sue: oggi i ragazzi sono forse più fragili, più spaventati dall’incertezza del futuro e timorosi rispetto al passato, ma l’intelligenza e la passione che dimostrano nella ricerca non sono diminuiti».Vengono in molti a chiederle la tesi?«No, a dire il vero».Sorprendente. Si è chiesto il perché?«Il mio è un settore di ricerca un po’ specifico. Negli ultimi tempi, poi ho avuto l’impressione che ci fosse un po’ di timore, che i ragazzi si facessero qualche problema nel venire in questo ufficio».Effetto collaterale della notorietà? Lei è un docente che mette in soggezione?«Non credo. Confesso di non essere un grande maestro: lascio molta libertà agli studenti, cosa che ritengo positiva, ma non inseguo chi viene a chiedermi la tesi e poi, per qualche motivo, si perde lungo il tragitto».La sua prima aula?«In uno stabile a pochi passi dalla stazione, una struttura prefabbricata in cemento, a due piani. Poi nell’ex collegio dei poveri. Oggi abbiamo locali prestigiosi, nell’area della basilica di Sant’Andrea. È una bella caratteristica dell’Università italiana quella di occupare spazi antichi, magari meno funzionali di quelli avveniristici costruiti in altri Paesi, ma ricchi di fascino. Però quel che conta, alla fine, sono i ragazzi che hai davanti. I loro sguardi, la loro curiosità sono uguali dappertutto, nel prefabbricato così come nell’aula del 1700».Dipartimenti umanistici come il suo spesso sono eccellenze ma rischiano di essere un vaso di coccio rispetto alle facoltà mediche, tecnologiche o economico-giuridiche.«Occorre fare una distinzione: da un lato ci sono la professionalizzazione offerta dagli studi e gli sbocchi professionali a essi collegati. E qui le prospettive non sono cambiate negli corso degli anni. Ma i nostri laureati insegnano tutti: è un lavoro che magari non li renderà ricchi, ma può essere molto gratificante. La narrazione secondo cui un laureato in lettere sarà un disoccupato è falsa. Va da sé, però, che nella dimensione attuale, in cui l’università è fortemente aziendalizzata, un dipartimento umanistico offra meno occasioni per collaborare con l’economia del territorio. E in un mondo in cui anche le carriere dei docenti si misurano sulla capacità di portare finanziamenti, i dipartimenti umanistici soffrono. L’errore sta nel pensare che tutti vadano valutati nello stesso modo. Noi alleviamo quella parte di popolazione che vuole ragionare sulla storia, la filosofia, la lingua, i motivi per cui stiamo al mondo. Ed è una funzione indispensabile per il benessere della società: i nostri laureati magari non diventeranno ricchi, ma saranno il lievito che fa crescere le nuove generazioni».Le chiedono mai un consiglio sull’università a cui iscriversi?«A chi lo fa rispondo che in Italia l’Università recluta lo stesso tipo di docenti con la stessa qualità media. Non solo: alcuni degli atenei più prestigiosi si trovano in città di medie dimensioni, pensiamo a Pisa o a Padova. Noi docenti facciamo tutti lo stesso percorso, gli stessi concorsi ed è sbagliato pensare che se non si va a studiare in un grande centro non si avrà il meglio».Tempo fa c’era chi sosteneva che le giovani (e piccole) università fossero nocive per la qualità del sistema formativo. Immaginiamo non condivida.«Qualche anno fa, una ricerca nazionale classificò l’Università del Piemonte Orientale al secondo posto per il numero di studenti primi laureati della loro famiglia. Al primo posto c’era l’Università della Calabria. A me è sembrata una cosa bellissima, di cui sono enormemente orgoglioso, ed è la dimostrazione che certi atenei possano fare la differenza per il loro territorio, offrendo la possibilità di laurearsi a giovani che altrimenti farebbero maggior fatica a proseguire gli studi».