La Stampa, 17 ottobre 2024
Il "bunkerino" di Falcone
Palermo – Il “bunkerino” di Falcone e Borsellino, dove i due giudici, insieme con uno sparuto numero di “volontari”, fecero la storia dell’antimafia entra nel novero dei “luoghi preziosi” di Palermo fatti rivivere, anno dopo anno, dalla bellissima rassegna realizzata dalla Fondazione “Le Vie dei Tesori”. Ed è innegabile come quel luogo, carico di emozioni, di memoria e di storia, meriti a pieno titolo di esser restituito alla collettività e soprattutto alle nuove generazioni.Oggi è un museo che racconta le gesta dei due eroi, “risuscitati” dalla dedizione di Giovanni Paparcuri, servitore dello Stato sopravvissuto alla strage che stroncò la vita del giudice Rocco Chinnici. Ma ha poco del museo, il bunkerino, perché scrivanie, sedie, vecchie macchine per scrivere e stampanti, ogni oggetto, ogni documento, acquistano vitalità scavando nella memoria.Prima del “bunkerino” la Sesta sezione dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, titolare delle indagini che avrebbero dato vita al Maxiprocesso contro la mafia, stava in un seminterrato con finestre che davano sulla strada. Fu proprio la “strage Chinnici”, estate 1983, che portò all’attenzione generale il grosso problema della sovraesposizione dei magistrati antimafia e i relativi deficit di sicurezza. Fu necessario trasferire il neo nato pool antimafia (allora composto da Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta) in un ambiente più sicuro: l’ammezzato del “palazzaccio” opportunamente fortificato. Così nacque il “bunkerino”, con la sua cassaforte per custodire i preziosi documenti, con le sue porte blindate e le telecamere, mai viste prime ma molto gradite, specialmente da Giovanni Falcone che le utilizzava soprattutto per tenere a distanza i giornalisti e gli avvocati che gli facevano perdere tempo.Chi oggi ha i capelli bianchi (i cronisti di quella stagione), ricorda ancora la lotta quotidiana per riuscire a sfiorare le porte degli uffici di Falcone e Borsellino, la battaglia con gli uomini delle scorte che facevano muro, la gentilezza decisa di Antonio Montinaro, capo della sicurezza di Falcone, che ti respingeva raccontandoti una barzelletta.Ogni angolo di quell’ambiente, ogni oggetto potrebbe raccontare una storia. Borsellino stava dietro una scrivania immediatamente visibile se si apriva la porta d’ingresso e alle sue spalle campeggiava la mitica cassaforte ricolma di carte. Il giudice vi custodiva il suo prezioso “libretto” fitto di nomi e numeri, strumento essenziale per recuperare i fascicoli che contenevano vita, morte e “miracoli” di ciascuno dei 476 imputati del “Maxi”. Borsellino custodiva la chiave della cassaforte, solo lui. Chiunque avesse necessità di aprirla doveva rivolgersi a lui. Ed era oggetto di qualche ironia, questa “esclusiva”. Una volta Falcone, che con l’amico scherzava su tutto, anche sulle cose “pesanti”, gli disse: «Sai Paolo, penso che dovrò farmi fare una copia della chiave». Quindi, di fronte allo sguardo interrogativo dell’altro, aggiunse: «Sì, perché se ti ammazzano come farei poi ad aprire la cassaforte e continuare a lavorare?». E Borsellino, pronto: «Non c’è problema, tanto ammazzano prima te». Ridevano spesso del loro destino, i due amici.La stanza di Falcone era la prima a sinistra ed è quella dove ancora oggi sono custoditi i cimeli carichi di ricordi recuperati dal buon Paparcuri. C’è il famoso impermeabile antiproiettile che non superò il collaudo perché non dava garanzie sufficienti e rimase inutilizzato. E i sigari del giudice: ci fu un periodo che Falcone abbandonò le Philip Morris per tenere nei cassetti i “toscani” tranciati a metà. Ed ecco ancora le penne, tutte rigorosamente stilografiche, che il magistrato curava con attenzione maniacale. Ma la sua passione era tutta per una stilo che aveva la sua bella storia. Falcone era riuscito ad “estorcerla” all’amica scrittrice francese Marcelle Padovani (con cui scriverà il libro Cose di Cosa nostra). «Bella questa penna», le diceva ogni volta che Marcelle la usava per prendere appunti. «È un regalo del presidente Mitterand», replicava lei come a voler sottolineare che non avrebbe potuto separarsene. Ma lui non demordeva: «Davvero bella questa penna». Fino a quando la Padovani non cedette e gliela regalò. Quella penna poi è tornata alla scrittrice che la recuperò dopo la strage di Capaci.E le papere, le famigerate papere: di legno, di vetro, di marmo, di ceramica, bianche e colorate, in piedi e sedute col becco sporgente o in posizione di riposo. Teneva un esercito di papere Falcone e le custodiva con molta attenzione sfidando anche gli sfottò di Borsellino e gli scherzi. Una volta dalla bacheca dedicata alle papere ne scomparve una, bella, tra le più care all’amico Giovanni che mise in moto una vera e propria macchina investigativa per scoprire dove fosse finita. Ma le indagini languivano, fino a che sulla scrivania trovò un biglietto, un “pizzino” estorsivo che recitava: «Se la papera vuoi trovare cinquemila lire mi devi dare». Non si è mai saputo se il riscatto fu pagato, di certo la papera tornò al suo posto e l’episodio ebbe risonanza in ogni stanza del “bunkerino” come una favola dal titolo “La papera rapita”.Sui tavoli campeggiavano le monumentali macchine che Paparcuri aveva reso utilizzabili per una antidiluviana operazione di digitalizzazione delle carte processuali, che comunque riusciva a far guadagnare tempo prezioso nella lotta per chiudere in tempo il processo monstre. Lotta a cui partecipò anche Francesca Morvillo, magistrato e moglie di Falcone, con la sua capacità organizzativa e il grande amore per il suo Giovanni. Proprio il “bunkerino” restituirà un ricordo straziante della tenera e tragica storia dei due. Un biglietto che Francesca, per pudore, aveva quasi “nascosto” all’interno di un libro che Giovanni stava leggendo: «Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore. Francesca». Quanta umanità alberga ancora in quel “bunkerino” che non fu soltanto ufficio, ma vita e ideali condivisi.