La Stampa, 17 ottobre 2024
Zagrebelsky sui centri per migranti in Albania agli studenti
«Nel mondo globalizzato in cui siamo il destino di qualcuno è anche il destino degli altri, non ci si salva da soli, a meno che si sia disposti a operare con politiche di violenza». Il che significa, come Gustavo Zagrebelsky specifica subito dopo, rispedire i migranti a casa loro, oppure «prenderli e metterli insieme nei non luoghi, per esempio questa nuova struttura in Albania», concepita e realizzata «fuori dal perimetro della civiltà». Gli argomenti del professore 81enne, nonché ex presidente della Corte costituzionale, sono rivolti a una platea di ragazzi di cinque scuole superiori torinesi, coinvolte in altrettanti progetti su parole-chiave in tema di accoglienza nel quadro del Festival organizzato da Pastorale migranti.Studenti e studentesse del liceo Copernico hanno appena finito di presentare il loro lavoro incentrato sul termine “salvagente” – breve storia terribile dei viaggi della disperazione, dalla strage al largo di Lampedusa di undici anni fa (368 morti nel naufragio di un barcone), e quella di Cutro del febbraio dell’anno scorso (94 vittime), per risalire all’annegamento di 35 italiani nell’affondamento del Titanic del 1912, all’epoca della nostra migrazione -, quando Zagrebelsky porta il suo attacco ragionato alla gestione della questione migranti: «Ci sarebbe l’accoglienza, con i costi connessi, e c’è il primo modello opposto, il respingimento, con le navi militari che bloccano quelle delle Ong e rimandano sulle coste dell’Africa quanti cercano di approdare sulle nostre sponde, un dramma, una tragedia». Un ritorno all’inferno causato da «politiche di cui dovremmo vergognarci, quando invece ci facciamo forti della nostra civiltà giuridica», aggiunge il giurista dopo aver sottolineato il dramma del sogno di una nuova vita andato in frantumi «a due passi dalle nostre coste».E poi c’è la terza strada, all’italiana, quella che porta dall’altra parte dell’Adriatico: consiste nel «prendere i migranti e metterli insieme in quelli che la sociologia chiama non luoghi, per esempio le strutture in Albania. Il governo della Gran Bretagna immaginava di portare queste persone su un’isola dell’Oceano indiano, noi, nel nostro piccolo, abbiamo costruito dei centri, come chiamarli, di “accoglienza”..? In un Paese il cui governo ha già detto che non ci metterà il naso». Su quel che possa succedere lì dentro si aprono scenari inesplorati ma potenzialmente inquietanti: «Noi siamo distanti, c’è il mare di mezzo – spiega Zagrebelsky – e questi luoghi saranno sottratti al controllo dell’autorità giudiziaria: le persone raccolte in questi centri saranno sottoposte al potere, speriamo benevolo e civile, delle guardie del campo».Tutto ciò avviene a discapito del principio, su cui poggiano le basi della nostra civiltà, «che chiunque sia sottoposto a un potere costrittivo ha il diritto rivolgersi a un giudice. Questo diritto però, in quelle situazioni di non luogo, sulla carta è affermato, ma nella pratica vedremo…». Ecco cos’è, nell’affondo di Zagrebelsky, la «terza via» ideata dall’esecutivo Meloni: «Luoghi fuori dal perimetro della civiltà, come mandare i migranti sulla luna o su Marte: non li vediamo più e non fanno più storie».Intanto i ragazzi delle scuole si avvicendano sul palco del festival proponendo la loro visione del problema: Davide, dell’istituto Sommeiller, racconta il lavoro del suo gruppo a partire dalla parola “riconoscimento”, «concetto cruciale per l’inclusione di gruppi marginalizzati e delle diversità». Il giurista commenta citando Socrate – «conosci te stesso, dopodiché riusciremo a stabilire rapporti con i nostri simili», quindi si sofferma sul senso dell’integrazione: «È una bella cosa se si fa convivere più soggetti sullo stesso piano», ma può trasformarsi «in una forma di violenza se devi rinunciare a essere te stesso: vorrei sostituirla con interazione, che implica accoglienza dei diversi. Ti accetto e sono curioso di te perché penso che le tue esperienze siano preziose anche per il mio modo di vivere. Così si cresce insieme».Riconoscere le culture di comunità diverse dunque, ma a una precisa condizione: «La violenza non può essere mai accettata neanche all’interno delle singole comunità, penso alla posizione della donna in certe letture dell’Islam». Umanità, ospitalità, intelligenza, le parole contenute nei progetti degli studenti trasmettono una sensazione tranquillizzante, ma il professore li mette in guardia: «Limitarsi alla buona coscienza è troppo facile, la prospettiva è darsi da fare».D’altra parte, neanche la disposizione d’animo di apertura nei confronti degli stranieri può essere gratis: «L’accoglienza di queste persone costa, costa… Se siamo ben disposti nei loro confronti dobbiamo anche essere disposti a rinunciare a una parte del nostro benessere materiale, a mettere in discussione il nostro tenore di vita, a investire le nostre ricchezze per creare le condizioni nelle quali le persone che vengono da fuori non siano emarginate».