Corriere della Sera, 17 ottobre 2024
La prima donna che corre più veloce di un uomo
La prima donna capace di correre più forte di un uomo, anzi di tutti gli uomini, si chiama Ruth Chepngetich, ha 30 anni e una figlia di 14 ed è uno scricciolo di un metro e 65 per 46 chili. Fino a domenica scorsa questa ragazza keniana era nota solo agli statistici dell’atletica. Ruth aveva vinto l’oro in maratona ai bollenti Mondiali di Doha 2019, certo, ma da allora si era dedicata solo alle prove più remunerative come Chicago, conquistata due volte. E in pista vantava primati risibili. Altre le eroine delle lunghe distanze: le keniane Kipyegon e Chebet, le etiopi Tsegay, Gidey e l’olandese Hassan, capaci di inanellare record e medaglie olimpiche.
Tutto è cambiato proprio a Chicago, dove Chepngetich ha chiuso la celebre 42 chilometri in 2h09’56” demolendo il muro delle 2 ore 10’ e abbassando di 1’57” il già spaventoso tempo stabilito nel 2023 dall’etiope Assefa. Nelle tabelle portoghesi (dicitura tecnica delle schede di punteggio) che determinano il valore di ogni prestazione dell’atletica, i 1.339 punti di Ruth sono l’unico tempo femminile nelle gare di corsa migliore del maschile. Il differenziale cronometrico tra il record del compianto Kelvin Kiptum e quello di Chepngetich (-7.8%) è di gran lunga il più basso. Il passaggio di Ruth ai 10 mila metri (30’14”) sarebbe record nazionale in 140 Paesi (Italia inclusa), quello alla mezza maratona (1h04’16”) la quinta prestazione mondiale di sempre. Solo cinque maschi azzurri nel 2024 hanno corso più veloce i 42 chilometri.
I ricercatori si stanno scervellando nel cercare una spiegazione fisiologica a una prestazione che dimezza il gap tra donne e uomini. Vent’anni fa un articolo pubblicato da Nature ipotizzava che la parità di prestazioni tra i sessi in maratona sarebbe arrivata prima del 2100 in base ai grandi vantaggi che derivano al genere femminile da un meccanismo di utilizzo dei grassi più efficiente, peso corporeo ridotto e miglior capacità di sopportare la fatica. Studi recenti hanno smentito la tesi: il massimo consumo di ossigeno (cifra distintiva della qualità di un’atleta) dei maschi di élite è del 20% superiore rispetto a quello delle donne (85-90 ml/min/kg contro 68-70), la forza muscolare molto più alta e il vantaggio in termini di potenza è colmabile dalle ragazze soltanto su distanze superiori ai 150-200 chilometri, ovvero le ultramaratone dove le statistiche parlano di convergenza. «La prestazione di Chepngetich è spaziale – spiega Antonio La Torre, direttore tecnico della Nazionale italiana – e per valutarla compiutamente serviranno studi approfonditi».
Chepngetich si allena sulle colline di Ngong, vicino a Nairobi, senza coach, aggregata a un gruppo di fondisti di buon livello. A Chicago sono state decisive le sue due lepri maschili, in grado di correre la distanza attorno alle 2 ore e 05’.
La prestazione ha ovviamente generato molto scetticismo: in una maratona che ormai è mezzofondo prolungato l’idea di un record stabilito da una ragazza che non ha nessun passato in pista lascia perplessi e il fatto che siano oltre 200 i keniani attualmente sospesi per doping non aiuta. La prestazione di Chepngetich sarà ratificata a controlli antidoping conclusi ma al momento l’atleta va considerata pulita. Orlando Pizzolato, che 40 anni fa trionfava a New York e aveva un primato vicinissimo a quello di Ruth, offre una chiave di interpretazione più sociologica. «Quello di Chepngetich è un risultato scioccante – spiega il vicentino – ma dobbiamo considerare il contesto. Lei si allena in Kenya, unica donna tra maratoneti uomini che corrono in 2h10’ o meno: non ha alternative, fa le stesse distanze alle stesse velocità che tengono loro e così forse ha sublimato qualità già sopraffine. Se potessimo analizzare i suoi valori in laboratorio si aprirebbero forse nuove frontiere. E se atlete come Sifan Hassan che ai Giochi ha vinto tre medaglie in una settimana, compreso l’oro in maratona, si dedicassero solo al record, le 2h09’ magari non ci stupirebbero più».