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 2024  ottobre 17 Giovedì calendario

Intervista a Elio Germano su Berlinguer

Roma – Solleva il pugno chiuso la Festa del cinema, al via con Berlinguer – La grande ambizione di Andrea Segre (dal 31 nelle sale per Lucky Red). Il regista aveva 8 anni e il suo protagonista Elio Germano 4 quando morì il segretario del partito comunista, scomparso sul campo, in modo «eroico» a 62 anni durante un comizio a Padova. Il film va dal 1973 al ’78. Anni tumultuosi di trasformazioni sociali, i dogmi, il mondo diviso in due, un italiano su tre votava Pci e si consumò il primo strappo dall’Urss, fino al tentativo del compromesso storico.
Dalla morte di Allende a quella di Moro. «Non sono morti naturali», dice l’attore. Si trasforma come un camaleonte, la testa incassata sulle spalle strette come Berlinguer, l’accento sardo, l’immancabile sigaretta, lo sguardo lucido e dolente, i silenzi inquieti pieni di cose vive, quel modo di aprire le dita della mano per accompagnare il ragionamento.
Elio Germano, cosa è rimasto di quell’Italia?
«È rimasto il ricordo, l’affetto e il legame. Ci manca quel senso di collettività per cui questo Paese riguardava tutti e non era un ring dove entrare in competizione l’uno contro l’altro; ci si sacrificava per il bene comune, si coltivava la grande ambizione (non quella del proprio profitto personale) nel senso attribuito da Antonio Gramsci».
E cosa ci manca?
«Il credere che le cose si possano risolvere. Oggi siamo attanagliati da problemi irrisolvibili: ti dicono, come si fa a non avere una guerra? È stato un viaggio in un pezzo della nostra storia che non abbiamo vissuto e che abbiamo imparato a conoscere».
Cambia l’approccio se si ridà vita a una persona che la pensa come lei?
«Non è detto che la pensi come me. Io non ho mai avuto la tessera del Pci, che non ho incrociato per motivi anagrafici; ho solo quella dell’Anpi, i partigiani. Ho ascoltato familiari e colleghi di un uomo di cui ho cercato di restituire il rigore e la dedizione agli altri e al bene comune. Ai familiari, dopo l’uccisione di Moro, disse: se dovesse succedere a me, non devono esserci trattative coi rapitori, soprattutto nel caso fossi io a chiedervi il contrario».
Il rischio del santino?
«L’unico modo di evitarlo era rispettare le sue caratteristiche, il non essere sicuro di avere ragione, la messa in pratica del dubbio e dell’ascolto, senza l’idea di dare lezioni. Ho sentito onere e onore».
Ha pensato ai politici di oggi?
«Mai, non ci siamo mai interrogati sulla politica odierna. Oggi siamo monadi che pensano al piacere personale. La grande ambizione del titolo permette una qualità della vita migliore».
La sua è una straordinaria prova d’attore.
«Non era mia intenzione fare un’imitazione esteriore, il linguaggio del corpo doveva rendere il senso di inadeguatezza e di responsabilità di Berlinguer: c’è la fatica cristica di chi porta il peso. Il vero approccio è stato approfondire i temi di cui erano portatori i dirigenti del Pci. Nei dibattiti, la sintesi finale era stilata da chi era contrario».
Nel film ricorre la parola fascista. Oggi per chi è al comando è rimossa?
«Il tentativo di mettere in pratica la Costituzione è osteggiato non solo da fascisti e post fascisti, ma da chi cerca di mantenere privilegi. Spaventa la scarsa possibilità di manifestare il dissenso. Hanno vinto loro? Non lo so. Certo dopo Berlusconi, che diede un’accezione negativa alla parola comunista, si è cercato di cancellare una storia che sembra quasi dimenticata».
Ma l’ideologia comunista è fallita.
«È fallita quella che ha dato vita ai totalitarismi. L’idea del Pci italiano di un socialismo nella democrazia che rende i diritti uguali per tutti è altra cosa. È l’unica forma di sicurezza possibile, se la ricchezza viene distribuita che bisogno c’è di rubare?».